Che nome dare al presente?

di Stoppiglia Giuseppe

“La fortuna aiuta i pazzi,
la saggezza rende riservati i sapienti”.
[Erasmo da Rotterdam]

“Per ogni povero che impallidisce di fame,
c’è un ricco che trema di paura”.
[Louis Blanc]

Può accadere, viaggiando in treno sulle linee interregionali (almeno qui nel Nord-Est) di incontrare quei gruppi di donne africane che si spostano ogni giorno. È facile e direi molto triste indovinare la loro attività. Per lo più sono sguaiate, ridono rumorosamente, parlano urlando, si muovono in continuazione su e giù per il vagone. Non tengono conto o non s’accorgono, né si immaginano le reazioni che provocano nel perbenismo e nel razzismo combinati assieme, che trovano facile alimento nella loro incosciente provocazione.
Ma eccone una più giovane, appartata, silenziosa, pensosa. Allora credo di capire meglio. Può anche darsi che siano selezionate per grossolanità personale, ma certamente sono ingannate e ricattate, sfruttate da delinquenti. Allora quella sguaiatezza si spiega anche con l’alcool, o la droga: un autostordimento contro la tristezza della sorte. Un giorno tre di loro erano sedute attorno a me, continuamente mi urtavano con le loro borse e i loro movimenti, senza neppure accorgersene.
Prima di scendere ho detto loro: “Non dimenticate l’Africa, il vostro villaggio, perché l’Europa non è migliore”. Mi hanno guardato stupite, senza rispondere. Temo di aver dato loro più dolore che aiuto.

La forza della relazione
Nella città brasiliana di Recife, dove miseria e opulenza si mescolano secondo il modello di ogni città, osservo lungamente un adolescente seduto nella zona d’ombra della porta di un bar. È uno dei tanti senza famiglia che vagano in cerca di un posto dove passare la notte. Osservo il dialogo muto con il cane, che sta alimentando con gli avanzi di un panino che un cameriere complice gli ha passato.
La relazione pare pacifica; il ragazzo ha trovato l'”altro” con cui dialogare e finalmente trovare l’accoglienza negata. Mi sento triste di essere uno dei tanti che non ha accolto.
Dalla bocca del ragazzo ho raccolto la storia di questa relazione, e sono rientrato a casa sereno. Il ragazzo scoraggia quel residuo di efficientismo europeo che resiste definendosi carità, perché non ha nessun bisogno di pronto soccorso. Non sarebbe disposto ad abbandonare alla porta il suo amico: meglio dormire all’addiaccio che sentirlo gemere tutta la notte la tortura della separazione. Il ragazzo mi racconta quello che avevo visto prima di avvicinarmi: la storia di una grande amicizia che lo ha riconciliato con la vita.
La notte della città è piena di insidie, e quando uno dorme, l’altro monta la guardia. “Quando i compagni mi assaltano in gruppo perché vogliono portarmi con loro, vede, questo “compagno” che sembra così mite, diventa una tigre, nessuno mi può toccare. Avevo tentato molte volte di separarmi dal gruppo – racconta – ma non ci ero mai riuscito; ora mi sento padrone della mia vita e lo devo a lui”.
Penso che sarebbe più giusto che il suo “altro” fosse un padre, un fratello, ma nel dialogo si profila davanti a me una coscienza fiera e limpida: l’adulto ormai non lo spaventa più. Ricordo un film di Fellini: su di uno sfondo di persone stanche, nauseate, irrecuperabili guizza la sagoma di un adolescente negro, come un pesce che emerge da uno stagno, ed è il simbolo della vita che sfugge alla presa della morte.

Una realtà affidabile
Trovo tra la mia corrispondenza la lettera di un giovane amico, brevissima eppure di una densità eccezionale. “Sono abbastanza confuso, sento il desiderio di una vita di base, di convivere con un gruppo semplice, senza molte esigenze, ma allo stesso tempo affidabile e forte”. Affidabile e forte: raramente un giovane esprime con tanta chiarezza la vera necessità della gioventù: che non parta cioè dall’idea, dal progetto astratto, ma dal fenomeno visibile che stimola l’intelligenza a pensare il nuovo.
“Il disagio dei giovani – scrive Umberto Galimberti – e il loro stordimento strutturale per contenerlo, penso non sia solo un sintomo del disagio della società in cui i giovani si trovano a vivere, ma anche un modo nuovo di essere uomini, importato da quel paese senza storia che è l’America, dove il passato ed il futuro non contano niente, perché quel che conta è quell’assoluto presente, dove se il mondo oggi funziona ci salto sopra, e se invece oggi non funziona allora bevo”.
Importata in Europa, la cultura americana ha sottratto ai giovani il sentimento di appartenenza ad una comunità. Se i giovani arrivano a vivere ed agire facendo affidamento esclusivamente su se stessi, deducono che instaurare relazioni sia una strategia fallimentare, qualcosa cioè che allontana dal sogno di fare della propria vita un capolavoro.

I non luoghi:
supermarket e solitudine

Nelle città postmoderne del ricco Nord del mondo, pur tra mille contraddizioni si viene inoltre affermando un processo di virtualizzazione della polis, delle sue funzioni e dei suoi abitanti.
Assistiamo così alla massima proliferazione di non luoghi (caratterizzati dal fatto di non fornire identità, di non essere storici, di non essere relazionali) frutto di tre eccessi tipici dell’età contemporanea (informazione, immagini, individualizzazione).
Alla casa come dimora si oppone il transito; alla piazza che sorge a partire da un crocevia si oppone lo svincolo (che serve ad evitarsi); al monumento (che storicizza e costituisce un punto di aggregazione simbolica) si oppone l’insediamento commerciale periferico (gli ipermercati al posto delle cattedrali: e dentro gli ipermercati ancora svincoli…); al viaggiatore si oppone il passeggero (colui che è definito non in sé ma dalla sua meta di destinazione). Da qui nuove identità (o meglio non-identità) costruite sulla contrattualità solitaria, sullo spaesamento, sul “non” piuttosto che sul “con”.
Nel tempo dei non luoghi cambia anche il senso del conflitto sociale e muta radicalmente, il senso della relazione sociale, il contratto di solidarietà tra umani.
I non-luoghi costituiscono le nuove località centrali, che generano “periferie e ghetti”. Ed ogni non-luogo, in fondo si trasforma in ghetto e periferia. In fredda solitudine. In assenza di relazione. In mancanza di reciprocità. In eclissi di solidarietà. In disinteresse. I vissuti dominanti risultano così essere noia, cinismo, spaesamento, paura, colpa.

Confronto nella comunità
In un tale contesto di ambiguità è naturale il bisogno di segnali forti. Prevale però l’emozione smodata, l’eruzione isterica dell’inconscio personale e collettivo, oppure il consumismo dionisiaco e spensierato di tempo e di vita. Sono molti ad avere smarrito i sentieri della vita, grande è la folla solitaria che consuma voracemente emozioni collettive (siano esse sportive o di funerali, di moda o di orrore, religiose o profane) per esorcizzare la propria sofferenza, sentirsi meno smarrita, dare una parvenza di senso ad una vita “in-sensata”.
A questo punto mi chiedo se almeno parte dell’indifferenza verso la chiesa non sia motivata dal fatto che i cristiani non hanno saputo, in questi ultimi decenni, far nascere autentiche comunità che siano spazio di libertà, di franchezza evangelica e di confronto, dove il dibattito e la critica evangelica siano accolte come dono, non come minaccia; dove l’intelligenza e la creatività non siano mortificate ma valorizzate, dove l’amore fraterno, pur negli inevitabili conflitti, assicuri un clima di fiducia, di apertura, di confidenza. In assenza di luoghi ove fare esperienza di apertura e dialogo ci ritroveremo a fare i conti con una New Age, una nuova era, contrassegnata da un supermercato del religioso, in cui ciascuno può acquistare e combinare a propria scelta brandelli di certezze appaganti nella ricerca di una regressione nel grembo di una Madre cosmica, protettrice contro l’alterità esigente del Padre.
Tranquillità narcotizzante, che affranca l’individuo dall’essere massa, negandogli la comunione interpersonale, che lo esenta dalla lotta tarpandogli le ali del confronto.

Dimensione dell’anima:
la donna

Sono profondamente convinto che è “in atto l’esperienza di un Dio amico dell’uomo, liberatore di ogni paura, servo delle sue creature, innamorato di tutti gli esseri, capace di compassione e di accoglienza per tutti, che abita nell’intimità dell’universo e ad ogni momento vuole nascere nel cuore umano, per essere motivazione di ogni passione, l’irradiamento di ogni amore, il senso dell’insaziabile ricerca di questo cuore. Un’irruzione di Dio nella cornice del nuovo paradigma emergente, in cui si integrano mascolino e femminino, l’umano ed il cosmico, il materiale e lo spirituale” (L.Boff).
Sostengo da tempo che il prossimo sarà il secolo della donna, e per questo potrebbe essere il secolo della spiritualità. La donna detiene infatti la vocazione messianica di riscattare nel maschio e nella femmina la dimensione dell’anima, tanto rattrappita e messa da parte nella cultura patriarcale. La dimensione dell’anima è la capacità di essere sensibili alla vita e al suo mistero, di captare l’unità complessa del reale, di decifrare il messaggio segreto di ogni essere: dalla luminosità degli occhi di un bambino, alla supplica degli occhi di un cane abbandonato- la compassione per quelli che soffrono, il reincantamento di fronte alla natura, l’apertura alla tenerezza.

Decodificare i segni del tempo
Senza questo recupero dell’anima, non è possibile la spiritualità; intesa come esperienza di incontro con il divino. La spiritualità può imporre dei limiti al potere divoratore della modernità, e conferirgli l’innocenza necessaria perché si faccia servizio, in funzione di un’alleanza nuova con la natura e con gli umani.
Occorre decodificare i segni del tempo, rintracciando in essi appelli per la speranza messianica, senza lasciarsi prendere dalla paura, attorcigliandosi nevroticamente sulle verità irrigidite e ripetute senza pathos.
“Ci sono periodi della Storia in cui gli oscuri tamburi di Dio si possono udire a mala pena fra i rumori di questo mondo. Allora è solo in momenti di silenzio, rari e brevi, che il loro suono si può debolmente avvertire. Ma ci sono altri tempi: sono quelli in cui Dio si sente in tuoni roboanti, in cui la terra trema e le cime degli alberi si curvano sotto la forza della sua voce. Agli uomini non è dato di far parlare Dio. A loro è dato solo di vivere e di pensare in modo che, se dovesse venire il tuono di Dio, non siano del tutto sordi” (P.L.Berger).
Oggi questo tuono di Dio passa certamente anche attraverso i gemiti della creazione depredata e violentata dall’avidità del dominio assoluto dell’uomo. Sono in debito di una risposta al giovane amico. Non trovo nulla di meglio di queste parole di Bonhoeffer che ha capito di doversi spogliare di falsi soprannaturalismi per affrontare e lasciarsi affrontare dalla dura realtà della vita: “L’esistenza adeguata, conforme, commisurata alla realtà, è partecipazione alla sofferenza di Dio nella vita del mondo, partecipazione all’impotenza di Dio. È questo il modo di esistere attraverso il quale si diventa uomini e si diventa cristiani”.

Pove del Grappa, febbraio 1999

Giuseppe Stoppiglia
fondatore e presidente
dell’Associazione Macondo