Accogliere è vivere sul confine

di Bruni Alessandro

Le pianure che affiancano il Po, prima che si getti in Adriatico, sono un fitto dedalo di strade d’argine che segnano i confini delle bonifiche, dove le terre sono perennemente sotto il livello del fiume e del mare. Percorrerle significa dare rilievo a due situazioni differenti, con terre più alte da un lato e più basse dall’altro, con spesso due paesaggi entrambi per necessità differentemente modellati dalla stessa volontà di vivere sulla terra e sull’acqua.

Questa terra tanto incerta mi ha sempre ricordato il modellamento delle persone investite dalle piene degli eventi della vita. Da un lato la volontà operosa di resistere alle avversità, dall’altro le necessità di agire con competenza. Tenere gli argini, governare le bonifiche esige impegno volontario e competenza, così come entrambe sono necessarie per qualsiasi attività umana che coinvolga l’esistenza. Vivere l’accoglienza familiare è camminare sull’argine, su strade di confine; è vivere sul bordo con la consapevolezza che un passo da un lato o dall’altro cambia il senso dell’andare.

Aprirsi all’accoglienza significa dapprima aderire a un’idea confusa che fatica a divenire concreta: ci si deve spostare sull’argine alto per comprendere quanto le acque siano incombenti e quanto facile sia la piena che travolge gli entusiasmi. È la cura dell’argine che rende consapevolezza e trasforma un’idea in stile di vita, in vocazione. Ma non vi è nulla di eccezionale, non vi è nulla di sacrale, non vi è nulla di epico: solo cura, prendersi cura, tra pannolini e sorrisi, tra la fatica dell’operare e il sogno di fare un cammino scelto e non imposto: accogliere è fare.

La famiglia accogliente si fonda su un rapporto di lealtà verso la società nella consapevolezza della sua rilevanza sociale nell’affrontare il disagio minorile e l’abbandono. I cardini del processo accogliente, nell’adozione (che coinvolge la famiglia e il minore per tutta la vita) come nell’affido (che coinvolge due famiglie, quella naturale e quella accogliente, per un tempo limitato), sono legati all’intreccio di fiducia e di rispetto che consentono, se vissuti in equilibrio, di offrire risposte formative ai minori in difficoltà o in abbandono.

Dopo l’entusiasmo delle prime applicazioni della legge 184/1983, le posizioni di associazioni di famiglie accoglienti, assistenti sociali e psicologi, sono oggi più caute, fondate su minore trasporto emotivo e maggiore senso della realtà sul piano sia dei coinvolgimenti personali degli operatori, sia dell’operatività professionale e gestionale che l’adozione e l’affido etero-familiare comporta.

Sul piano comunicativo e psicosociale la definizione dell’accoglienza etero-familiare ha seguito il processo consueto di qualsiasi avvenimento di rilevanza sociale nella nostra società. La comunicazione informata ha preso la via della massificazione lasciando spesso per strada le motivazioni interiori e la competenza, enfatizzando solo l’aspetto più empatico, banalizzando, in un prospetto zuccheroso, un cammino che è sempre irto di difficoltà, di impegno, di continua revisione e soprattutto di grande disponibilità mentale e di tempo (oggi merce rara). La mia opinione è opposta: bisogna sradicare l’opinione che le famiglie adottive e affidatarie siano «famiglie speciali». In un’epoca consumistica di omologazione sociale, parlare di valori gratuiti della famiglia assume un’aura utopica che fa sembrare speciale ciò che è solo una scelta di vita, come lo è andar per montagne o correre la maratona. Non è quel che si fa che è significativo, ma come lo si fa, con piena coerenza di relazione tra sé stessi e gli altri e con piena accettazione dell’ambiguità che ogni nostro fare comporta.

I bambini e le famiglie

In termini sociologici la famiglia è una relazione dove ciascuno trova la definizione di chi è: un sistema di individui e come tale dovremo trattarla per coglierne il vissuto e gli snodi tra gli individui che la compongono: la famiglia è un legame di appartenenza che ci dice chi siamo.

La famiglia italiana, a partire dagli anni ’70, entra nel vortice dei vantaggi e delle derive della post-modernità. Emergono i nodi problematici dell’attualità: il declino della generatività, lo snodo separato nelle biografie di uomini e donne, il conflitto di coppia, la debole trasmissione intergenerazionale, le difficoltà di conciliazione tra gli impegni di lavoro e attività di cura e tutela per figli e anziani. A tutto questo si contrappongono deboli e non sistematiche politiche sociali per la famiglia, politiche inadeguate a soddisfare i bisogni di una realtà di vita quotidiana in continuo rimodellamento.

Sul piano comunicativo e fattuale, il vivere attuale tende a rendere il legame familiare come un passaggio strumentale e non esistenziale: l’altro non viene più guardato come una persona cui donarsi, ma come strumento del nostro benessere. In questo si manifesta la perdita del rapporto interpersonale dove ciascuno dona all’altro la possibilità di essere riconosciuto come persona. In altre parole, la crisi del legame familiare si completa perché non è più un legame identificatorio, dove ciascuno riceve la definizione di sé, ma è divenuto un legame strumentale a sé stessi.

A questo sentire di base spesso si aggiunge, ormai non solo nei giovani, la precarietà del vivere, del lavoro, della stabilità non solo economica ma dimensionalmente sociale, determinando l’insorgere del pensiero che la famiglia sia un fatto individuale e non sia un evento sociale.

Un altro punto di riflessione è la constatazione che oggi la famiglia è vista come un luogo, una relazione che genera un ambiente (e non solo i figli); di qui gli studi sull’ecologia della famiglia e la susseguente visione della famiglia accogliente come portatrice di un ambiente generante di sostegno più che di sostituzione dei genitori naturali.

Nello stesso tempo si deve considerare il mutato concetto del rapporto tra uomo e donna: è per sua natura generativo, ma soprattutto è generativo del legame in cui i partner confrontano cosa rappresentano l’uno per l’altra e viceversa. Oggi la coppia moderna snatura spesso ruolo e appartenenza funzionale di genere confondendo l’equalità (criticabile) con la parità di fronte alla vita (auspicabile). I ruoli nella famiglia non possono essere confusi: marito e moglie, padre e madre non hanno lo stesso compito e non possono scambiarsi i ruoli e la funzione agli occhi del bambino. Se non si riconosce la diversità dei ruoli, non necessariamente e obbligatoriamente legati al genere, si incrina in primo luogo l’esistenza della famiglia come luogo di accoglienza dei bambini.

Potremo concludere dicendo che la famiglia non vive più da sola, né per sé stessa: si trova all’interno di un’area sistemica più ampia, più vera, più promettente e più problematica, che affida il suo futuro a tutta la società e non solo alla famiglia stessa. C’è una generatività familiare, ma anche una generatività sociale che vanno entrambe coltivate con assiduità.

In questo contesto complesso e in continua evoluzione non solo è difficile dirimere principi da derive, ma è difficile prospettare e costruire un discorso di accoglienza di figli non propri nella famiglia.

Accogliere un bambino nella propria famiglia significa trovare uno spazio affettivo per l’affermazione di un suo diritto. Ogni bambino ha diritto a una famiglia, e la società deve sostenere la sua famiglia biologica a svolgere pienamente le funzioni genitoriali. Quando questo non è possibile il suo diritto viene garantito dalla società con l’istituto dell’adozione, dove il bambino, in assenza di una famiglia biologica o in assenza di un riferimento parentale stretto (zii, nonni) viene accolto definitivamente o temporaneamente in una nuova famiglia.

Accoglienza è parola laica o religiosa?

L’accoglienza, dunque, è voce complessa densa di sfumature indefinibili e profondamente radicate nello spirito dell’individuo. Offrirla in modo generico e unitario significa cadere in stucchevoli stereotipi caritatevoli; meglio usarla per quello che è, o che dovrebbe essere, una normalità di sentire la cittadinanza attiva e la nostra presenza sociale, a prescindere dal proprio credo, che rimane un dare personale significato a un presupposto umano che non ha etichetta. Con questa espressione colloco il significato profondo dell’accoglienza in un solco stretto e definito, lontano da Norberto Bobbio («il laico è l’uomo della ragione, il credente è l’uomo di fede») e vicino a Massimo Cacciari («laico può essere il credente come il non credente») e aderente a Enzo Bianchi («la differenza non è più tra credenti e non credenti, ma tra idolatri e antiidolatri»). Come non essere d’accordo con Pietro Barcellona che pensa alla laicità come a uno stato di incessante interrogazione, una sorta di costante veglia, di rinnovata antiidolatria. È nell’esplorazione di questa dimensione che si rende evidente come talora l’accoglienza sia governata dall’idolatria, laica o religiosa che sia, e non semplice fattualità quotidiana. L’accoglienza familiare spiritualmente gratuita è tipica espressione di antiidolatria. Praticarla significa divenire diversi come succede in tutte le vicende umane partecipate. Praticarla significa adottare un nuovo stile di vita, non necessariamente migliore, ma fondamentalmente diverso perché cambia la bussola dell’andare. Nella relazione tra epistemologia e mistica dell’accoglienza si trovano i sottili fili del tentare una via di ricerca interiore di qualità. Per il genitore, persona mistica per eccellenza, non è importante il risultato, ma come esso si consegue, così come per lo spirito non è importante la mèta, ma il cammino che quotidianamente si compie.