La mistica tra eresia e santità

di Eleonora Graziani

Che senso ha parlare di mistica nella società contemporanea in cui si assiste alla “sdivinizzazione” del mondo, in cui la mancanza di Dio corrisponde alla perdita del senso e dello scopo, di ogni orizzonte che non sia il valore di scambio che ha soppiantato completamente il valore d’uso delle cose e della natura? La risposta risiede nel fatto che la mistica corrisponde a un lutto, all’assenza di Dio sulla Terra e alla struggente nostalgia che ne consegue. In questo senso la prima mistica cristiana è stata Maria Maddalena, alla disperata ricerca del corpo di Gesù nel sepolcro, a cui è stato riservato il primo incontro con un Cristo trasfigurato (glorificato). Lungi dall’essere un tema esotico, riservato ai pochi santoni ancora esistenti, l’assenza di Dio dalla storia è una nostalgia sociale, riservata a tutti quelli che ancora riescono a provarla, che rifiutano di essere proiettati nel buco nero del mercato globale sempre più tecnologico e sempre meno umano.

La mistica non coincide mai con la religione
Pur riscontrandosi in tutte le religioni, dall’ebraismo alle religioni orientali fino ovviamente alla religione cristiana (in particolare cattolica), la mistica non coincide mai con la religione, pur intrattenendo con essa un rapporto originario, dialettico e spesso conflittuale. Detto in altri termini, la relazione con Dio trae origine da un substrato storico-religioso ben determinato da cui trae dogmi, immagini e simboli. Come afferma Gershom Scholem «il carattere tradizionale della mistica è dovuto al fatto che l’espressione delle loro esperienze viene immediatamente tradotta in simboli tradizionali del proprio mondo». Il presupposto indispensabile perché l’incontro con il divino possa avvenire è che sia fondato sulla fede dell’essere umano che tale incontro possa avvenire nella storia (universale e personale), di solito maturata nell’ambito specifico di una religione istituzionale (con le debite eccezioni in ambito cristiano di conversioni fulminanti di non credenti come San Paolo e Simone Weil). Nella sua esperienza, il mistico incontra la vita. Ma questa è qualcosa di completamente diverso dalla pienezza di tutte le cose con Dio: è ciò che cresce e si trasforma senza essere incatenato da nessuna legge e autorità, è il libero flusso, incessante distruzione di ogni forma che ne è emersa. Elemento anarchico dell’immersione nella libertà da ogni vincolo e nella promiscuità di tutti gli esseri. È evidente che dal punto di vista della comunità umana questo rapporto dialettico del mistico con la sua esperienza apparisse come possessione diabolica. Per fronteggiare il rischio di “possessione diabolica”, la Chiesa cattolica nel corso dei secoli ha formato un vero e proprio corpo specializzato, composto dai confessori, presumibilmente in grado di distinguere l’autenticità del contatto con la divinità dalla sua simulazione o addirittura dalla vera e propria falsificazione. L’istituzione della confessione era in realtà praticata fin dalle origini del cristianesimo come penitenza pubblica, unica e non ripetibile, evolvendosi gradualmente nel corso dei secoli con l’obiettivo principale della salvezza dei fedeli, attraverso il controllo capillare sui loro peccati. Il Concilio Laterano IV del 1215 è tappa fondamentale di questo processo, istituendo una nuova prassi del sacramento della confessione in cui erano garantite la ripetibilità e la segretezza (non solo dei peccati, ma anche del penitente, dato che in pubblico non si confessava quasi più nessuno). Mutava anche radicalmente il ruolo del confessore: da iudex peccatorum a medicus animarum. Il Concilio di Trento è un’altra tappa fondamentale della storia della confessione, dedicando tutta la sessione XIV del 25 novembre del 1551 al sacramento della penitenza con l’aggiunta di 15 canoni al sacramento che si concludono tutti con l’espressione «sia anatema». Si tratta, nei fatti, di un potente dispositivo di potere sulle coscienze, facente parte della strategia difensiva del Concilio contro l’eresia protestante. Il rafforzamento progressivo della pratica della confessione raggiunge l’apice in epoca controriformistica e contribuisce alla formazione dell’individualismo peculiare della cultura occidentale, fondato sulla verbalizzazione e conseguente individuazione delle vicissitudini personali del soggetto, dandogli continuità e coerenza. La confessione obbligatoria per le donne religiose (in clausura altrettanto obbligatoria dal 1566) appare, almeno fino al XVII secolo, un enorme contenitore di esperienze sparse e volatili, che vengono raccolte, scritte, ordinate, giudicate secondo i metodi prescritti dai manuali di confessione. I confessori e i direttori di coscienza utilizzano una metodologia precisa nella guida alla rielaborazione e alla classificazione degli eventi personali, suddividendoli in positivi e negativi, virtù e peccati.

Lo scandalo filosofico e teologico della mistica femminile
Gli scritti delle mistiche su cui ci basiamo, quasi sempre altro non sono che delle lunghe confessioni scritte, unica forma di scrittura concessa, anzi prescritta alle donne, almeno fino al XVIII secolo. Tuttavia, nonostante l’ingombrante sguardo maschile, spesso mandante e destinatario dello scritto, la scrittura mistica femminile in età medievale e moderna è comunque scrittura, anche se subalterna di una parte della popolazione ai margini. Come ha sottolineato il famoso studioso della mistica Michel de Certeau: «(la scrittura mistica come) realizzazione contro l’appropriazione della verità da parte del clero […] privilegia i lumi degli analfabeti, l’esperienza delle donne, la saggezza dei pazzi, il silenzio dei bambini».
È a queste minoranze escluse che un Dio ironico affida l’incontro mistico e la sua scrittura.
L’unico evento di fronte al quale il discorso filosofico maschile ha dovuto alzare le mani in segno di resa. Michel de Certeau individua, infatti, nel XVI secolo cattolico l’apice dell’umiliazione della tradizione cristiana: non solo il trauma dello scisma protestante, con le sue pretese di un contatto diretto con la divinità attraverso le Scritture, ma anche l’esplosione mistica umiliano profondamente chi crede di avere un impianto solido e inattaccabile, fondato su una gerarchia che risale alla tradizione apostolica.
Lo scandalo filosofico e teologico della mistica femminile è infatti che la parte svalorizzata della dinamica binaria fra i sessi, quella femminile, trovasse una perfetta simmetria non nell’uomo, ma nell’alterità di Dio. Il matrimonio mistico, traguardo vittorioso del difficile percorso, come attestano le testimonianze scritte delle mistiche, spesso vissuto in stati estatici e accompagnato da scambi di anelli e comparsa di stigmate, attesta la simmetria della relazione con Dio, che si colloca come interlocutore intimo nella posizione sponsale: matrimonio specialmente, anche se non esclusivamente, diffuso nel mondo femminile, probabilmente anche perché non comporta un’inversione di genere, essendo il Dio cristiano declinato al maschile.
Appare chiaro che se il fenomeno del matrimonio mistico fosse stato riconosciuto come autentico, il prestigio della sposa assurgeva come minimo al valore di santità, scavalcando d’un balzo, almeno spiritualmente, qualsiasi esponente della gerarchia ecclesiastica, compreso il Papa. La delicatezza e la pericolosità della problematica sono alla base della costituzione dell’Inquisizione ad affiancare, per i casi più gravi, il controllo serrato e capillare dei confessori. I teorici del discernimento degli spiriti concordavano che le vittime predilette del demonio, a causa della loro incapacità mentale e della loro credulità, erano le “donnette” (muliercolae).
L’allarme veniva specialmente dall’Inquisizione spagnola (1478-1834), dove la diffusione delle beatas, collegate al movimento degli alumbrados, stava assumendo dimensioni preoccupanti. Paradossalmente la concezione negativa della donna, come di un essere incapace di intendere e di volere e particolarmente incline a essere sedotto da Satana per la sua natura vanitosa, ha salvato molte vite dalle forme più cruente della repressione inquisitoriale. La dissidenza spirituale e l’eresia vera e propria erano questioni da/fra uomini. Il pericolo della «finzione di santità» da parte delle donne era fronteggiato soprattutto svalorizzando i loro discorsi, mettendole nel novero delle ilusas da non prendere in considerazione. Conseguentemente i modelli di santità approvati e divulgati dalla Chiesa cattolica rappresentavano lo spartiacque che aiutava a distinguere una muliercola da una santa e, pur nell’evoluzione dei loro parametri nel corso dei secoli, privilegiano tutti la virtù dell’obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, unica mediatrice autorizzata fra il fedele e Dio.
Da questo incontestabile dato storico emerge con chiarezza la conflittualità permanente fra mistica e Chiesa istituzionale, con il carico di sviste, ritardi ed errori clamorosi da parte della Chiesa come la condanna del grande mistico e inquisitore domenicano Meister Eckhart (12601328), la diffidenza dell’Inquisizione spagnola e romana verso Teresa d’Avila (1515-1582), e la canonizzazione tardiva nel 2013 da parte di papa Francesco della grande mistica Angela da Foligno (1248-1309). Le scuse di Paolo VI a santa Teresa d’Avila, nel 1970, conferendole il titolo di dottore della Chiesa, l’accorato pentimento di papa Wojtyla pronunciato il 12 marzo 2000 per le “malefatte” della Chiesa (dalle crociate all’Inquisizione, passando per i roghi di Giordano Bruno e di Girolamo Savonarola, solo per dirne alcune) non cancellano il fatto che, dal punto di vista dei mistici, il più grande peccato della Chiesa è quello di voler controllare non solo i movimenti dei fedeli, ma addirittura quelli di Dio.

Una visione laica della vita umana, una visione patologica della vita mistica
Alla figura del confessore, del direttore di coscienza e dell’inquisitore si sostituisce, a partire dal XVIII secolo, quella del medico psichiatra e, nel XX secolo, dello psicanalista. Nel forte cambiamento storico che partendo dall’illuminismo giunge fino all’affermazione indiscussa del positivismo scientifico, si privilegia una visione laica della vita umana a cui corrisponde una visione patologica della vita mistica, che include, con inquietante continuità con il pensiero inquisitoriale, una concezione della donna come soggetto particolarmente condizionabile dai fenomeni sovrannaturali a causa della loro natura imperfetta. Le mistiche vengono rappresentate come soggetti isterici ( Jean-Martin Charcot), insoddisfatte sessualmente e carenti a livello cognitivo (Sigmund Freud), non rientranti negli “universali” non avendo il fallo ( Jacques Lacan).
In continuità con tale approccio scientifico alla mistica, il professor Mattia Zangari nel suo recente studio Santità femminile e disturbi mentali fra Medioevo ed età moderna analizza i fenomeni mistici come sintomi di disturbi mentali.
Parallelamente al pensiero freudiano, dominante a livello accademico, incentrato sull’inconscio pulsionale e critico rispetto alla religiosità come ricerca di fusione infantile all’indistinto preindividuale, dal 1913 (anno di rottura con Freud) Carl Gustav Jung elabora la “psicologia analitica” (o “del profondo”) basata su una sintesi fra inconscio individuale, inconscio collettivo e divinità.
Senza entrare nel merito della complessa architettura analitica che differenzia l’io junghiano dalla concezione di Freud, è da segnalare l’apertura alle religioni orientali, specialmente buddismo e taoismo, che contribuiscono all’elaborazione del concetto di “sé”. Il raggiungimento del proprio sé è il punto culminante del percorso di realizzazione della personalità, nel quale si portano a un’unificazione tutti gli aspetti consci e inconsci del soggetto.
La relazione con Dio è strettamente intrecciata con il processo di autorealizzazione del sé, maggiormente collegata al piano simbolico degli archetipi che alla figura storica di Cristo, di Budda o di Maometto, ha la funzione di rafforzarlo: «Se poniamo un Dio fuori di noi, ci strapperà al nostro sé, perché il Dio è più forte di noi. Allora il nostro Sé si troverà in grave difficoltà. Se invece il Dio si insedia nel Sé, ci sottrarrà alla sfera di ciò che è fuori di noi. (…) Nessuno ha il mio Dio, ma il mio Dio ha tutti quanti, me compreso» (Carl Gustav Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, 2010, p. 245).
Concludo questa sommaria introduzione alla mistica con le parole del grande pensatore ebreo Martin Buber (1875-1965) che rispecchiano l’unico approccio che permette la comprensione dell’indicibile, senza catalogarlo preventivamente nell’ambito del patologico o della superstizione: «L’estatico si può spiegare dal punto di vista psicologico, fisiologico, patologico; per noi è essenziale ciò che resta al di là della spiegazione: la sua esperienza vivente».

Eleonora Graziani

nata a Ferrara nel 1957,
è laureata in filosofia e pedagogia, fa parte della comunità filosofica femminile Diotima,
i suoi studi si concentrano sull’esperienza mistica femminile, considerata dal punto di vista filosofico.