La diversità in un futuro di vicinanze estreme

di Lizzola Ivo

Stranieri tra noi

C’è un’incredibile forza di attrazione che orienta nella piccola propaggine dell’Eurasia intensi flussi migratori, carichi di bisogni e speranze, di attese e di rancori, di memorie e di paure. I muri che la dividevano, crollati, ora la aprono, a nuovi orizzonti, e insieme la espongono: i suoi popoli, e le sue storie, i paesaggi interiori e le psicologie delle donne e degli uomini che la abitano ne sono scossi. E vengono scomposti. Impauriti, piegati in nuove-vecchie chiusure, o su tentazioni sacrificali. Incapaci di questo confronto con la diversità nonostante i secoli della cultura dei diritti umani e della tolleranza; nonostante le radici cristiane.
Tutto questo si vive infatti mentre faticosamente è in corso una costruzione, nuova e urgente – Europa, appunto – nel mondo delle interdipendenze, dei vincoli, delle risorse limitate. Della “guerra infinita”. Dove i deboli possono essere (e paiono essere) ancor più in balia della violenza e dell’arbitrio, o dell’indifferenza.
Europa come rocca, a difesa arcigna (inutile?) dei suoi? Europa come città forte e ospitale, dei diritti, delle differenze, dei dialoghi; della tutela dei deboli e delle vittime?
Noi donne e uomini della costruzione d’Europa, le nostre generazioni, saremo ricordati, e giudicati, dalla nostra opera. E del nostro legame con gli antichi miti fondatori del nostro contraddittorio rapporto con identità e diversità. Quel rapporto indagato con cura da Luiz Carlos Susin, pensatore latinoamericano, che ricostruisce la storia dell’ossessione dell’identità (ricercata come unità e totalità, come l’identico) dell’uomo europeo. Insofferente verso la diversità, specie se manifestata al suo interno: quella delle donne, dei bambini, dei “folli”, degli eretici, delle minoranze…
Ridurre a sé le diversità incontrate con viaggi dà a questi, presto, il carattere della conquista, e della civilizzazione. Lo straniero, l’altro, il diverso è stato ricercato e visitato nei viaggi della scoperta e della conquista, della curiosità e dello studio, per trovare conferma di sé, dei propri saperi, come da Colombo, o al pari di Ulisse che vive il ritorno ad Itaca come compiacimento di sé e misconoscimento dell’altro (così Lévinas in Humanisme de l’autre homme).
Ora ci raggiunge, è lo straniero tra noi: e questo cambia tutto. Cambia sentimenti e forme dell’appartenenza, processi di costruzione della identità e del riconoscimento, modi e regole della cittadinanza, rapporto con la memoria e la cultura. Tutti in qualche misura sradicati, deterritorializzati come dicono gli antropologi, resi stranieri.
La riflessione attorno all’alterità ed all’umano che ci è comune, ripresa con forza in questi anni, è una prima risposta a questo scoprire, e insieme scoprirci, stranieri tra noi. Per provare a dare, poi, sfondo simbolico e corpo, tessuto ad una “convivenza tra stranieri”, occorrerà, poi, riprendere e ri-scoprire il riferimento alla fraternità.
A diversità fraterne, capaci di scoprirsi tali. La vera esperienza della diversità si ha nello scoprirsi diversi irrevocabilmente, pur se figli della stessa madre, dello stesso padre. E nello scoprirsi nella differenza di genere.
Il grande mito del progresso, dell’unificazione del destino del mondo e dei popoli della terra attorno alla razionalità strumentale, al possesso del mondo, al calcolo delle convenienze e al dominio sui destini dei singoli e sulle fragilità, doveva piegare l’irriducibilità della diversità. Ridurre all’Uno – ricorda Susin – secondo alcune popolazioni amerindie vittime della conquista, era il male, significava far finire la vita, distruggersi. La dualità, la molteplicità conservavano, invece, fecondità e futuro.

Una diversità che ci attraversa

La diversità è un’esperienza che ci attraversa. E che sfida il nostro rapporto con il tempo: il futuro desiderabile per noi e i figli dei figli; il passato delle consegne e delle speranze dei padri. La diversità è un’esperienza che ci attraversa mostrando aperta e molteplice la nostra identità, e svelandola incerta tanto più quanto la vogliamo chiudere nell’unità, nella compiutezza d’una tradizione.
La diversità non si dà tanto come incontro, a meno che lo intendiamo come inedito incontro con sé, e con l’alterità cui siamo chiamati e che svela il cammino nel mistero.
La diversità è qualcosa che ci attraversa negli anni in cui non si dà più a noi solo nella rappresentazione a distanza dei racconti, dei media, o degli studi antropologici, o socio-culturali.
Provocando confronto e dibattito, o evocando curiosità ed esotismo. La diversità altrui, una volta lontana, si è fatta così prossima a noi, nei nostri giorni, nei nostri tempi di vita. La diversità nostra entra nelle vite, nelle sorti, nei destini degli altri, lontani vicini. Sentiamo la diversità, nostra e altrui, attraversarci, creandoci inquietudini e smarrimenti. Forse solo le bambine e i bambini sanno costruire primi paesaggi interiori inediti, aperti, ospitali di diversità precocemente incontrate, ospitate, visitate. In quel modo tutto particolare dei bambini che vanno verso ciò che ignorano non per conoscerlo da fuori, ma lasciandosi formare da esso, un poco lasciandosi da esso prendere. Come da qualcosa che è dato, che arriva come una sorpresa: il sapere non è un sapere ma un affidarsi. I bambini sono capaci di conoscenza immediata, i bambini sanno vedere quello che gli adulti non sanno vedere, quello che è invisibile. «Non vedono se stessi e, attraverso se stessi, il mondo; vedono il mondo fuori di loro, nella sua identità». I bambini rispetto all’adulto hanno il vantaggio di «non dover giustificare la loro esistenza»: il bambino vive e ciò basta a riempirgli la vita. Nell’esperienza della bellezza come in quella della sofferenza donne e uomini si lasciano irradiare dal mondo e non sentono l’esigenza di appropriarsene. Cuore e mente coincidono, come con gli amanti e per i morenti. La diversità è bellezza che attrae, misteriosa, e sofferenza, origine d’ansia e rivelatrice del limite.

Nell’estrema vicinanza

Nell’estrema vicinanza la diversità ci prova: «L’etimologia biblica ci rende avvertiti – nota il teologo brasiliano Luiz Carlos Susin – vicinanza e male hanno una radice comune, sicché l’amore del prossimo e l’amore del nemico sono in realtà due forme per esprimere il medesimo comandamento».
L’estrema vicinanza ci porta chi ci “fa del male” e ci “fa portare del male” in altri. Produce sempre maggiore ricerca di sicurezza degli uni contro gli altri, fa elevare barriere interiori ed esteriori. Insieme orienta a cogliere nell’altro prevalentemente il male; e a trarre e tollerare da noi ciò che consideravamo male, sopraffazione, ingiustizia.
La diversità che ci attraversa nella estrema vicinanza è una prova, obbliga a fare i conti con ciò che portiamo nel cuore, anche con il fondo oscuro di timore e di male, di distruttività che teniamo in noi. E che avvertiamo nel vicino.
È una prova dura, chiede un continuo lavoro su di sé, sulla propria interiorità, e chiede una continua trasformazione dei conflitti. Non basta, nell’estrema vicinanza, il riconoscimento formale dell’eguaglianza, o il richiamo del diritto. Assume importanza centrale il tema della fraternità oltre che della (e oltre la) cittadinanza. Ma c’è modo e modo di pensarla e di viverla.
Luogo della significazione, l’abitare può esser questo: la possibilità di tessere un’assunzione in cura responsabile tra uomini limitati e attivi, portatori di energie, idee, attenzioni e sempre portatori di un’ombra.
Nell’estrema vicinanza i nomi propri rischiano di sparire. Sono solo o funzionali o ostacoli all’impresa, al progetto, al delirio di purificazione. Diventano nomi qualsiasi non più unici. Spariscono anche perché troppo vicini e legati in un’avventura, o in un delirio, che non sopporta differenze e riconoscimenti.
La fraternità che si costruisce attorno al futuro unificato e globale (o al delirio della purezza) è una fraternità non di figli ma di eguali, anzi di resi eguali dalla logica organizzativa, dalla razionalità economica e tecnoscientifica. O dall’implacabile logica fondamentalista. Un conto è essere fratelli perché unificati dall’esterno, dall’impresa e dalla sua logica, un conto è esser fratelli perché figli, ognuno unico, segnato dalla cura ricevuta, e da una vulnerabilità che orienta alla reciproca cura. È una fraternità strumentale e omologante quella che ci vede “funzionali” gli uni agli altri all’interno di una impresa; l’unicità sparisce. Certo sparisce anche il conflitto con la fatica della diversità e del riconoscimento del nome, tutto è sostituito dal nome unico del mercato, o della spietata divinità. I nomi propri dei fratelli, tutti figli, sono nomi che segnano invece una dolorosa diversità, segnano la necessità di far spazio all’altro, di riconoscerlo, di ascoltarlo. L’unicità è, poi, segno dell’incompiutezza mentre segna anche l’angoscia che è mossa in noi dal mistero insondabile dell’altro che ci fa temere di non essere adeguati nella risposta alla sua presenza.
L’evidenza della comune filialità, e del segno della vulnerabilità che ci lega, saprà orientarci nella costruzione di una convivenza centrata sulla cura e non sulla forza, sul sostegno delle fragilità e non sull’affermazione di soggetti che si pensano autosufficienti?
Il mito della torre di Babele, la vicenda della pianura di Sennaar ci sono d’avvertimento (si veda il recente e prezioso libro che ci offre Silvano Petrosino, Babele. Architettura, filosofia e linguaggio di un delirio, Il Melangolo, 2003).
La città fatta torre che raccoglie gli uomini ad un certo punto si impone sui suoi soggetti, rovina i soggetti che scompaiono nell’impresa e l’uomo ferito non viene più preso in cura, anzi non viene più neppure visto. Come non viene vista la donna che sta partorendo che, infatti, partorisce in solitudine. All’uomo ferito, alla donna che partorisce nessuno fa più caso. È grande l’attualità di questo testo.
L’unicità di ognuno, e la preziosità della diversità, abita là dove la vita è ferita e sfigurata o non ha ancora assunto la figura: là dove è del tutto nelle mani d’altri come per un piccolo d’uomo, del tutto affidato nel palmo d’una mano. Lì si riscopre la dignità umana, e il segno dell’essere immagine di un Dio che, creando, si fa da parte. Ma non perché si fa indifferente: scende, infatti, a far visita all’abitare dell’uomo, umilmente, rispettosamente attento alla dignità di quello che l’uomo sta facendo. Non distrugge la torre, solo torna a confondere le lingue e a obbligare alla traduzione, obbligare a far rinascere la parola nell’incontro responsabile tra gli uomini unici affidati gli uni agli altri.

L’ombra che è in noi

Ecco, su questo uomo ferito e su questa donna che partorisce bisogna tornare a stendere la vigilanza. Anche oggi. È una vigilanza difficile per un soggetto che rischia di essersi rovinato, in qualche modo dissolto perché incapace di cogliere la dignità dell’uomo nel nascere fragilissimo e nella ferita.
Luogo della significazione, l’abitare può esser questo: la possibilità di tessere un’assunzione in cura responsabile tra uomini limitati e sempre portatori di un’ombra.
Anche la negazione dell’ombra, del potenziale di violenza insita nell’uomo, traspare nel tentativo che rovina nella torre. Solo sapendo di essere portatori anche di un’ombra, di una violenza, sempre redenta da Altri mai da noi stessi, potremo in qualche modo costruire delle forme dell’abitare tra diversi, stranieri, sollecite alla cura reciproca. Queste forme dell’abitare diventeranno anche le forme grazie alle quali vegliamo su noi stessi. Lasciando che gli uomini feriti e le donne che partoriscono ci sorveglino rispetto al buon uso dei nostri saperi, delle nostre intenzioni. Delle nostre costruzioni che, se non vengono sorvegliate, si impossessano di noi.
Il nostro tempo, come mostra un altro recentissimo e prezioso libro di Stefano Tomelleri – La società del risentimento (Melteni, 2004) – è anche il tempo in cui emerge e si diffonde una particolarissima preoccupazione per le vittime, per gli uomini feriti, per le donne che partoriscono. E forse questo salverà questo tempo dei destini consegnati gli uni agli altri: la preoccupazione per le vittime, non solo le proprie vittime, ma per quelle lontane, straniere, altre. Contro lo scialo di morte del terrorismo suicida, e contro l’anestetizzazione del male e del dolore provocata dalla continua rappresentazione indifferenziata del dolore e della violenza.
Abitare l’Europa mondo in un nuovo inizio, nuova genesi, è costruire istituzioni, relazioni, economie e uso dei saperi tenuti alla veglia dal mistero dell’uomo ferito, della donna partoriente, del canto, della bellezza. Della tenerezza.