La sollecitudine per l’altro

di Collard-Gambiez Michel e Colette

Riflessione a due voci

Da vari anni Colette e Michel CollardGambiez condividono concretamente la vita delle persone senza fissa dimora in diverse città della Francia e del Belgio. Hanno scelto di essere loro stessi senza casa e senza mezzi, e seguono i circuiti di vita e di sopravvivenza di coloro a cui si sono uniti.
Giungendo a mani vuote fra gli sprovvisti d’ogni mezzo, essi si lasciano semplicemente incontrare e ricevere da loro in una presenza sorprendentemente amichevole e fraterna. Diventano così gli ospiti dei senza tetto.
Il mondo alla rovescia! Nel 1998 hanno pubblicato un libro tradotto in italiano col titolo "Un uomo che chiamano CLOCHARD Quando l’escluso diventa l’eletto", Ed. Lavoro / Macondo Libri, Roma 1999: un libro­testimonianza, ricco di un vissuto concretissimo, accompagnato da riflessioni e analisi varie.

Colette
È l’essere umano, sin dalla nascita, spontaneamente rivolto ad altri? Senza dubbio, in parte. Mi sembra che, come il bene e il male coabitano da sempre nell’umanità, così l’uomo sia portatore di energie centripete che lo riconducono a se stesso (in maniera talvolta eccessivamente egoista, esclusiva e autoritaria), ma anche di forze centrifughe che lo invitano più o meno istintivamente e liberamente a farsi strada verso l’altro, verso il suo simile, che è però anche il diverso da lui. Questo secondo movimento, tuttavia, non è totalmente innato e mai completamente acquisito. Il bambino, il giovane hanno bisogno di farne esperienza, prima nella propria famiglia, poi attraverso vari impegni personali per imparare progressivamente, sentire e "misurare" quanto l’incontro con l’altro, con gli altri, sia una fortunata occasione sul suo cammino di compimento umano e spirituale.
La capacità di meraviglia, il desiderio di scoperta, di dialogo, di "giusto" confronto del proprio "io" con l’"io degli altri" si imparano (o non si imparano) assai per tempo e si educano giorno per giorno. Anche se la "preoccupazione per l’altro" è stata (lo è ancora?) presentata come una virtù cristiana (vedi il famoso amore del prossimo), è certo che molti altri credenti e anche famiglie agnostiche o atee possono essere impregnate in profondità di un magnifico slancio umanista che si inscrive in molte e svariate maniere in una lotta per la giustizia e per la pace. Michel ed io abbiamo avuto la grazia di crescere in universi nei quali dapprima e in larga misura abbiamo "beneficiato della sollecitudine" (= amore) dei nostri genitori nei nostri riguardi. È un dono d’inestimabile valore! Quando viene a mancare, se ne misurano rovine quasi irreparabili. Abbiamo appreso la bellezza e l’esigenza del servizio. I genitori sono ancora questo tipo di educatori? Il Vangelo, nella persona e nella vita di Gesù, è stato e resta una formidabile leva, una fonte inesauribile che, da una parte, ha plasmato le nostre essenziali scelte di vita, e, dall’altra, ci fa gustare, ancor oggi, quanto la "sollecitudine per l’altro", come noi la sperimentiamo, sia proprio la gioia profonda e senza posa rinnovata di tutta la nostra vita personale e di coniugi.

Michel
Nel mio itinerario personale, la sollecitudine per l’altro ha preso una svolta determinante quando, da giovane frate francescano, cercavo di dare un orientamento concreto alla mia vita.
Come capita sovente in casi simili, sono stati incontri che lasciano il segno a guidarmi nella mia ricerca. Così, sono stato condotto per la prima volta nella mia vita ­ avevo circa 23 anni ­ a penetrare nel mondo della grande miseria proprio al centro delle nostre società ricche. Questa scoperta ha provocato in me uno sconvolgimento profondo, una specie di nuova nascita. Non scoprivo soltanto un’umanità diversa da quella in seno alla quale ero fino ad allora cresciuto, ma imparavo soprattutto una nuova maniera di "comprendere" il mondo. Fino a quel momento il mio modo di vedere era piuttosto meschino, convenzionale, marcato da una religione del dovere e del merito, che faceva dell’onorabilità, tra le altre, una virtù pressoché essenziale. Ora, bisogna dirlo, in mezzo a quei "tipi" (i poverissimi) questa sedicente virtù non saltava affatto agli occhi! Ciò che ho imparato tra coloro che mi hanno educato nell’incontro dei poverissimi, è che la prima cosa da fare, se veramente ci si vuole interessare di loro, è ascoltarli. E ascoltarli vuol dire in primo luogo rinunciare al proprio modo troppo affrettato e istintivo di giudicare una situazione a partire dai propri criteri e dalle proprie risorse. Fare parimenti tacere tutti i pregiudizi, tutte le buone parole e soprattutto i consigli, per non dire i rimproveri, che si è così spesso inclini a prodigare ai poveri per il loro bene.
Queste persone sono così ferite che bisogna imparare a fare silenzio, a guardare, ad ascoltare in profondità.
Avere il coraggio di lasciare che lo sguardo dell’uomo che soffre ci raggiunga scendendo fino al fondo di noi stessi. In questo nuovo modo di essere, sentivo che era in gioco qualcosa di importante, vale a dire che l’altro, per quanto svilito mi apparisse, si mostrava a me con un suo proprio volto.
Egli aveva, dunque, veramente un proprio posto, che dovevo imparare a rispettare pienamente, desideroso di comprendere l’incomprensibile e d’essere testimone d’un vissuto cui non avevo, a tutta prima, accesso, perché così estraneo al mio.
Come, per esempio, nelle nostre società fondate sulla scrittura, uno che non ha appreso né a leggere né a scrivere, può captare il reale, diventare esperto nelle molteplici dimensioni dell’esistenza? In quale posizione sociale verrà a trovarsi? La sollecitudine per l’altro, da questo punto di vista, non consiste dunque nel considerare indigente come uno che non sa e a cui si detterà cosa deve fare, ma innanzitutto nell’imparare da lui di che cosa è fatta la sua vita, e com’egli la vede, come la vorrebbe, la subisce forse, ma anche come la porta avanti e la difende giorno per giorno. D’altra parte, questo modo d’accostarsi al povero, improntato a rispetto, pudore, delicatezza, veniva rafforzato dalla sensibilità umana che scoprivo sempre più in Francesco d’Assisi. In particolare, il suo ardente desiderio di essere "uno" in mezzo a tutti gli altri, nel cuore della creazione. Non soltanto "essere uno" tra gli uomini, ma uno anche in mezzo a piante, animali, stelle, vento, acqua e fuoco. Desiderio d’essere "uno in mezzo a", e "uno fraterno". Francesco non si dava tregua per diventare un essere fraterno. Anche qui si coglie bene la posta in gioco d’una sollecitudine per l’altro che non sia intaccata da alcun sentimento di superiorità, di dominazione, di conquista, di paternalismo.
Francesco d’Assisi, nei pochi scritti che possediamo di lui, non inviava i suoi frati a guarire i lebbrosi o a soccorrere i mendicanti, ma li invitava soprattutto a «rallegrarsi di essere in loro compagnia». Unicamente la gioia d’essere insieme. Una visione rivoluzionaria della carità tradizionale, perché l’"essere insieme" è più importante del "fare". Un essere insieme fraterno, suscitato dalla povertà. La povertà evangelica rende infatti profondamente liberi: nell’incontro con l’altro, non c’è nulla da desiderare di possedere, da conquistare, da difendere.
Non c’è più nemmeno il bisogno di volerlo cambiare, di educarlo. C’è soltanto il desiderio di accostarsi a lui come ed un fratello.

Colette
Oggi, nel nostro stare insieme con le persone senza casa, è questo stesso sentire, questa stessa vibrazione a sostenerci e a rallegrarci. Noi desideriamo unicamente avvicinarci con dolcezza a coloro che non hanno più posto nella vita sociale per lasciarci ricevere da loro. Con una formula un po’ paradossale, si potrebbe dire che l’interessamento che noi abbiamo per il povero consiste innanzitutto nel restituirgli la possibilità di interessarsi a noi.
Così, venendo a mani nude presso coloro che diventano a poco a poco compagni e amici, la sollecitudine che noi manifestiamo loro risveglia le potenzialità loro proprie di prendersi cura di noi. Strano rovesciamento che conduce alle meraviglie, ai miracoli, oseremmo dire, della tenerezza condivisa: alcuni ci invitano nel loro squatt con la precauzione di farci trovare preparate in anticipo delle coperte, altri ci riservano un posto al loro fianco in un centro d’accoglienza dove vengono offerti dei pasti. Altri ancora ci fanno capire che la nostra semplice presenza è un conforto nella loro disgrazia, incoraggiandoci, quindi, per ciò stesso a proseguire il nostro cammino in mezzo a loro.
Gli esclusi, eternamente assistiti, sono, infatti, anzitutto degli esclusi dalla capacità di dare, e più ancora di darsi. Sono mutilati della possibilità d’amare perché non c’è nessuno a ricevere il loro dono. Sta qui il dramma più essenziale di donne e uomini condannati alla miseria della strada.
Sofferenza infinitamente più acuta delle scomodità concrete sulle quali pure fissiamo il più delle volte tutta la nostra attenzione, riducendo così l’umanità del povero al suo guscio, alle sue carenze visibili, occultando le dimensioni culturali e spirituali, costitutive di ogni vita umana. Come un giorno si esprimeva una giovane donna: «La gente mi chiede senza posa come faccio per mangiare, per dormire, per scaldarmi», ma lei esclama: «Dopo tutto questo, come faccio per vivere, vivere dentro di me? Ebbene, questo non interessa per niente!». La sollecitudine per l’altro non dovrebbe dunque essere l’angustiante preoccupazione di soddisfare necessità materiali, ciò che troppo spesso contribuisce a umiliare il povero, ma dovrebbe ridargli esistenza e consistenza grazie a uno scambio relazionale, a un incontro umanizzante perché veramente vissuto in eguaglianza d’umanità. Troppo spesso noi siamo anzitutto ed esclusivamente preoccupati di "fare qualcosa" là dove occorrerebbe piuttosto colmare le nostre relazioni, i nostri incontri di autentica presenza. Infatti l’assenza o la perdita di legami positivi e valorizzanti costituisce la più grande mancanza, la miseria più abissale di coloro che soffrono di isolamento, d’abbandono, d’esclusione.
Per questo motivo, nell’impegno che ci caratterizza di incontrare persone in situazione di erranza (vagabondaggio), senza dimora e più ancora senza legami sociali e affettivi, è proprio l’incontro stesso che diventa, in quanto tale, la manifestazione dell’interessamento per l’altro.
Non voler salvare l’altro, non desiderare di cambiarlo oppure proiettare su di lui i nostri bisogni e i nostri desideri, bensì camminare fraternamente con lui, fare un pezzo di strada insieme, scoprirsi di esistere nello scambiarsi uno sguardo, un sorriso, un abbraccio. La preoccupazione per l’altro, che potrebbe talvolta diventare inquietudine malsana, coscienza colpevolizzata e/o colpevolizzante, possesso, si trasforma allora in uno scambio libero e leggero al centro d’una presenza reciproca e feconda. Si tratta, in fondo, di accompagnare, d’"accettare anche compagnia" e non di sostituirsi­a. Accompagnare uno che soffre, vuol dire pure misurare il mio passo sul suo, muovermi al suo ritmo, essere presente a quello ch’egli vive, permettergli, con attenzione discreta, di ritrovare i propri desideri più profondi, sepolti a volte sotto le macerie di troppi fallimenti. Accompagnare è ridare vita a questi desideri, permettere loro di esprimersi in un benevolo faccia a faccia. Non si aiuta veramente qualcuno se non sapendone accogliere la sofferenza, posando su di lui uno sguardo luminoso. È questo sguardo che invita l’essere che sta soffrendo a prendere coscienza di ciò che ha in sé di luce. Confermare qualcuno nel suo valore, nella sua essenza, significa permettergli di raccogliersi interamente, di rimettersi in piedi anche quando è sprofondato nella disperazione.

Michel
L’uomo in balìa della strada smarrisce progressivamente tutti i punti di riferimento, soprattutto i legami che ci fanno esistere. Sentendosi a poco a poco estraneo al mondo che lo circonda, egli diventa, più fondamentalmente ancora, estraneo a se stesso.
L’esclusione sociale prolungata, vissuta come un abbandono, contribuisce fortemente alla perdita d’identità dell’essere in quanto soggetto.
La grande miseria dei nostri paesi sviluppati risiede effettivamente in questo: i poveri si sperimentano come degli scarti, dei rifiuti. Hanno fallito in tutti i campi. Giorno dopo giorno, essi si svalutano e si colpevolizzano, interiorizzano di essere dei "buoni a nulla", tanto più che la società nel suo insieme (cioè noi, i cittadini ma anche i servizi, le istituzioni, ecc.) si incarica di far loro sentire che sono colpevoli e indesiderabili.
Ora, l’assenza di destinatario effettivo e affettivo della parola, del grido, della disperazione lanciate dai poveri, provoca l’angoscia, la chiusura in se stessi oppure la rivolta e la violenza, soprattutto tra i più giovani. Ed è probabile che queste invocazioni senza risposta possano essere all’origine della confusione mentale che si riscontra così sovente nelle persone che conducono una vita errante. Da qui l’importanza, assolutamente essenziale, della relazione. Ben più che pane, vestiti o anche un tetto, è urgente offrire alle persone senza fissa dimora una relazione: una relazione umana e umanizzante.
Ci pare, infine, egualmente importante sapersi ritirare a tempo, imparare a decolonizzare le nostre relazioni, cosa che è sempre assai difficile nell’esercizio della bontà. L’episodio evangelico del Buon Samaritano, come lo si chiama comunemente, ci indica bene che la compassione verso l’uomo ferito al bordo della strada non si prolunga al di là del necessario. Questo viandante sensibile affida d’altronde molto presto a qualcun altro, il locandiere in questo caso, la cura del ferito. Bisogna, dunque, sapersi eclissare, imparare addirittura a scomparire. Permettere ad altri d’essere se stesso, lasciargli la strada libera e continuare pure da parte nostra il nostro viaggio.
Un ultimo aspetto: abbiamo già ricordato che per noi questa sollecitudine per l’altro, per il povero in particolare, ha avuto origine, in gran parte almeno, dal Vangelo e al seguito di figure come quella di Francesco d’Assisi. Tuttavia, per ciò che in ogni caso mi riguarda e così come intendo oggi le cose, non è a motivo di Dio né per Lui che perseguo questa forma di vita e di presenza. Gesù e Francesco mi hanno semplicemente sedotto, aprendomi dei sentieri sui quali camminare, verso il compimento d’una umanizzazione che mi si presenta desiderabile. Se nel mio itinerario Dio, e in senso più largo tutto ciò che ha costituito la mia esperienza religiosa, è all’origine della mia sollecitudine per l’altro, credo di poter dire ora che nutro maggiormente interesse per l’uomo che per Dio. Ogni amore si nutre di momenti privilegiati, ma nella misura in cui, come suggerisce Lévinas, la presenza di Dio è essenzialmente da scoprire nel volto dell’altro, è verso quest’altro che desidero voltarmi, senza con questo negare che nel cuore dell’incontro vissuto nel modo che abbiamo sopra descritto, sia anche presente un Altro e che Egli sia Colui che dà all’incontro tutta la sua densità e profondità.

Michel e Colette Collard-­Gambiez
febbraio 2001
(traduzione di Enzo Demarchi)