Per incontrarsi bisogna essere in tre

di Bertin Mario

Macondo ha tra i suoi fini costitutivi di promuovere l’incontro e lo scambio tra persone che hanno storie lontane ed esperienze diverse. Per ammissioni frequentemente ripetute, Macondo rifugge dal predisporre progetti specifici e si propone invece di favorire il contatto tra mondi distanti (di “inserire la spina”) per poi ritrarsi e lasciare che esso produca i risultati che è in grado di produrre. Contrariamente a quanto avviene di solito, il protagonista nel caso di Macondo non è l’associazione. Protagonisti sono i soggetti che, avvalendosi delle conoscenze, delle strutture, delle opportunità… offerte dall’associazione, danno vita a un dialogo che deve trovare in sé i semi della propria fecondità.

La guida

Con tanti altri, anch’io ho dato la mia adesione alla proposta di Macondo e ho cercato di capirne lo spirito. La persona che Macondo mi ha fatto incontrare non era un sociologo, un sindacalista, un teologo o un professore universitario. È stato un ragazzo di strada di Rio de Janeiro dal sorriso sghembo e dalle gambe piene di cicatrici, lucide e nodose come corde. Un ragazzo che non aveva niente, se non se stesso. Che a un certo punto ha dovuto decidere persino la sua identità. Ha dovuto decidere lui il suo nome e quanti anni aveva. Un ragazzo che ora ha due bambini e problemi più grandi di lui. E di me. L’anno scorso io e mia moglie siamo andati a trovarlo. Per quindici giorni siamo stati insieme. Giornate intere. Insieme a lui siamo andati a visitare la città, della quale non conosceva i luoghi più belli. Insieme siamo andati al ristorante e a cercare una casinha, um canto per la sua famiglia. Insieme abbiamo vissuto l’avventura della nascita del primo figlio che ha rischiato di venire al mondo ai piedi del monumento alla Patria nella grande piazza di Cinelandia. Un sabato notte.
L’incontro con lui è stato assai diverso da quello che avevo immaginato. Tanto diverso che mi sono chiesto se sia possibile un vero dialogo tra uno come me e uno come lui. Uno come lui che ha una storia terribile e un vuoto immenso. Ci ho pensato molto in questi mesi.

Mi sono chiesto

Mi sono chiesto prima di tutto quali sono le ragioni per promuovere l’incontro tra esperienze tanto lontane. Perché mettersi in contatto proprio con una persona che vive in Brasile e non, per esempio, in Svezia o, più semplicemente, ad Acilia, che è una borgata a metà strada tra Roma e Ostia? Evidentemente questa, quando me la posi, era una questione puramente teorica perché dal momento in cui Carlos Eduardo, attraverso una piccola scheda 11×18, si è affacciato alla mia coscienza, io non ero più nella condizione di sottrarmi a lui, anche se l’avessi voluto. Quella scheda un po’ burocratica e avara di informazioni diceva quel tanto che bastava perché io fossi costretto a mettere in questione me stesso, e cioè il mio modo di giudicare le cose e il mio modo di vivere. Carlos Eduardo ormai era entrato nella mia esistenza e ci sarebbe rimasto anche se io lo avessi rifiutato.
Dell’altro noi abbiamo bisogno perché è soltanto quando ci rendiamo ostaggi dell’altro, quando ci arrendiamo alla domanda, alle pretese dell’altro, che noi ci possiamo possedere. È soltanto conoscendo l’altro che noi conosciamo noi stessi. Ed è soltanto amando l’altro che noi ci amiamo. Per questo, fin dall’inizio, sapevo bene che avrei dovuto io essere grato a Carlos Eduardo e non lui a me. Infatti non è chi riceve che deve dire grazie ma chi dona. Perché chi riceve rende possibile il dono, che rappresenta un modo privilegiato di vivere. Chi riceve, in altre parole, offre a me l’opportunità di consentire che la forza che mi fa essere si esprima.

La pietra su cui inciampiamo

Ciò è innegabile, ma vale per tutto e per tutti. Perché da tutto e da tutti noi dipendiamo e a tutto e a tutti noi dobbiamo obbedienza. Vale per un bel cielo al tramonto. E anche per un cielo piovoso. Vale per la pietra sulla quale inciampiamo. E per lo sconosciuto che incontriamo per strada. È quanto dire che nessuna situazione è indifferente al nostro vivere. Al nostro gioire e al nostro soffrire. Nessuna situazione ci è indifferente sia che la cerchiamo sia che essa ci capiti senza che facciamo nulla per determinarla (Ma anche se la cerchiamo alla fine è essa ad impadronirsi di noi, tanto che noi assumiamo la sua figura. La vita non ci appartiene. Compito nostro è solo di lasciarci vivere).
Se la nostra conoscenza assume la forma di ciò che conosciamo e il nostro amore assume il volto di colui che amiamo, la qualità della nostra conoscenza e del nostro amore (e cioè della nostra vita, perché vivere e conoscere sono la stessa cosa e così vivere e amare) può dipendere anche dalle nostre scelte. Cambia cioè a seconda di colui che noi decidiamo di incontrare. Se è l’altro da me che fa emergere, attraverso la conoscenza e l’amore, il mio io dal buio, è l’altro a qualificare in un maniera piuttosto che in un’altra il mio io. Non è insomma la stessa cosa che io decida di confrontarmi (di pormi di fronte a) con un professore universitario o un ragazzo di strada.
Quali sono le ragioni allora per scegliere questo piuttosto che quello?
Di queste ragioni ne voglio elencare qui succintamente soltanto alcune.

L’atteggiamento un po’ vile

Innanzitutto c’è quella alla quale più di frequente si fa ricorso della solidarietà verso i meno avvantaggiati. È una motivazione che spesso si accompagna al bisogno inconscio di mettere la coscienza in pace di fronte a ciò che percepiamo come una ingiustizia, della quale ci sentiamo più o meno confusamente responsabili. In che cosa consista questa responsabilità preferiamo in genere sorvolare. Si tratta di una motivazione che, sotto la parvenza della bontà d’animo e della generosità, cela non di rado l’atteggiamento un po’ vile di chi rifugge dal confrontarsi con le cause della situazione alla quale egli sente il dovere di portare un po’ di sollievo.
Una seconda ragione ha a che vedere specificamente con la condizione delle persone che non godono di alcuna integrazione sociale, come sono i ragazzi di strada. I ragazzi di strada, e tutti quelli come loro, non venendo trattati come persone finiscono per non percepirsi essi stessi come persone. Finiscono in un territorio che è, in qualche modo, “dall’altra parte della vita”. La parte che noi non conosciamo. Quando un individuo vive di rifiuti e tra i rifiuti finisce per considerarsi egli stesso un rifiuto. In questi casi, la considerazione e l’affetto, più ancora dell’aiuto economico, hanno il potere di accendere una luce nel buio e di far balenare la possibilità di un futuro. In qualche misura restituiscono l’umanità a persone che non ardivano più neppure rivendicarne il diritto. Si tratta di un processo importante perché è condizione indispensabile di qualsiasi riscatto.

Rubato

La terza ragione per preferire l’incontro con i più poveri, per far propria la condizione dei poveri, per condividerla, discende da una visione evangelica dell’avventura umana.
Infatti per chi crede la povertà non è più una scelta, dal momento in cui è stata la scelta fatta dal Dio diventato uomo. Facendosi uomo, Dio non si è soltanto schierato dalla parte dei poveri, ma ha scelto per sé la condizione di povero E, nell’ottica esigente del Vangelo, la ricchezza è tutto ciò che uno possiede in più della persona più misera della terra. Tutto ciò che uno possiede in più dell’altro è, in qualche modo, rubato. Il soccorso del misero non deve essere visto come un atto di generosità, ma come una restituzione.
Ecco dunque alcune ragioni per privilegiare il confronto con i più distanti da noi per condizioni economiche e culturali. Per preferire di conoscere e apprezzare noi stessi attraverso l’incontro con loro. Ma questo incontro, questo duro, difficile incontro è davvero possibile? Può portare davvero a quella condivisione e a quel colloquio che lo giustificano?

Sulle sponde opposte
di un torrente profondo

Nel mio soggiorno in Brasile, a un certo punto, ho avuto l’impressione che io e Carlos Eduardo ci muovessimo sulle sponde opposte di un torrente profondo e che comunicassimo tra noi soltanto per cenni. Per camminare insieme a lui, come avrebbe esigito l’imperativo interiore, avrei potuto aiutare Carlos Eduardo a traghettare dalla mia parte, verso il mondo delle sicurezze, per esempio, attraverso una adozione di tipo tradizionale. Ma non mi sembrava essere questa la soluzione buona, non fosse altro per l’impossibilità di trasportare tre quarti dell’umanità dove vive l’altro quarto del mondo. L’altra ipotesi consisteva nel passare io sull’altra riva, dove la vita è dominata dal bisogno, dall’insicurezza e dall’improvvisazione. Scelta difficile e molto speciale, che fece una volta Francesco d’Assisi e pochi altri con lui. L’unica però davvero risolutiva perché impone di camminare insieme ai più deprivati alla ricerca comune di un riscatto per tutti.

Una “terza via”

A un certo punto mi dissi che forse esisteva una “terza via”. Una strada diversa anche se non distinta dalle altre due. Essa consisteva nel fatto che l’incontro tra due individui non sta tanto nel far propria la condizione dell’altro, quanto nel convergere verso un terzo capace di unirli. Quando due esistenze sono tanto diverse e tanto distanti quanto erano la mia vita e quella di Carlos Eduardo e tanto diversi e distanti i modi di pensare e di agire, allora è possibile incontrarsi veramente soltanto in qualcosa (o in qualcuno) differente da me e differente da lui, ma nel quale sia io che lui riusciamo a riconoscerci. L’incontro vero insomma non è a due. È a tre.
Ogni iniziativa verso l’altro è un rischio. Perché imprime in uno il sigillo dell’altro. È un rischio per il ricco accogliere il povero. Ma è un rischio anche per il povero accogliere il ricco. E solo qualcosa che è al di là della ricchezza e della povertà può rendere possibile l’accoglienza di uno da parte dell’altro. Accoglienza che non è solo rassegnazione a subire o compassione, ma soprattutto comprensione. Quella comprensione che implica condivisione (di un terzo) tra persone diventate (rispetto a questo terzo) uguali.
È questo un rapporto che non esige più “risposte” da parte di chiunque. Che non esige più quella reciprocità che, spesso sotto forma di riconoscenza, ci aspettiamo dall’altro. Non c’è più uno che dà e l’altro che riceve, ma due persone riscattate dalla loro diversità che iniziano tra loro un dialogo da eguali. Se non ci fosse la possibilità che il ricco e il povero si incontrassero in uno diverso capace di accogliere egualmente entrambi, non esisterebbe più la possibilità dell’amore. È il terzo che ci consente di uscire dal nostro egoismo.

Il lievito dalle ombre alte

È avvenuto questo piccolo prodigio tra me, tra noi, e Carlos Eduardo? In una certa misura, io credo di sì. “Uniti formiamo una sola famiglia”, ci ha detto al momento di lasciarci. Era davanti alle ombre alte delle mangueiras del Passeio Publico, una sera piovosa di fine agosto. È avvenuto per merito, io credo, della sua grande libertà di fronte alla vita e alle sue sorprese. Lui aveva saputo trovarci più di quanto ci fossimo riusciti noi che per trovarlo eravamo andati fino a Rio. Il bene non si può imporre. Non viene da fuori. Né dall’alto. Il bene è come il lievito nascosto nel grembo oscuro della pasta.
Allora capii che ci eravamo persi nell’abisso profondo che è l’uomo. Abisso di miseria. E abisso di grandezza.
In alcuni momenti – i più preziosi dell’esistenza – percepiamo che non siamo noi ad amare l’altro. Ma è l’essere, che attraverso noi si esprime, facendoci esistere, che lo ama e amandolo si conosce e si ama egli stesso. “Quando il Signore mi diede dei fratelli…” dice San Francesco nel suo Testamento. Non siamo noi che costituiamo l’altro come fratello. La fraternità discende dalla paternità ontologica che fonda la nostra diversità e la nostra uguaglianza di figli. È nel farsi strumento docile e trasparente che l’azione umana diventa rispettosa di colui che la esprime e dell’altro, a cui è rivolta. Di ogni altro. Né esige allora reciprocità. Solo allora essa è perfettamente padrona di sé e, nel medesimo tempo, totalmente aperta sul mondo. Solo allora si produce il miracolo dell’incontro e dell’amicizia.