Il difficile passaggio al pluralismo

di Fabiani Barbara

Due passi indietro e lo sforzo di capire

Premessa
Ci sono molti modi per far torto ad un popolo. Applicare schemi riduttivi e semplificazioni sulle ragioni della sua sofferenza, ad esempio, è uno di questi.
L’Algeria vive da sei anni una guerra civile sanguinosissima (le statistiche vanno dai 60.000 ai 100.000 morti), che non sempre la stampa internazionale tratta con il rigore informativo che una situazione tanto complessa merita. Piuttosto si preferisce rilanciare categorie manichee in occasione di ogni massacro.
Lo scopo di queste poche pagine non è quello di suscitare l’ennesimo e sempre doveroso sdegno davanti allo sterminio brutale di migliaia di innocenti, ma quello di fornire alcuni elementi di analisi perché la riflessione possa accompagnare lo sdegno e renderlo indelebile.

Indipendenza dell’Algeria
Governo e militari

L’Algeria ha conquistato l’indipendenza dal colonizzatore francese nel 1962, dopo 132 anni di occupazione. Tra gli attori principali della guerra di liberazione algerina l’esercito popolare di liberazione nazionale (Aln) ebbe un ruolo fondamentale, conquistando l’ammirazione e il riconoscimento dell’intera popolazione algerina. Dopo la vittoria, l’Aln venne a costituire lo scheletro della classe politica algerina. Questo vincolo tra esercito e governo sarà tra le prime cause delle difficoltà algerine a sviluppare una società realmente democratica e pluralista.
Nel 1965 il Fronte di Liberazione Nazionale, espressione politica della classe militare, diventa il partito unico; con il presidente Boumedienne inizia una politica caratterizzata da un tentativo di sintesi tra un’economia socialista e l’islam, interpretando quest’ultimo come una connotazione culturale del popolo algerino da recuperare dopo gli anni della colonizzazione francese. Un particolare esempio di “concessione” del governo alle istanze religiose fu la promulgazione nel 1984 del “Codice della famiglia” unico elemento “coranico” in una legislazione laica, in cui la donna venne relegata ad una condizione di “minorenne a vita” con molti dei suoi diritti civili gravemente amputati.
Nei venticinque anni successivi alla liberazione le speranze della popolazione algerina venivano progressivamente deluse da un governo che, oltre a ritardare il passaggio al pluralismo, non era in grado di controllare un crescente impoverimento della società, malgrado le grandi risorse del paese, rappresentate soprattutto dalle fonti energetiche. L’alto tasso di disoccupazione si scontrava con la crescente corruzione del governo, un confronto particolarmente frustrante per la popolazione.
Nella sostanza dei fatti, l’obiettivo di realizzare la giustizia sociale attraverso gli ideali del socialismo venne progressivamente meno cedendo la priorità agli interessi particolaristici della classe dirigente. Seppure non dobbiamo immaginare una dittatura “esplicita” come quelle latino americane, lo status quo finì per consolidarsi intorno ad un governo sostenuto dalla classe militare (si noti, tranne in due casi, che tutti i presidenti dell’Algeria sono stati generali o comunque militari, cosi come chi occupa le poltrone ministeriali più importanti).

La rivolta del cus cus
e infiltrazioni islamiche

La prima manifestazione pubblica di rilievo di questo malessere fu la così detta “rivolta del cus cus” del 1988. Migliaia di algerini si riversarono nelle strade chiedendo maggiore equità, ma l’esercito, chiamato a ristabilire l’ordine, aprì il fuoco sui manifestanti provocando oltre 500 vittime. La dinamica e le responsabilità di questo attacco non vennero mai chiarite. Da quel giorno il patto tra algerini e governo venne definitivamente spezzato e tra i frantumi di questa relazione s’inserirono anche nuovi attori politici inaspettati. La rivolta del cus cus non aveva una matrice religiosa, essa era un’esternazione del disagio popolare, ma i coordinamenti islamici, che avevano saputo tessere una trama di associazioni e di iniziative sociali nel tessuto algerino lì dove era assente lo Stato, raccolsero la rabbia della gente per l’ingiustizia subita.
Nel 1989 una nuova Costituzione introdusse il multipartitismo: hanno possibilità di presentarsi alle elezioni partiti di opposizione, tra cui i laici Fronte delle Forze socialiste, l’Unione per la Cultura e la Democrazia, Ettahaddi (partito d’avanguardia comunista). Ma si presentarono anche partiti d’ispirazione islamica: il Fronte islamico di Salvezza (Fis) fondato da Abassi Madani congiuntamente con l’Iman (capo religioso) Ali Benhadj con l’intenzione dichiarata di instaurare in Algeria uno Stato islamico, cioè teocratico.
Fu quella una concessione dovuta al riconoscimento di una rappresentatività delle formazioni islamiche, o fu dovuta a un’incauta sottovalutazione dei problemi che avrebbe creato questo precedente, nella convinzione di poter mantenere quel controllo sul rapporto tra governo e religione che fino ad ora non aveva posto rischi per la stabilità del potere? Fin dall’inizio questo partito si divise nella scelta dei mezzi per raggiungere lo scopo di costituire uno Stato islamico. La scelta si poneva tra l’uso delle istituzioni democratiche e la conquista armata. Per la seconda opzione si schierò Mansouri Méliani il quale fondò proprio nel 1989 il primo gruppo armato islamista il Mia (Movimento islamico armato).

Il Fronte islamico alle elezioni del paese
Il 1992 è l’anno che molti indicano essere quello dell’inizio della crisi, in realtà la crisi era già una realtà in Algeria. Il Fronte Islamico di Salvezza vinse il primo turno delle elezioni. Il Fronte delle Forze Socialiste organizzò una grande mobilitazione a favore della democrazia che voleva fermare sia il Fis che i militari, la quale ebbe un grande successo, ma restava incerto l’esito per il secondo turno delle elezioni. La vittoria del Fis al primo turno aveva scioccato il governo il quale, sotto gli occhi altrettanto allarmati dell’Occidente, si affrettò a sospendere le elezioni con un “golpe bianco”.
Questa decisione è stata commentata in molti modi. Alcuni hanno detto che se si accoglie un partito nel gioco democratico delle libere elezioni è necessario rispettare la volontà popolare e riconoscere il successo anche di quelle formazioni la cui tradizione politica non si condivide, lasciando poi al livello delle istituzioni democratiche (il parlamento e il potere esecutivo) il compito di gestire questa presenza. Altri hanno invece sottolineato che il pluralismo finisce dove inizia il pericolo per la democrazia.
Il programma del Fis aveva dei contenuti seriamente anti-democratici, e probabilmente l’Algeria non era stata capace di sviluppare istituzioni a garanzia della democrazia abbastanza solide per sostenere la sfida. Il timore comune, espresso sia dall’opposizione laica, tra cui associazioni delle donne, che dall’Occidente, era che si ripetesse in Algeria l’esperienza di Teheran. Il rischio che sospendendo le elezioni si aprisse un conflitto era presente a tutti. Certamente la scelta del governo, e dell’esercito dietro di esso, fu di raccogliere i timori di molti con lo scopo di mantenersi al potere.

Le ragioni della crisi di consenso
La sospensione delle elezioni del 1992 è ovunque indicata come l’inizio della crisi algerina. La nostra opinione è che il vero punto fallimentare del governo algerino è stato quello di lasciare che si creassero quelle condizioni sociali ed economiche perché un partito come il Fis si potesse sviluppare e alimentare delle difficoltà della gente. Poco era stato fatto per dare spazio alla cultura pluralista, laica e democratica algerina, e ancor meno per sostenere la sua crescita. È nostra opinione che le sole elezioni non facciano una democrazia.
Nel 1992 si imposero i militari. La sospensione delle elezioni e la messa fuori legge del Fis convinsero l’ala violenta del partito della fondatezza della sua analisi e si intensificarono gli attentati. Riguardo agli attentati vogliamo sottolineare che questi erano una pratica adoperata già negli anni precedenti, seppure con frequenza ridotta e una strategia molto più selettiva nella scelta degli obiettivi (i nemici dell’islam) che non in seguito. La via del terrorismo venne così spalancata. Da allora la reazione del governo è durissima, la repressione dei militari va ben oltre i limiti legali; ma per almeno due anni né l’Occidente né le associazioni per i diritti umani si accorsero del livello delle violazioni di cui era teatro l’Algeria. L’azione del governo rassicurava gli occidentali spaventati dalle intenzioni del Fis, mentre si guardava con fiducia alla lotta anti-terrorista algerina.
Pochi sembrarono rendersi conto che la situazione era ben più complessa e pericolosa, che era un nodo gordiano che s’ingarbuglia ad ogni colpo di sciabola. Mentre i leader del Fis restavano in prigione e i suoi dirigenti cercavano dall’esilio di mantenere un contatto quanto più stretto possibile con i gruppi armati e le loro azioni, in patria il terrorismo si spezzava in rivoli diversi di organizzazioni parallele.
Il governo, ufficialmente compatto, inizia a scomporsi lungo una faglia che ricalca antiche divisioni. C’è chi afferma che il comando del paese comincia ad essere occultamente bicefalo, diviso tra il presidente Zeroual (ex militare giudicato un moderato), e il capo di Stato maggiore gen. Mohammed Lamari (capo dei corpi antiterroristi).

Attentati, repressione ed echi
Inizia in Algeria la dura stagione delle scelte, che coinvolge anche i partiti dell’opposizione, la stampa, e la società civile. Spesso indicata semplicisticamente come l’opzione tra “dialoghisti” e “sradicatori”, ognuno di questi termini, in realtà, racchiude posizioni diverse, soprattutto riguardo ai mezzi con cui seguire le rispettive linee e ottenere lo scopo comune della pacificazione. Non tutti i “dialoghisti” accettano l’intervento di organismi internazionali o di Ong straniere come mediatori, né tutti gli “sradicatori” sono automaticamente sostenitori dei militari, seppure hanno optato per la lotta senza appello al terrorismo. Pur non mancando, soprattutto da parte dei gruppi di opposizione laica, un tentativo di protezione della società civile sostenendo le associazioni di donne, la stampa indipendente, e portando soccorso alle vittime, è indiscutibile che l’azione principale è stata esercitata dalla repressione militare. Secondo gli osservatori dei diritti umani, tale repressione è stata condotta con grande brutalità e sempre più indiscriminatamente. Le organizzazioni non governative, Amnesty International in testa, hanno denunciato il sistematico ricorso alla tortura, gli inumani trattamenti carcerari, gli arresti indiscriminati, le sparizioni, le esecuzioni extragiudiziali. Inizia un progressivo isolamento del governo algerino e dei suoi metodi da parte dell’opinione pubblica internazionale. Le reazioni dell’establishment algerino sono a dir poco stizzite. Dal punto di vista del governo algerino l’Occidente ha prima sostenuto attraverso un sostanziale silenzio la sospensione delle elezioni del ’92, plaudendo alla difesa della democrazia e degli interessi occidentali nel paese, ma oggi si arroga il diritto di protestare contro i mezzi che si sono resi necessari per controllare proprio quel terrorismo che tanto essi temono e danno lezioni di diritti umani, e quel che è peggio paragonando le azioni del governo a quelle dei terroristi islamisti. Il governo algerino intima alle autorità straniere di non interferire con quelle che sono questioni interne del paese.
Negli ultimi due anni gli attentati delle formazioni terroriste hanno raggiunto le dimensioni del massacro, con metodi di sterminio particolarmente efferati, avventandosi sempre più contro la popolazione civile, bambini e donne compresi. Sotto i colpi della repressione le formazioni terroriste si sono ulteriormente radicalizzate e frammentate, inoltre il lungo esilio ha ridimensionato, seppur non cancellato, l’influenza del Fis sull’opposizione armata. Oggi in Algeria è in corso una battaglia politica sotterranea tra i partiti islamici, compresi quelli che si dichiarano moderati, per decidere chi possa rivendicare l’autorità di poter agire da mediatore con i gruppi terroristi: una moneta di scambio fondamentale per ognuno di questi partiti. In particolare il Movimento della Società per la Pace (ex Hamas, rivale storico del Fis), che dalle lezioni del giugno 1997 è il secondo partito del paese (69 seggi) è nella coalizione di governo a cui capo è il “nuovo” partito Unione Nazionale Democratica (Rnd, 155 seggi), fondato per sostenere il presidente Liamine Zeroual, e con l’Fnl (64 seggi). Un altro partito islamico il Partito per il Rinnovamento Algerino ha conquistato 34 seggi. Le due maggiori formazioni dell’opposizione laica Ffs e l’Unione per la Cultura e la Democrazia, purtroppo anche politicamente in conflitto, non riescono a superare i 19 seggi ciascuna.
Come sempre, corali sono state le accuse di brogli elettorali.

Quanti uccidono in Algeria?
Noi qui diamo per scontato che il lettore sia già al corrente dell’escalation di terrore e brutalità avvenuta in Algeria in questi ultimi due anni, così come diamo per acquisito che esso sia al corrente delle accuse fatte al governo algerino di aver coinvolto l’esercito stesso in fatti di sangue allo scopo di mantenere il potere attraverso una strategia del terrore. Su quest’ultimo aspetto occorre soffermarsi. La fatidica domanda “Chi uccide in Algeria?” che ha tanto occupato le pagine della stampa internazionale e ha tanto irritato la classe politica algerina ma anche parte della società civile ha, secondo noi, il difetto politico e grammaticale di lasciare spazio per immaginare un’opzione singola: o i terroristi o i militari. Forse sarebbe più appropriato chiedersi “Quanti uccidono in Algeria?”.
Ci sono pochi dubbi sugli autori dei massacri. Gli stessi sopravvissuti testimoniano la responsabilità dei terroristi islamisti. Altrettanta credibilità va data alle sopravvissute tra centinaia di donne e ragazzine rapite, stuprate e sgozzate o abbandonate gravide. Esistono forti sospetti che parti estremiste del governo, soprattutto nell’esercito, abbiano intrapreso una strategia del terrore, quanto meno ordinando ai corpi militari stanziati vicino i luoghi delle stragi di non intervenire a interrompere eventuali attacchi alla popolazione.
Più difficile è capire se va dato credito alle accuse di chi fuggito all’estero (ex agenti di corpi speciali e l’ex primo ministro Brahimi) parla di “stragi di Stato” organizzate dal governo, oltre che dai terroristi. Secondo alcuni è probabile che in una situazione così caotica si siano aggiunte le azioni di bande di balordi comuni interessati più alla vessazione della popolazione piuttosto che alla lotta “politica”, sempre pronti a legarsi a un qualunque gruppo terrorista previo adeguato compenso o a camuffare da raid islamista le loro spedizioni punitive contro gli inadempienti ai loro ricatti. Poi ci sono gli omicidi politici tradizionali, mi riferisco alle centinaia di professionisti, sindacalisti, giornalisti, attivisti politici, uomini e donne uccisi in questi ultimi sei anni, se non vogliamo contare anche alcuni casi precedenti. La responsabilità di questi omicidi va ricercata caso per caso. Per le sparizioni, esecuzioni extragiudiziali, e torture lasciamo la parola alle associazioni per i diritti umani, tra cui anche l’algerina Laddh.