Populismi senza popolo

di Monini Francesco

20 maggio 2017. Due capipopolo senza popolo (vedi le successive, rovinose per loro, elezioni amministrative a Genova, Parma e in altre città) mettono in scena l’ennesimo confronto a distanza. Si sa, i populismi hanno bisogno di simboli e di miti, di santi. E ogni capriola è concessa, anche arruolare nel proprio esercito le «anime morte».

Beppe Grillo va ad Assisi e in nome del suo «reddito di cittadinanza» (una proposta che non sta in piedi, ma che deve funzionare sul suo popolo come un abracadabra) guida le truppe pentastellate in una «marcia francescana». E dichiara, testualmente: «Siamo noi i nuovi francescani!».

Lo stesso 20 maggio Matteo Renzi risponde eleggendo a sua volta il suo eroe. A Milano inaugura la scuola di formazione del Partito Democratico. A chi è intestata la scuola? Nientemeno che a Pier Paolo Pasolini, quello delle «Lettere luterane» e degli «Scritti corsari», l’intellettuale di sinistra tutt’altro che organico, il più eretico di tutto il Novecento italiano. Proprio lui che in altri tempi è stato sbattuto fuori dalla scuola italiana ed espulso dal partito comunista in quanto omosessuale.

L’appropriazione indebita (e un tantino ridicola) da parte di Grillo e di Renzi di due outsider come Francesco d’Assisi e Pier Paolo Pasolini mi pare nasconda una grande debolezza: un estremo tentativo di raschiare il fondo del barile davanti a una proposta politica e a un consenso elettorale in inesorabile declino.

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Da più di un ventennio, dopo il crollo del Muro di Berlino e, in Italia, dopo la stagione di Tangentopoli, viviamo il brusco e definitivo «tramonto delle ideologie». Il Novecento si è chiuso portandosi via con sé le grandi idee forza che avevano messo in movimento milioni di uomini e di donne. La bufera di mani pulite ha sepolto anche i vecchi partiti (i grandi come i piccoli), gli assoluti protagonisti dei primi cinquant’anni della Repubblica.

Nell’improvviso vuoto delle ideologie e dei partiti, l’Italia si è trovata a sperimentare – prima in Europa e molto prima degli Stati Uniti – una nuova stagione populista. Non il populismo classico, ma le sue moderne varianti. Prima quello aziendale e televisivo, inaugurato con la discesa in campo del Cavaliere e premiato con il plebiscito elettorale del 1994. Quindi il populismo identitario della Lega di Bossi (basato sul falso storico della Padania e annaffiato con l’ampolla delle sorgenti del Po). Poi il populismo di un comico che si inventa politico e che a suon di «Vaffa…» promette al popolo della rete un’Italia capovolta («cyberpopulismo» lo chiama Marco Revelli). Infine il nuovo populismo di Matteo Renzi, dedito a distruggere quel che rimane della Sinistra, inseguendo il Partito della Nazione e brandendo la clava della rottamazione.

Quattro varianti diverse tra loro ma con un unico denominatore, che è poi il segno distintivo di ogni populismo: la concentrazione della decisione politica in una sola persona, il rapporto diretto, senza intermediari, tra il capo (il leader, il caudillo, il grande comunicatore) e il popolo. Tutto quello che ci sta in mezzo (tutte le forme di rappresentanza e ogni voce critica) vanno quindi ridicolizzate, tacitate, ridimensionate, svuotate. Meglio ancora, eliminate.

Ecco, quindi, un Parlamento sempre più periferico, usato solo come megafono e umiliato dai continui voti di fiducia e dall’uso corrente dei decreti legge governativi. Ed ecco gli attacchi violenti contro la contrattazione collettiva, la rappresentanza sindacale e la Cgil in particolare.

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Il programma populista era abbastanza chiaro. Sembrava anche poter funzionare, ma qualcosa si è rotto e tutto è andato storto. Silvio Berlusconi ha collezionato processi e perso, insieme ai voti, l’aurea dell’imprenditore di successo. Il rude Matteo Salvini, succeduto al rude Umberto Bossi, non ha sfondato al sud ed è rimasto ancorato al suo 15%. Il movimento di Grillo ha esaurito la sua spinta propulsiva, si è diviso in due grandi correnti (i duri e puri contro gli apprendisti politicanti) e dopo la conquista di Roma Capitale ha perso la sua verginità (e la faccia).

Anche l’esperimento di «populismo dall’alto» di Renzi sembra ormai fallito. Dopo il 41% delle elezioni europee del 2014 è stato tutto un rotolare verso il basso. Il referendum del 4 dicembre scorso, fortissimamente voluto dal leader maximo contro tutto e contro tutti, non è stata solo una brutta sconfitta, ma ha segnato la parola fine al rapporto fiduciario tra il popolo e il suo capo.

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Sul fallimento dell’esperimento renziano concordano tutti i commentatori in circolazione. Solo Renzi sembra non essersene accorto. Com’è possibile? È forse diventato improvvisamente stupido? No, non è stupido, è che non ha alternative. Il populismo non può cambiare rotta. Un piano B non esiste e non può esistere. Il capo deve «tirare dritto», magari prendersela con chi gli sta accanto e subito rilanciare, alzare continuamente la posta, programmare nuove campagne militari. Solo così (pensa ogni leader populista) gli sarà possibile rinsaldare il rapporto e il controllo sul proprio popolo.

Il Partito Democratico continua a perdere pezzi, raggiungere il quaranta per cento dei voti non è più un obbiettivo realistico. Chi si sceglierà come alleato? Vedremo. Ma Renzi ha davanti a sé un problema molto più grosso. Un problema senza soluzione e che condivide con gli altri leader populisti: Berlusconi, Salvini e Grillo. E cioè che non può esistere un populismo senza popolo. Nessun populismo, comunque coniugato e aggiornato, può sopravvivere se il popolo nega la sua fiducia al capo. Ormai più del 50% degli italiani ha rinunciato al proprio diritto di voto (nelle ultime elezioni amministrative molti sindaci sono stati eletti con meno del 20% dei voti). Insomma, il popolo si è stancato. Ha mangiato la foglia. Ha rassegnato le sue dimissioni.

Forse, e sarebbe un bene, in Italia l’era dei neo-populismi sta volgendo al termine. Peccato che, dietro l’angolo, non si veda molto di nuovo.

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Da solo o quasi, senza codazzo di prelati e cardinali, senza folle osannanti, papa Francesco è andato a far visita a don Mazzolari e a don Milani. La foto di Francesco in preghiera davanti alla povera tomba di Barbiana suona come un risarcimento, la riabilitazione di due preti «scomodi», due figure fuori dal coro (anche in questa occasione non sono però mancate precisazioni, distinguo e mugugni da parte di alcuni gerarchi curiali). Ma la breve visita di Francesco ha un valore più ampio, è la conferma di una scelta di campo, una precisa dichiarazione di intenti: o la Chiesa riparte dai poveri, dagli ultimi, dagli esclusi, dai rifugiati, oppure tradisce la sua missione.

Passano solo dieci giorni e il Vaticano è in subbuglio per le accuse di pedofilia che i giudici di Sidney rivolgono al cardinal Pell per fatti compiuti negli anni settanta, quando era un semplice prete. Pell era già stato accusato in passato di aver coperto, quando era vescovo, alcuni preti pedofili della sua diocesi. Nonostante questa accusa era stato chiamato (ahimè, proprio da papa Francesco) a districare l’oscuro groviglio della finanza vaticana. Ora il cardinal Pell non è più tesoriere (l’equivalente di un ministro del tesoro e delle finanze) del ricco Stato della Chiesa. Papa Francesco l’ha subito rispedito in Australia dove, senza porpora, dovrà difendersi davanti a un tribunale civile.

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Ma perché Francesco ha scelto il cardinale Pell, già allora screditato da voci e accuse pesanti, per ricoprire una carica così prestigiosa e delicata? Come conciliare il Francesco di don Milani e degli ultimi con il Francesco che si circonda di potenti prelati al di sotto di ogni sospetto?

Credo dobbiamo abituarci all’esistenza di due Chiese dentro la Chiesa. Una Chiesa che tenta di aderire al vangelo e di aprirsi al mondo secondo lo spirito del Concilio. Ma insieme a questa Chiesa – a cui ogni giorno papa Francesco aggiunge un grano di rosario – continua a esistere (e continua a contare) la Chiesa del potere, della curia vaticana chiusa dentro i suoi privilegi. Questa seconda Chiesa continua a opporsi al «nuovo corso» predicato dal papa argentino. È un’opposizione invisibile e silenziosa, ma tenace, che arriva anche a deviare e condizionare alcune scelte del papa.

Prima o poi – forse solo quando Francesco non ci sarà più – le due Chiese si daranno battaglia in campo aperto. Non è successo così anche dopo la morte di papa Giovanni XXIII? Francesco se ne sta probabilmente rendendo conto, per questo le sue parole, i suoi gesti, le sue prese di posizione stanno diventando sempre più netti… Non gli rimane molto tempo. Per evitare che l’enorme forza dell’istituzione e la Chiesa dei potenti abbiano a prevalere sulla carica rivoluzionaria del messaggio evangelico dovrà compiere una rivoluzione dall’alto, non solo dal basso. Occorrerà smontare il Vaticano pezzo per pezzo o sarà il Vaticano a vincere la guerra.

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Dopo quarantatré (43!) anni dalla strage fascista di Brescia, arriva la sentenza della Cassazione che scrive la parola fine al processo di Piazza della Loggia. Il giorno dopo, la polizia portoghese arresta a Fatima (miracolo?) l’irreperibile Maurizio Tramonte, condannato all’ergastolo in via definitiva.

Giustizia è fatta? Beh, la notizia non riesce a sollevarmi l’umore. Sarà colpa delle foto, quelle tremende foto in bianco e nero. Colpa di una giustizia che si è persa in depistaggi e vicoli ciechi. Di stragi ancora impunite dopo decenni. Processi ancora in corso: la strage di Bologna, quella di Ustica, quella di via Georgofili a Firenze. Oppure processi ufficialmente conclusi (piazza Fontana o Italicus), ma che non hanno dissipato il buio.

Quelle foto in bianco e nero ci raccontano molte brutte storie (ricordate quel Giuseppe Pinelli misteriosamente «volato» dalla finestra durante un interrogatorio?), misteri insoluti, intrecci tra politica e ambienti mafiosi, connivenze e opacità nei corpi diàpolizia, nei servizi segreti, nella magistratura. Sono l’emblema di un’Italia che non passa, che è ancora tra noi, come un enorme sasso sullo stomaco della nostra democrazia incompiuta. Certo, alla fine qualcuno in galera ci è finito, ma molti rimangono uccel di bosco. E mentre i mandanti rimangono nell’ombra, i comitati e i parenti delle vittime continuano a chiedere luce e giustizia.

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È morto Stefano Rodotà, un grande giurista ma, prima di tutto, un uomo libero, il politico non di professione, senza tessere di partito, che ha promosso e difeso i diritti dell’uomo e del cittadino. Quei diritti sanciti dalla nostra Carta Costituzionale e che aveva lui stesso contribuito a scrivere nella Costituzione Europea, che però sono ancora largamente incompiuti, messi ai margini dai programmi di governo. Uno degli ultimi suoi libri (Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza – la Repubblica) è dedicato a una parola antica ma che rappresenta oggi la sfida decisiva per la nostra civiltà, e per ognuno di noi: per disegnare il nostro presente e il nostro futuro.

L’imminente approvazione parlamentare (salvo inciuci dell’ultima ora) della legge sulla jus soli rappresenta un passo importante in questa direzione. Anche se il cammino della solidarietà, in Italia e in Europa, è ancora molto lungo. È questa l’estrema lezione di Stefano Rodotà: l’effettivo esercizio dei diritti dipende da noi, non si conquista mai una volta per tutte, e nessun monarca (e nessun governo) è disposto a farcene regalo.