Prove tecniche di massa
Volto diverso cercasi
Il Prato è una torta di erba calda. Ora è punteggiato dall’ombra degli alberi, ancora giovani, che il Comune ha piantato anni fa, dopo aver tirato giù le piante precedenti, tigli possenti che avevano visto la storia di Padova e ormai vegetavano malati. Le macchie fresche sono occupate da donne e uomini e ne raccolgono il momento di sosta, di lettura o di baci. Li guardo, con un occhio al manifesto in crisi, seguendo i lontani racconti melanconici della Rossanda, cantatrice di un’epoca intransigente e pura di lotta, epoca che ormai vegeta anch’essa malata. Lo spettro di Pintor si muove tra le righe, quasi invitando a dimenticare e a ricominciare.
Le auto ringhiano dai lati, sopraffatte solo dal nervoso ululato dell’ambulanza.
C’è silenzio, per essere a Padova. Solo qualche sera fa questi medesimi spazi erano stati il luogo di ritrovo per i festeggiamenti del mondiale, quasi abilmente trafugato in Germania. Centinaia di persone, giovani per lo più, si erano meccanicamente ritrovate sotto lo sguardo severo di Santa Giustina, consumando i clacson delle vespe e la voce in improvvisati inni nazionali e gingle petulanti: po po po po po poo.
Padova libera, forse
Una massa di energia e di sudore aveva bloccato ogni traffico e, oliata dalle birre, lanciava nel cielo di luglio la voglia di festa e la possibilità finalmente di riconoscere e di esser riconosciuta. C’era chi sfrecciava sulle moto coperte di bandiere, chi scalava i semafori per far sentire più alto il proprio grido, chi giocava con l’acqua con allegre ragazze vestite di bianco, chi tratteneva il momento con le foto dei cellulari. Dalla periferia qualcuno era arrivato con vecchi furgoni scoperti e faceva salire la gente festante. Per un momento mi sono chiesto se la fine dell’aprile del ’45 avrebbe potuto assomigliare a tutto questo: Meneghello racconta dell’arrivo dei cingolati statunitensi dalla strada per Bologna e dei suoi Piccoli maestri che consegnavano una città già libera.
Libera. Padova forse lo è stata, a un certo punto. Adesso ancora forse lo è, se esprimere la voglia di liberazione somiglia alla pratica della libertà. La forza espressa nelle notti calcistiche giace durante l’anno inscatolata da qualche parte: se ne colgono le tracce nelle piazze alcoliche e nelle serate universitarie. Vite probabilmente normali – studenti professionisti precari stranieri – si raggruppano in luoghi comuni e sembrano talvolta protendere ogni ora del giorno verso il bicchiere bevuto tra le chiacchiere.
Queste adunanze, descritte a tratti banali dai quotidiani cittadini, solleticano il buonismo dell’amministrazione, ostaggio degli inquilini del centro: se ne fa un problema di decoro e di ordine pubblici e si sposta, letteralmente, baracca e burattini lungo il canale del Piovego. E anche lì, come zanzare sopravvissute al DDT, si ricomincia: viavai, chiacchiere, birra, spritz. Ma una domanda su questa massa non sembra nascere.
La massa. Se la penso non ne faccio parte e come individuo, appunto isolato, me ne astraggo e non posso che osservarla da fuori. Se mi confondo in essa non posso pensarmi insieme a essa, è soggetto decapitato, irrazionale e talvolta irragionevole. Stipato tra le magliette azzurre e tra i cori, seduto ai tavoli dell’aperitivo del lungargine, sperduto sui ponti di un traghetto Ancona-Spalato: la mia consapevolezza cartesiana si fa discontinua, perde chiarezza e distinzione ed è grande la tentazione di sciogliermi nei più, e così scomparire.
E la nave va
La coerente intermittenza dei fari spalleggia l’avanzare pesante della nave. Siamo in una enorme vasca nera, formiche sopra quintali d’acciaio, mentre si rinnova il miracolo del galleggiamento.
Il traghetto croato non ha più posti liberi: le poltrone a noi destinate sono sparse qui e lì in una sala di seconda; ognuno cerca di raggomitolarsi come può e c’è chi ha steso gli asciugamani e dorme per terra. L’aria è satura e l’ammassarsi di tanti corpi piedi gambe rende vano il condizionamento. Allora mi alzo ed esco. I ponti sono punteggiati di sacchi a pelo e teli: bozzoli umani gettati per terra e sui cassoni dei giubbotti di salvataggio, sulle panchine di poppa e ai piedi delle sedie del bar all’aperto.
Un cameriere distribuisce a caro prezzo bottiglie di birra e qualche litro d’acqua. Un ragazzo di Napoli scambia una parola con due americane, flirtando in un inglese divertente e sgangherato. Non c’è spazio. Tento un’acrobazia nel mio sacco a pelo, ma il pavimento è duro e ciò che ho nelle tasche non mi dà pace. Una panchina libera mi costringe a tirar fuori la pipa: la luna è tramontata e cerco di riconoscere il carro e la stella polare. Ogni rumore e voce è sottomesso al rombo continuo dei motori, ma questa massa umana è d’accordo per cercarsi qualche ora di sonno. Una specie di esodo volontario, una fuga generale che ammette queste ristrettezze per qualche ora, piccolo prezzo per abbandonarsi in spiaggia. Nulla a che vedere con altre barche e altri naufraghi, attesi dai Carabinieri e non dall’olio solare, a Lampedusa.
L’estate sembra allora luogo confacente alla massa: prodotti di, consumi di, esodo di, comunicazione di, movimento di. I lineamenti del singolo sono scoppiati, e si assume il volto del vicino: mi dicono che per i cinesi o i giapponesi noi europei ci somigliamo tutti, e sappiamo che vale il viceversa. Svanisce la condizione del riconoscere qualcuno, e la possibilità di aprirsi ad un volto è riservata solo all’iniziativa personale, all’audacia dello sbucare fuori dal comodissimo anonimato del «si fa», «si dice».