Quando la giustizia diventa progetto politico
La concretizzazione di una solidarietà generica
Una recente inchiesta del quotidiano Avvenire ha
stabilito che del 27,5% degli italiani che almeno una volta la settimana
frequentano i sacramenti e dunque potrebbero essere definiti con il
titolo generico di praticanti, quasi il 30% dichiara di non recarsi a
votare o di votare scheda bianca.
In questa assenza dal dovere del
voto, elemento minimo della partecipazione politica, appare evidente la
mancanza di una coscienza civica di una parte consistente della comunità
cristiana italiana, sopravvivono quindi i luoghi comuni della sporcizia
e della demonizzazione della politica, una lezione che ancora le nostre
scuole, e talvolta ancora le nostre comunità, impartiscono con il
monito “a scuola non si fa politica”. Mentre dovrebbe essere proprio
questo il senso della scuola: educare all’impegno politico, che altro
non è che l’assunzione di responsabilità nei confronti della storia e
l’acquisizione di una consapevolezza che “una situazione di ingiustizia
non è una casualità, non è qualcosa di segnato da un destino
ineluttabile: esiste alle spalle una responsabilità umana” (Gutierrez,
Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972).
Elaborazione politica
dei valori
E
cosa può stare a cuore ad un cristiano più dell’affermazione della
giustizia? Ma perché la giustizia non resti una vana enunciazione di
principi bisogna far nascere “la capacità di saper elaborare in proposte
politiche i valori discendenti dal patrimonio di fede. Non basta
aggredire i problemi con dichiarazioni di principio, se non si
individuano strumenti di traduzione pratica che possono essere
condivisi. E in ciò vale più la proposta di cammini positivi, anche se
graduali, che non la chiusura su dei noi che alla lunga rimangono
sterili” (C.M. Martini, Messaggio per la festa di Sant’Ambrogio,
7.XII.1995).
Oggi la proposta che i cristiani devono avere il
coraggio e la capacità politica di proporre è quella di rispondere “alle
attese della povera gente” come le definiva La Pira, poiché sono le
attese dei poveri l’unico valore unificante dei cristiani impegnati in
politica, un valore che è innanzitutto affermazione di diritti
esigibili. E l’unico modo di rispondere, nonviolento e concreto,
“momento sintetico delle virtù sociali e civili”, è quello politico.
Ecco perché la politica non è altro dal Vangelo.
Certamente oggi c’è
il rischio, in Italia, che talune tematiche istituzionali
(presidenzialismo, riforma costituzionale, alchimie ed alleanze
governative) possano occupare tutta l’attenzione della politica, mentre
sappiamo come l’illegalità diffusa soggioga ancora l’economia e le
istituzioni opprimendo soprattutto i poveri. Contemporaneamente, tutti
gli indicatori sociali ci danno una crescita esponenziale delle povertà,
del principio dell’esclusione, così il vero problema prioritario della
politica è quello delle disuguaglianze. Problema che realisticamente E.
Masina definiva recentemente “il fantasma della giustizia sociale”.
Certo,
lotta all’illegalità e promozione della giustizia sociale non sembrano
mai pagare nell’immediato in termini di consenso elettorale, tuttavia è
particolarmente condivisibile quanto scriveva L. Ciotti alla vigilia
delle elezioni politiche del ’96: “provo perplessità e timori per una
riflessione politica che sembra scritta sulla sabbia (…) al centro
prima o dopo c’è l’uomo coi suoi bisogni e aspirazioni. L’uomo, la
donna, le famiglie, i giovani, gli anziani, il mondo del lavoro e della
scuola. I cittadini. Che non possono essere ridotti a semplici elettori;
il cui apporto al vivere comune non può essere limitato ad un “sì” o da
un “no” alla croce sulla scheda, alla passiva democrazia del
sondaggio”.
Il primato della delega
contro
Il
progetto politico della giustizia si assume proprio il compito di
superare il rischio della riduzione a semplice elettore del cittadino.
Infatti, i diritti di cittadinanza non si esauriscono con il voto (in
alcune zone d’Italia ancora controllato, acquistabile e non libero), ma
prevedono una partecipazione con una frammentazione delle responsabilità
che è esattamente il contrario dell’accentramento tanto auspicato da
taluni in questi ultimi anni.
Ma la partecipazione, che è
progettazione del futuro, rimane impossibile ai tantissimi che, nel
nostro Paese, sono esclusi dallo stesso presente, non possono
pronunciare la parola domani perché l’oggi li trattiene in una
condizione di schiavitù e di dolore. Proprio a costoro la politica
illusionista del consenso e del primato della delega si rivolge
sfruttando bisogni e trasformando i diritti in concessioni. Nello stesso
tempo, la politica leggere, che riconosce soltanto il primato del
mercato, mette in conto come zavorra da eliminare gli emarginati.
Infine, la politica del relativismo etico vorrebbe imporci di credere
che, in fondo, un’opzione politica vale le altre.
Il progetto
politico che ha a cuore la giustizia non dovrebbe mai lasciarsi irretire
da questa triplice riduzione della politica che spesso si installa nei
palazzi del potere offrendo anche la rassicurante possibilità di una
doppia morale: quella personale ispirata a valori e ideali e quella
politica che antepone le ragioni di Stato o di partito e che tutto
vorrebbe giustificare e quindi permettere.
Occupare lo spazio
dell’inquietudine
Il
progetto politico che vuole realizzare giustizia sa bene che non dalle
segreterie dei partiti occorre partire, ma dalla frontiera.
“La
frontiera è fuori dal tempio. La frontiera è un luogo esposto, un luogo
aperto. È il luogo degli arrivi e delle partenze. È il luogo
dell’imprevisto, dell’inedito. È il luogo dell’originale. È il luogo
dell’uomo sempre nuovo e sempre in attesa di una patria” (R. Nogaro, La
faccia di Dio, Ediz. S. Lorenzo, Reggio Emilia s.d.).
È infatti sulla
frontiera, nella condizione dell’incertezza e dell’inquietudine, nel
luogo della marginalità, delle periferie della storia abitate dagli
anonimi, dagli esclusi, dai clandestini che la politica può incarnare la
proposta di giustizia senza paura d’essere smentita. Se la politica ha
il coraggio di partire e rimanere sulla frontiera… “… / lui forse è
là, fermo nel nocciolo dei tempi, / là nel suo esercito dei poveri /
acquartierato nel protervo campo / in variabili uniformi: uno e
incalcolabile / … ” (M. Luzi, A che pagina della storia, a che limite
della sofferenza, in Al fuoco della controversia).
In alternativa alla
politica dei vincitori
Tuttavia
rischia sempre di prevalere, più forte della frontiera e della politica
del margine, l’immagine della politica dei vincitori dispensatrice di
benefici e di privilegi. Ma finché ci saranno piccoli gruppi e singoli
credenti che offriranno testimonianza di una solidarietà verticale
operante, di un impegno politico irrinunciabile e totalmente
disinteressato a cariche e rendite, il rifiuto della politica apparirà
come la comoda fuga nel confortevole salotto di casa, dove non accade
mai nulla, dove certo non si corre alcun rischio, ma dove di sicuro non
si cambia la storia, da insensata sequenza di morte a liberatrice
progettualità politica che restituisce parola e dignità agli oppressi e
ai non garantiti, rendendo concreta e dirimente l’affermazione,
generica, innocua e comune a tutti i programmi politici della
solidarietà.
E oggi l’orizzonte della solidarietà appare insensato, e
perfino falsificante, se non si accetta di schierarsi, di assumersi
responsabilità, di affrontare rischi (e in alcune zone d’Italia i rischi
hanno un “caro prezzo”), di rispondere alla richiesta di giustizia con
progetti politici condivisibili e liberanti. Poiché “chi ama le creature
che stanno bene resta apolitico. Non vuol cambiare nulla. (…). Non si
può amare creature segnate da leggi ingiuste e non volere leggi
migliori”. (Lettera a una professoressa, L.E.F., Firenze 1967).