Lo choc delle parole, il peso del passato

di Mianzoukouta Albert

È una fine secolo tumultuosa per l’Africa. Convulsioni, violenze e cambi di regime si succedono. Dal nord al sud del continente si installa un nuovo ordine. Molte questioni vengono rimesse in discussione. Gli Stati Uniti vogliono accelerare questo movimento di ricomposizione, facendo appello ad una visione nuova in Africa e sull’Africa. Ma il peso del passato è forte.
È allettante trovare nella giovine età del presidente Bill Clinton, e in quella dei suoi collaboratori, la ragione di credere all’instaurazione di un’era nuova nei rapporti fra gli Stati Uniti e l’Africa. L’immagine rassicurante di un gruppo di “boys” poco rispettosi dei retaggi e delle tradizioni nati da una colonizzazione guardata con sospetto a Washington, non riesce a dissimulare i motivi ricorrenti e le motivazioni di fondo.
Giovani tecnocrati come Susan Rice, addetta agli Affari africani della Segreteria di Stato, usano un linguaggio franco, che può anche stupire. “Noi stiamo tentando di attuare una trasformazione fondamentale nella relazione tra gli Stati Uniti e l’Africa, nella prospettiva di una partnership a lungo termine, fondata sugli interessi e il rispetto reciproco” – ha affermato all’inizio dell’anno, presentando la politica del suo paese in Africa. “Noi siamo il paese che ha il maggior numero di ambasciate in Africa. Questo ci dà una prospettiva unica”.

Commercio, non aiuti
Su questa prospettiva si fonda il diritto di parlare e di agire diversamente, anche a costo di passar sopra agli ambiti riservati e ai privilegi fra gli Stati africani e i paesi europei da cui sono stati colonizzati.
Tuttavia, se l’otre è nuovo, il vino (cioè il linguaggio) è costante. Ed è lo stesso a partire dagli anni ’60, quando il cotesto, vale a dire questa “prospettiva unica” tipica degli americani, preoccupata innanzitutto della difesa dei propri interessi, faceva preferire un rassicurante Houphouet-Boigny della Costa d’Avorio ad un inafferrabile Sékou Touré della Guinea. Eppure l’uno restava in qualche modo legato a quel tipo di colonizzazione che gli americani aborriscono, mentre il secondo era allora il simbolo di un’indipendenza oltranzista nei confronti dell’antico dominatore francese.
“Noi non abbiamo una storia coloniale” – precisa ancora Susan Rice. Ciò che guida la nuova classe dirigente americana “è la presa di coscienza, da parte degli uomini politici, dell’enorme potenziale dell’Africa”.
Ciò detto, la conclusione viene quasi da sé: “Pensiamo che l’era dei donatori sia terminata. È tempo che gli Stati Uniti moltiplichino le loro relazioni con l’Africa nella stessa maniera che con le altre parti del mondo, cioè su una base di partnership”.
Questa è la vera novità: questa libertà di toni che affronta le questioni senza dissimulazioni né false precauzioni. Il nucleo di questo modo di pensare si basa sulla volontà di realizzare un’America di venditori di caterpillar, a proprio agio con gli eschimesi come con i pigmei. Se, in aggiunta, i contratti vengono festeggiati a Coca cola, virtù suprema del neoliberismo, chi potrebbe lamentarsene?

Usa, come home!
Questo linguaggio indica ad un tempo la forza e i limiti del ruolo che occupano gli Stati Uniti nell’Africa di oggi. La visita di Bill Clinton, nel marzo del 1998, ha mantenuto l’illusione di una volontà di sottrarre a francesi, inglesi e belgi il ruolo che essi hanno conservato, dopo l’indipendenza degli anni ’60, in Ghana, Sudafrica, Uganda, Ruanda o Eritrea. Le guerre scoppiate fra congolesi, ugandesi e ruandesi, eritrei ed etiopi, paesi della nuova era, permettono di ricondurre l’influenza di Washington sul continente nero alla dimensione che le è propria.
Dal canto loro, i paesi africani incoraggiano le loro élite a non considerare più Parigi, Londra o Bruxelles come loro unici punti di riferimento per la formazione intellettuale o professionale. Il responsabile della Nasa per il programma Pathfinder, relativo all’esplorazione di Marte, Cheick Modibo Diara, è originario del Mali e ben rappresenta questa velleità.
Tuttavia, non si tratta che di velleità. Le ex madrepatrie sono certo fredde nei confronti delle ex colonie, delle quali l’esaurimento delle materie prime e la fine della guerra fredda hanno diminuito l’interesse strategico. Ma quale mercato per le loro armi! L’Africa che fa venire il broncio all’Europa coi suoi voli charter pieni d’immigrati, esercita una specie di ricatto: “Trattienimi, se no ti dimentico!”.
Il perseguimento di una politica monetaria sempre allineata su Parigi, Bruxelles e Londra; l’automatico ruolo di mediatore assegnato agli antichi colonizzatori in ogni occasione di conflitto; la forte presenza di occidentali in paesi comunque instabili; la forza dei legami economici; tutto ciò dimostra quanto forte sia ancora il peso del passato.
E quanto debole, di conseguenza, sia ancora l’influenza dei nuovi arrivati, siano pure una potenza come gli Stati Uniti d’America.

Albert Mianzoukouta giornalista di Radio Vaticana