Complessità e comunicazione sociale

di Bertolo Carla Maria

Fino a non molto tempo fa, l’espressione «comunicazione sociale» era pressoché sinonimo di pubblicità sociale. Dall’iniziativa estemporanea (evento puntuale, volantino o spot televisivo o radiofonico…) a progetti più elaborati e complessi di marketing sociale (articolazioni delle campagne sociali sulla base della definizione dei destinatari, ricorso a una pluralità di strumenti e di canali…) si rimaneva incollati a un’idea della comunicazione come applicazione di tecniche comunicative per raggiungere un obiettivo dato (visibilità, immagine, raccolta fondi, promozione di evento…). Oggi cambiano gli oggetti, ma le caratteristiche di riferimento per la costruzione e validazione del progetto comunicativo rimangono quelle dettate dal marketing profit.

Da cenerentola a principessa

A partire dalla metà degli anni ’90, questa identificazione tra comunicazione e pubblicità ha cominciato a vacillare; sono emerse le contraddizioni e le ambiguità. Il quadro comincia così ad ampliarsi e a complicarsi. Con il suo passaggio da «cenerentola a principessa», da strumento opzionale a modalità imprescindibile di relazione con l’ambiente di riferimento, la comunicazione sociale si configura come una vera e propria pratica di azione che richiede ne siano rese esplicite le poste in gioco a tutti i livelli, compreso quello della responsabilità rispetto agli effetti prodotti, anche e soprattutto per quelli non voluti.

Lascio qui sullo sfondo il tema ampliamente dibattuto della complessità sociale che caratterizza oramai da decenni la nostra società tanto a livello macro (l’economia/finanza globalizzata, la ridefinizione dei gradi di autonomia della politica/stato…) quanto a livello micro (processi di individualizzazione, orizzonti esistenziali ridisegnati dalle dinamiche di incertezza, precarietà…), mutando, anche grazie alla rivoluzione delle nuove tecnologie, le coordinate di riferimento, quali tempo e spazio, la relazione tra individuale e collettivo, le dinamiche di fiducia…

Dare per acquisita la complessità ci consente di concentrare l’osservazione su quanto accade nei mondi di vita della quotidianità, dal punto di vista dei mutamenti che con essa si sono prodotti nell’universo delle pratiche collettive e del loro incrociarsi con le esistenze degli individui (stili di vita, rappresentazioni della società e del sociale, …), per cercare di comprendere come sia cambiata la prospettiva della comunicazione sociale e come sia necessario interrogare le rappresentazioni che ne abbiamo e che attualizziamo in progetti comunicativi.

Parole chiave e nuovi processi immaginari

Se riflettiamo su alcune delle parole chiave che caratterizzano i progetti di comunicazione sociale cogliamo immediatamente la complessità delle questioni messe in campo: partecipazione, solidarietà e responsabilità, civismo e cittadinanza attiva, sostenibilità degli stili di vita e dei comportamenti, diritti e inclusione sociale…

Alla comunicazione sociale si affida oggi il compito di essere modalità di trasmissione-elaborazione-azione di nuove, ri-declinate, responsabilità sociali, di rivitalizzazione di dinamiche di cittadinanza, di ri-condivisione collettiva dei significati dell’interesse generale e del bene comune.

Se ci riconosciamo in questa prospettiva, comprendiamo come mai al presente più che di tecniche si senta necessità di riflettere sugli attori e sui significati dell’azione, sui processi di cui siamo protagonisti nelle nostre comunicazioni, e sui significati che veicoliamo attraverso le rappresentazioni che proponiamo, per le quali le emozioni messe in campo e le identificazioni messe a disposizione sono una potente leva di radicamento dei messaggi.

La complessità della comunicazione sociale sta in questo suo essere modalità intersoggettiva di attivazione/diffusione così come di consolidamento/innovazione di «immaginari» e di «comportamenti» di solidarietà. Un nodo questo che mi sembra non possa essere occultato o ignorato da attori sociali la cui identità è data proprio dall’orizzonte pro-sociale.

Dallo spot commerciale alla partecipazione

Propongo un esempio, abusato ma sempre efficace. È diventata consuetudine lanciare grandi appelli (spot) di fund raising (raccolta fondi), facilitando l’attivazione del pubblico – a fronte di eventi drammatici – con il ricorso alla

rapidità e semplicità di adesione/risposta (sms, numero verde, internet). Dallo tsunami alle carestie, dal campo profughi all’emergenza sanitaria… Modi efficaci indubbiamente nel raggiungere il risultato di raccogliere denaro, ma per nulla efficaci rispetto all’esito, cioè al riconoscimento del problema. Sta a dire, il riconoscimento delle cause e di come ci possiamo rendere attivi nella sua gestione e nel suo superamento con l’assunzione di una responsabilità che riguarda «anche» il mio modo di stare al mondo (il mio stile di vita, di consumo, di relazioni, di impegno…). Il problema sta nel fatto che tali comportamenti comunicativi mettono insieme due aspetti, entrambi problematici: la spettacolarizzazione del dolore e la possibilità di rifugiarsi in una solidarietà «pigra» per attivare una «nuova modalità di consumo di massa».

Quello della comunicazione sociale è un campo pieno di ambiguità, contraddizioni, opacità. Il punto di svolta sta nel mettere in secondo piano la rincorsa all’evento o allo spot più spettacolare, esteticamente dirompente, tecnicamente avanzato, per esplicitare la natura della comunicazione di cui si è attori-protagonisti. Sta a dire, rendere esplicito il legame tra concetti, valori di riferimento, orientamenti della propria azione, stili di relazione e di responsabilità… con le modalità che si scelgono per comunicare. Essere consapevoli di quanto e come si sta «mettendo in comune» con la comunicazione, affinché essa possa costituirsi come patrimonio di simboli e rappresentazioni condivise con coloro che si sceglie di includere nel proprio progetto che si colloca in un riconosciuto orizzonte di senso.

Nuova consapevolezza e responsabilità

Tante facce della comunicazione sociale ci pongono oggi altrettante domande, alle quali si tenta di rispondere aprendo nuove prospettiva di ricerca. Quello che ci sembra essere il punto di partenza comune è la consapevolezza della responsabilità che sta nelle scelte comunicative e che richiede di riconoscere le dimensioni con cui si gioca, incontrando le esperienze degli individui nei tanti mondi di vita. Come orientarsi, allora, nelle scelte comunicative? Osservando la propria comunicazione non tanto, o solo, come analisi qualitativa e quantitativa dei prodotti-feticci (gli spot pubblicitari, gli eventi in piazza, foto, scritti…), quanto come espressione di un orientamento all’altro e all’azione che contiene-esprime le rappresentazioni che stanno a monte (l’idea di società, di qualità di cittadinanza e di relazioni…) e che radicano modelli di solidarietà. Comprendere la propria domanda di comunicazione per collocarla rispetto all’esito desiderato che può diventare, una volta reso trasparente, terreno di valutazione e assunzione di responsabilità verso il suo perseguimento. Il presupposto sta nella volontà di attivare una (auto)riflessività permanente, che riguarda a monte i propri modi di agire e a valle gli effetti voluti e non voluti che contribuiamo a produrre.

Maria Carla Bertolo
dipartimento di sociologia
università di Padova