La terra fiorisce sotto i passi dei giusti

di Stoppiglia Giuseppe

«Di tutte le vocazioni,
la politica è la più nobile…
… e di tutte le professioni
è la più vile».
(Rubem Alves)

Il dono è giustizia che trasforma

Ogni giorno la vedo rannicchiata nell’ultimo banco della chiesa, accanto alla cassetta delle elemosine. Non cambia mai posto. Che ci sia la chiesa affollata o sia sola nella penombra, tiene sempre a portata di mano lo spacco ormai ingrandito della cassetta.

Tutti sappiamo che è una ladra e ne abbiamo le prove. Già quattro o cinque volte qualcuno di noi l’ha colta in fragrante. Finge sempre di sonnecchiare, in quei momenti. Se viene rimproverata o minacciata, non sembra accorgersi delle nostre parole, i suoi occhi acquosi e sfuggenti ci guardano brevemente, quasi con pigrizia. Si difende con brontolii incomprensibili. Sta lunghissime ore al medesimo posto, senza fretta, spiando con pazienza esasperante il momento di restare sola. Allora introduce di colpo non so che tipo di ferro uncinato ed escono le monete in pochi secondi.

Veste un abito verdognolo consunto agli orli e ai gomiti e tiene sulle spalle una giacca a quadri che non infila mai. Credo non abbia cambiato nemmeno d’inverno le scarpe di panno ruggine, da cui escono le calze rattoppate. Tutta la figura è miserabile e spezzata. Nemmeno l’agitazione del furto riesce a renderla snella. Solo la faccia è vivente, sotto i capelli bianchicci e color pepe, tirati sulla nuca piccola. Più volte sono stato a guardarla da dietro i vetri della mia finestra di fronte all’ingresso della chiesa. Petulante ed esigente con le persone che incrocia, protesta e inveisce con una voce dura e grossa, quasi da uomo, che le prime volte mi ha fatto trasecolare, con chi la rimprovera o le dà qualche consiglio.

Pare che, fino a poco tempo fa, non stesse proprio male. A sentire lei abitava in città, a Bologna, con la figlia sposata a un ragioniere. I due, però, non andavano d’accordo, le scenate e i litigi erano molto frequenti. Una figlia piuttosto facile, a sentire la madre, che ne parlava con collera. Tempo fa la figlia è fuggita con un altro uomo, disgraziato pure lui. Il marito ha ringraziato tutti i santi e ha messo la suocera alla porta. Allora è venuta ad abitare qui, vicino al mare, sperando non so in quali parenti. Le speranze, però, sono morte subito e ora nessuno la vuole in casa.

Sebbene una certa velleità d’eleganza persista nella sua persona, una miseria totale e feroce l’ha già segnata definitivamente. Nessuno sa dove dorma. La sua giornata la passa in chiesa, quando è aperta, oppure sui gradini del municipio, accanto alla canonica. Non so se preghi: mi domando spesso cosa pensi nelle interminabili ore che passa davanti all’altare. Una volta l’ho vista con la corona del rosario in mano. Mi ero quasi commosso, ma subito pensieri cattivi mi hanno indurito il cuore.

Ieri notte sono tornato a casa molto tardi, verso le due del mattino. Non avevo sonno. Avevo udito, visto e detto molte cose belle. Pazienza e attenzione da parte del pubblico, conversazione amabile con gli amici. C’era e si respirava un’aria di primavera e di soddisfazione dentro e fuori di me. Avvicinandomi al portone della chiesa ho scorto sui gradini un’ombra. Non ci ho badato, credendo a un effetto della luna sulle colonne.

Quando ho introdotto la chiave nella toppa, l’ombra s’è mossa, ha emesso un lamento. Mi sono fermato di colpo, scrutando nell’angolo. La donna era rannicchiata su se stessa.

Ha alzato la faccia solo per un istante e la voce legnosa, colma di una disperazione incredibile, ha mormorato qualcosa che non ho capito. Ho visto che tutte le fosse del volto, nella luce della luna, erano più fonde e allagate di lacrime.

Prima che potessi riavermi dallo stupore e domandarle qualcosa, si è alzata, ha stretto alle spalle la giacca a quadri e si è allontanata, tremando sulle gambe storte.

Questa mattina durante la Messa ho guardato ansiosamente l’ultimo banco, sperando di vedere la donna al suo posto come sempre, magari col ferro nel buco della cassetta dei soldi, purché ci fosse. Volevo che la Messa fosse tutta per lei, il modo migliore per chiederle perdono. Ma non c’era.

Ho continuato la Messa con grande tristezza e con profonda amarezza. Avrei voluto piangere, almeno, ma non ci sono riuscito, perché sono soltanto un povero uomo, dal cuore duro.

Il grande rifiuto, perché?

Ho sempre saputo che con le tasse si pagano le scuole, la sanità, le forze dell’ordine, le forze armate, la magistratura, le carceri, le ambasciate, i tre milioni di dipendenti pubblici, il parlamento, il governo, i consigli regionali, provinciali, comunali, i sindaci e gli assessori. Con le tasse si paga la ricerca scientifica, la tutela dell’ambiente, il finanziamento ai partiti, ai giornali, agli eventi artistici e cinematografici.

Con le tasse si promuove la solidarietà internazionale, l’assistenza a ogni forma di disagio e si paga la macchina sociale, senza la quale non sarebbe possibile concepire il nostro modo di vivere. Eppure, oggi, per le tasse si occupano le piazze, si fanno cadere i governi, si minacciano secessioni.

Sarà per la poca trasparenza nella gestione della cosa pubblica e per le troppe inefficienze? Sarà per il dirottamento del denaro in circuiti poco chiari o illegali? Motivi indiscutibilmente validi, ma insufficienti per spiegare il fenomeno.

Il familismo amorale

Io penso, invece, che si sia radicato da tempo nella nostra gente un tratto mentale e culturale che la spinge a comportarsi secondo la regola: massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. Si tratta di una cultura particolarista, che sostiene interessi locali e personali. Una cultura nella quale il sentimento di fiducia è ristretto al solo ambito familiare. Una specie di familismo amorale, come lo definisce l’antropologo Edward Banfield, uno studioso della cultura politica italiana, che favorisce la perpetuazione di pratiche tradizionalistiche, piuttosto che promuovere la stabilità e l’efficienza delle istituzioni.

Il familista amorale nutre una profonda sfiducia nella collettività, non coopera con gli altri, a meno che non ci sia in ballo un tornaconto personale, non coltiva né sviluppa condotte comunitarie.

Sono convinto che il comportamento di molti italiani cada in questa categoria, alimentando quel sentimento crescente di antipolitica, esploso negli ultimi mesi. Il senso civico, che favorisce la cooperazione e l’allargamento della fiducia al di là della cerchia familiare, è piuttosto scarso, se non inesistente.

Il bene comune è più importante delle cose appropriabili e privatizzabili, utili solo a chi può prenderle per sé. I beni necessari di ciascuno – il cibo, la casa, gli abiti, l’istruzione, il lavoro per vivere, le cure della salute – sono ugualmente necessari a tutti. Non è ammissibile che alcuni li abbiano e altri no, oppure che, in una società e nel mondo, siano distribuiti con differenze enormi, offensive.

Il rischio estremo delle attuali società della moltiplicazione individualistica è la dissoluzione, dunque la solitudine totale del singolo.

Individuo e bene comune

Se il singolo è esaltato senza l’altro, è perduto. Se non troviamo nell’altro la difesa di noi stessi, e viceversa, nessuno è difeso. Se la pluralità non ha alcuna unità, nessuno è se stesso, e tutti siamo sradicati dal terreno umano, condannati a rinsecchire. Se la società è soprattutto rivalità, ognuno è vinto. Se la competizione è legge non equilibrata dalla cooperazione, la società è senza legge. Se la contesa politica non è consenso chiaro sui principi costituzionali, non c’è politica ma guerra civile. Dove la forza è l’unico diritto – chi vince, vince, chi perde, perde – nessuno ha un diritto. Il pericolo mortale non è solo il dominio del più forte del momento (ogni impero finisce), ma l’accettazione di questo criterio da parte dei tanti dominati, che così si dimettono dalla dignità umana. È questo un problema enorme, non rendersene conto è segno di macroscopica cecità.

Il primato del bene comune sugli interessi individuali lo troviamo scritto chiaramente nei capitoli 2 e 4 degli Atti degli Apostoli. Qual è la risposta che viene dai cristiani all’invito della Parola di Dio?

A nessun cristiano può sfuggire che si ama il prossimo prima di tutto concorrendo al bene comune. Quando Gesù parlava di povertà, non la pensava come valore in sé, ma come condivisione. Condivisione non è beneficenza. La dignità dei poveri, infatti, la scopriamo solo quando ci possono accogliere nella loro casa. Nettamente l’opposto di quanto afferma il giornalista de Il Foglio, Oscar Giannino: «La nostra casa è laddove poniamo il nostro denaro». Affermazione blasfema, quanto di più anticristiano si possa scrivere!

Una condivisione che sia amputata della dimensione economica e politica, non è piena. Aggiunge Arturo Paoli: «Se io ritengo di amare l’uomo e i miei fratelli in una linea affettiva, ma praticamente nego questo amore nella linea economica, ho evidentemente una personalità schizofrenica. Non posso amare e politicamente odiare. Perciò, più che con i canti, con le preghiere, io lodo Dio se le mie tre linee, l’economica, la politica e l’affettiva, sono tutte e tre aperte all’amore; tutta la mia struttura sia veramente regno di Dio, progetto di Gesù». Invece passa per buona, nella coscienza di molti cristiani e nel silenzio colpevole dei nostri vescovi, la stolta affermazione di Gianni Baget Bozzo: «Evadere le tasse non è peccato, perché non infrange nessun precetto».

La santa alleanza

Viene da pensare che tra la chiesa cattolica e l’attuale destra italiana esista una santa alleanza. Alleanza strutturale e non occasionale, dovuta al fatto che ad ambedue manca il concetto di Stato e di bene comune. La destra, per sua natura conservatrice, tende a difendere i privilegi acquisiti più di quanto non tuteli il principio di solidarietà, che dovrebbe promuovere il pagamento dei tributi, in modo che i più svantaggiati possano usufruire di qualche aiuto.

«La chiesa cattolica – sono parole di Umberto Galimberti – condivide con la destra il primato dell’individuo rispetto alla comunità, perché la salvezza dell’anima è individuale. Ed essendo questa salvezza la cosa più importante, la Chiesa ha sempre concepito lo Stato, non come l’Istituzione preposta al «bene comune», ma come l’organismo che ha per suo compito la «limitazione del male», ossia la rimozione degli ostacoli che si frappongono al conseguimento della salvezza individuale. In questo modo la chiesa ha separato l’individuo dalla società e quindi l’etica (che è rimasta individuale) dalla politica comunitaria, pensata come luogo a cui l’individuo può prendere parte, ma non come luogo della sua auto realizzazione».

Giustizia che dona

Eppure la nostra fede è polarizzata sul Cristo, l’unico Dio che noi conosciamo e di cui abbiamo avuto esperienza. Sappiamo che in lui è apparsa l’umanità. A Lui non possiamo rinunziare, neppure possiamo rinunziare al suo modo di credere e di vedere l’uomo, la storia, il destino umano. «Ogni parola di Dio – afferma il cardinale Martini – ha valenza geo-politica» e noi non possiamo dimenticarlo.

Gesù ordina: «Donate in prestito, non sperando nulla di ritorno» (Luca 6,35). Donare senza far conto sul contraccambio, se non la ricompensa nella nuova vita, riassume tutto il discorso della montagna, cioè la profonda e rivoluzionaria operatività del vangelo. Dio agisce così e chiede che agiamo così anche noi. Egli, infatti, è buono non per essere ringraziato e adorato, ma per bontà sorgiva e diffusiva.

«Il Padre vostro che è nei cieli… fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e gli ingiusti» (Mt. 5, 44-45). Questa scandalosa rivoluzione di Gesù supera la giustizia retributiva, misurata secondo il merito, ed esercita una giustizia donativa e trasformativa. Chiama alla giustizia interiore anche gli ingiusti e giudica i «giusti» che si sistemano nella correttezza formale: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrate nel regno dei cieli» (Mt. 5, 20).

Nell’agorà di oggi il cristianesimo, tanto nello stile di vita, quanto nell’annuncio della morte e resurrezione, deve apparire come scandalo e follia, ma, ancora una volta, sapienza di Dio.

Il prezzo dei fagioli

A conclusione trovo una certa riappacificazione con me stesso e una salutare conferma per l’attualità in quanto scrive Bertold Brecht su L’analfabeta politico: «Il peggior analfabeta è l’analfabeta politico.

Egli non ascolta, non parla, né partecipa agli avvenimenti politici. Non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. Un analfabeta politico è tanto animale che si inorgoglisce e gonfia il petto nel dire che odia la politica.

Non sa, l’imbecille, che dalla sua ignoranza politica provengono la prostituta, il minore abbandonato, il rapinatore e il peggiore di tutti i banditi, che è il politico disonesto, ingannatore e corrotto, leccapiedi delle imprese nazionali e multinazionali».