Una nuova bibbia per i progressisti?

di Panebianco Fabrizio

Due anni fa uscì nelle librerie un libro di economia che diventò un best seller vendendo milioni di copie in tutto il mondo (ma facendo molti meno lettori). Si tratta del Capitale del XXI secolo di Thomas Piketty. Per due anni è stato un libro molto influente, considerato la nuova Bibbia dei progressisti (le 900 e passa pagine hanno aiutato il paragone), e ha rinvigorito, grazie anche al suo titolo, lo spirito anticapitalista di molti. Supportato da un imponente e al momento ineguagliato lavoro sui dati degli ultimi secoli, Piketty ha fatto suonare la campanella d’allarme sulla disuguaglianza crescente: la quota di ricchezza che va in mano ai detentori di capitale sale sempre più, mentre i percettori di reddito da lavoro ricavano una quota sempre minore di ricchezza. Da qui la doppia tesi della crescente disuguaglianza e del rischio per la tenuta delle istituzioni democratiche di fronte alle richieste di un’élite sempre più forte.

A lungo il libro ha suscitato dibattiti e critiche, più nella società civile che nell’accademia. La motivazione principale è che nella società civile il dibattito è avvenuto spesso assumendo per vere le conclusioni del volume e cercando di individuare le politiche più opportune. Al contrario, il dibattito accademico deve seguire una maggiore scientificità e, quindi, deve cercare innanzitutto di provare a falsificare la tesi sostenuta per vedere se questa regge alla prova empirica. Questo, ovviamente, richiede tempo. Lo scorso anno un giovane studente di dottorato, Matt Rognlie, ha pazientemente rivisto i dati e rifatto i conti e le stime e ha dimostrato come le conclusioni di Piketty sono, quantomeno, esagerate, e che le notizie sono meno allarmanti.

Innanzitutto Rognlie ha fatto notare che nella definizione di «capitale» utilizzata da Piketty entrano, per natura, anche le abitazioni. In paesi come l’Italia dove la proprietà della prima casa è diffusissima, ogni famiglia che possiede casa possiede per definizione del capitale. Ecco che si scopre dunque che negli ultimi 40 anni, la maggior quota di reddito andata al capitale è dovuta principalmente al settore dell’edilizia residenziale. In paesi dove la proprietà delle prime case è alta, si è trattato di fatto di un aumento di ricchezza delle famiglie.

Il secondo punto sollevato da Rognlie è che Piketty non tiene conto che gran parte della ricchezza che va in quota capitale in realtà serve solo a rigenerare il capitale che deperisce. Chiunque abbia del capitale fisico sa che questo abbisogna di costante manutenzione, e costosa, e che dopo un po’ di anni risulta inutilizzabile. Occorre quindi continuamente rimpiazzare il capitale vecchio con del capitale nuovo. Questo è tanto più vero negli ultimi decenni, dove il forte progresso tecnologico impone un costante investimento in nuovo capitale. Ecco quindi che gran parte dell’aumento della quota andata a capitale non è andata ad arricchire i patrimoni di alcuno, ma a rimpiazzare il capitale fisico delle imprese.

Questi due punti, da soli, hanno permesso di dimostrare che gran parte degli effetti trovati da Piketty rischiano di svanire e che la strada verso una società dominata da pochissimi Paperoni capitalisti è ancora lontana.

Vi è però un ultimo punto sollevato tempo fa da Debraj Ray, professore presso la New York University. Supponiamo pure che le conclusioni di Piketty siano veritiere e che il reddito percepito da chi detiene quote di capitale sia maggiore del reddito da lavoro. Siamo sicuri che non esista una soluzione realizzabile a questo problema? In particolare, se ciascuno detenesse una quota di capitale fisico, tramite quote di imprese, ciascuno potrebbe beneficiare di questo aumento del reddito associato al capitale. Pensiamo per esempio a un paese come l’Italia dove, in media, ogni adulto detiene una ricchezza finanziaria di 250.000 euro, in parte destinato a immobili e in parte in altre attività finanziarie. Poche famiglie destinano i propri risparmi nell’acquisto di quote di imprese, mentre molte investono in altri strumenti quali le obbligazioni dello Stato che, però, non portano a farle partecipare ai rendimenti del capitale. Parte del problema risiede anche nelle scelte di investimento poco remunerative delle famiglie, che le hanno di fatto rese poco «capitaliste» pur detenendo grandi quantità di ricchezza.

Le conclusioni di Piketty rimangono tuttavia lì come monito e stimolo a tenere alta la guardia. L’enorme pregio è quello di aver riportato un tema come quello della disuguaglianza al centro del dibattito e di averlo fatto non usando idee preconcette ma affidandosi alla ricerca e al metodo scientifico, che assicurano una maggiore solidità delle risposte a cui si giungerà. Questo, in un tempo in cui esperti di ogni materia fioccano da ogni parte dispensando verità, ha un valore inestimabile.

Fabrizio Panebianco
ricercatore di economia politica,
école d’économie de Paris