Teresa d’Avila, un sorriso contro l’inquisizione

di Eleonora Graziani

I biografi concordano che le sue ultime parole furono «Alla fine, Signore, sono figlia della Chiesa». Quella Chiesa, che riuscì con grande fatica a non abbandonare e che in vita le diede ben poca pace, si affrettò a proclamarla beata nel 1614, santa nel 1622, ma solo nel 1970, a opera di papa Paolo VI, insieme alle scuse, le conferì il titolo di dottore della Chiesa.
Uno degli aspetti più sorprendenti dell’esperienza di Teresa d’Avila è infatti che, a fronte della beatificazione e della santificazione relativamente veloci, dal momento della sua morte in poi le segnalazioni e le denunce all’Inquisizione spagnola, e successivamente anche a quella romana, si moltiplicano. Sorprende, infatti, di fronte all’accanimento degli accusatori che reiterano le relazioni e i memoriali contro gli scritti teresiani, segnalando errori dottrinali ben fondati (dal punto di vista inquisitoriale), il rapido esito favorevole alla sua santificazione e l’immediato enorme culto pubblico della santa, proclamata patrona di Spagna già nel 1617, tre anni dopo la beatificazione.
L’interpretazione ufficiale degli storici è che la canonizzazione di Teresa era fortemente voluta e promossa dalla corona spagnola, dall’Ordine degli scalzi e da un nutrito gruppo di nobili, di cardinali e di vescovi, che chiesero l’avvio e l’espletamento della causa. Oltre all’appoggio di Filippo II, la relativa cautela dell’Inquisizione verso di lei si spiega inoltre con un mutamento della politica papale nei confronti della riforma degli scalzi e della promozione della loro diffusione anche in Italia, nell’istituzione del ramo italiano, detta congregazione di sant’Elia.
Fonte principale del sospetto inquisitoriale è senza dubbio il Libro de la vida, sequestrato immediatamente dall’Inquisizione e mai restituito finché Teresa d’Avila era in vita. La fase più pericolosa inizia tra il 1574 e il 1575, quando arriva al tribunale di Córdoba, impegnato contro un processo a un discepolo di Juan de Ávila, una specifica denuncia contro di lei e i suoi scritti.
Le denunce presentate al tribunale di Córdoba riguardarono principalmente la vita della carmelitana per la sua condotta e per la pratica dell’orazione mentale; veniva dagli accusatori assimilata alla setta degli alumbrados, oltre a essere sospetta per essere autrice di un libro di rivelazioni. Nel marzo 1575 la denuncia venne trasferita a Madrid dove, però, le critiche non sortirono alcun effetto.
Sempre nel corso del 1575 il tribunale di Valladolid requisì il manoscritto del Libro de la vida e lo inviò a Madrid, dove il domenicano Domingo Bañez, incaricato di farne una censura, ne diede però un giudizio positivo.
La pubblicazione postuma degli scritti teresiani nel 1588, a opera di Luis de León, scatena una ulteriore serie di segnalazioni e denunce all’Inquisizione spagnola che si prolunga dal 1589 al 1598. In causa era nuovamente l’ortodossia del Libro de la vida, del Cammino di perfezione e del Castello interiore.
La prima domanda che sorge spontanea è in che misura Teresa d’Avila fosse consapevole del controllo dell’Inquisizione nei suoi confronti e della gravità dei sospetti e quale fosse la sua risposta.
Risale al 1562, in seguito alla decisione di fondare il monastero riformato di San José, il momento in cui la consapevolezza di essere controllata assume i contorni concreti dell’Inquisizione spagnola.
Scrive infatti nel Libro de la vida: «Intanto il demonio giunse a far sapere agli uni e agli altri che su quell’affare io avevo avuto delle rivelazioni. Alcuni vennero spaventati ad avvisarmi che in fatto di visioni correvano tempi tristi e che qualcuno poteva trovarvi degli appigli per denunziarmi all’Inquisizione».

La maestria politica di santa Teresa
«Quell’affare» è la decisione di fondare monasteri in cui fosse riformato l’ordine carmelitano, riavvicinandosi alla regola primitiva. Al momento della stesura di questo passo il Libro de la Vida non è ancora terminato e Teresa è ignara di tutti i problemi che avrebbe scatenato proprio con l’Inquisizione. Tale dato giustifica solo in parte il tono della risposta che, senza dubbio, sarà apparsa particolarmente irritante agli occhi dei lettori inquisitoriali: «L’avviso mi parve curioso e non potei fare a meno di sorridere. Su questo punto non ho mai avuto paura. Sapevo bene come la pensavo in fatto di fede. Dispostissima ad affrontare mille morti piuttosto di dar a credere che trasgredissi una minima cerimonia della Chiesa o andassi contro a una verità della sacra Scrittura, risposi che per questo potevano mettersi in pace, perché troppo pernicioso sarebbe stato per me se avessi avuto di che temere l’Inquisizione: in tal caso mi sarei accusata da me stessa. Se poi mi avessero accusato ingiustamente, Dio avrebbe manifestato la mia innocenza e io ne avrei avuto un maggior guadagno».
Nella risposta emerge la consueta maestria politica di santa Teresa di spostare i termini del problema da una controversia fra lei e l’Inquisizione a un conflitto fra Dio e l’Inquisizione. Esente da ogni interesse personale, viene espressa una presa di posizione radicale nella certezza di compiere la volontà divina, ben superiore a qualsiasi istituzione umana.
La parte di Teresa consiste unicamente nel non trasgredire «una minima cerimonia della Chiesa» e non andare «contro una verità della sacra Scrittura». Risposta particolarmente azzardata nell’autoconferimento di autorevolezza, dato che il dibattito teologico del tempo (a partire da Melchor Cano e Fernando de Valdés, promotori dell’Indice del 1559) verteva addirittura sul fatto che una donna potesse avere accesso alle Scritture e che potessero essere concesse o meno delle grazie speciali di origine divina.
Nel commentare la minaccia di un esame inquisitoriale, Teresa scrive che l’avviso le parve curioso e non poté fare a meno di sorridere. Un sorriso problematico in tempi davvero così tristi come quelli che stava vivendo: da una parte manifestava la sicurezza di chi non ha mai trasgredito «una minima cerimonia della Chiesa», dall’altra appariva un sorriso ironico che ridimensionava drasticamente i poteri dell’Inquisizione, dato che, scriveva, con un’accusa ingiusta «Dio avrebbe manifestato la mia innocenza e io ne avrei avuto un maggior guadagno».
Il dato certo è che all’Inquisizione quel sorriso non è mai piaciuto e il Libro de la vida rimase sotto sequestro fino al 1588, sei anni dopo la sua morte.
Da notare che nel periodo dopo il 1550 le persecuzioni dell’Inquisizione erano infatti dirette non solo verso gli alumbrados (accusati di non rispettare la gerarchia ecclesiastica e le cerimonie rituali), ma più in generale verso le donne, mentre precedentemente erano state incluse nel movimento di alfabetizzazione evangelica promosso dal cardinale Ximénes Cisneros (1436- 1517), arcivescovo di Toledo, grande Inquisitore dal 1507.
Sotto il patrocinio di Cisneros aveva circolato in Spagna la traduzione di parte delle Scritture e delle opere di Erasmo da Rotterdam, diffondendosi nei monasteri sia maschili, sia femminili.
Ad Alcalà venne realizzata una Bibbia poliglotta, importante versione plurilingue del testo sacro.
La morte del cardinal Cisneros nel 1517 segna la data di inizio di una netta inversione di tendenza rispetto al favore con cui venivano accolte in Spagna le numerose manifestazioni di spiritualità femminile. Lo stereotipo che cominciò ad affermarsi dopo la sua morte era che le donne, a causa della loro vanità e debolezza mentale, erano più facilmente ingannate dal demonio. Il linguaggio inquisitoriale marchia l’universo femminile di propensione a essere ingannato «perché Satana l’illusionista insidia preferibilmente le donne».

La personale teologia di Teresa
La cosa più importante per Teresa, nel periodo che segue la fondazione del monastero riformato di san José, fronteggiando gli ovvi conflitti con la gerarchia e con la parte “calzata” dell’ordine carmelitano, diventa la necessità di dimostrare che la propria conversione, e in definitiva il proprio rapporto con la divinità, non fosse di origine demoniaca. Impresa ardua, visto il grande numero di ilusas processate dall’Inquisizione spagnola nella seconda metà del Cinquecento.
La risposta degli esperti ottenuta da Teresa, interpellati appositamente per metterla al sicuro dai propri e altrui dubbi in merito alla strada spirituale intrapresa, la getta nello sconforto più totale: i dotti discernitori di anime Gaspare Daza e Francesco de Salcedo, dopo un accurato esame, la ritengono vittima del demonio.
Dalla profonda crisi che segue a questo responso scaturisce tuttavia quello che si può definire un vero e proprio riscatto teologico: Teresa d’Avila, sulla base delle proprie esperienze, del continuo dialogo con il divino, elabora una personale teologia (e conseguente demonologia) fornendo una sorta di istruzioni per l’uso, per distinguere la provenienza dei fenomeni soprannaturali, se di origine divina o di origine demoniaca.

È la qualità dell’amore il discrimine
Proprio nel momento in cui è imputata di essere vittima del demonio, Teresa mette la qualità dell’amore a discrimine fra lo spirito divino e l’illusione demoniaca: «Sì, parlo di tenerezza ma soave, forte, penetrante, deliziosa e tranquilla ben diversa da certe devozioncelle che non mi sento neppure di così chiamare fatte unicamente di lacrime e di piccoli sentimenti che appassiscono subito al primo venticello di persecuzione, come gracili fiorellini. Sono buoni princìpi e sentimenti lodevoli, ma non sufficienti per distinguere gli effetti dello spirito di Dio da quelli del demonio».
Non manca, in queste parole, un accento polemico verso l’ipocrisia dei buoni princìpi e dei sentimenti lodevoli, incapaci di discernere il vero dal falso, perché deboli di fronte alle prove di cui è disseminato un autentico percorso di fede. La delusione e l’amarezza, di fronte alle numerose reticenze, agli appoggi concessi e poi negati da parte della gerarchia ecclesiastica che seguono il periodo della fondazione del ramo scalzo delle carmelitane, si esprime come un vero e proprio grido d’accusa in un passo, immediatamente censurato dai confessori, tratto dal manoscritto detto Escorial: «Non basta, Signore, che il mondo ci tenga chiuse come bestie in un recinto […] e che non possiamo fare niente per voi in pubblico, che non osiamo dire alcune verità su cui piangiamo in segreto, ma che anche voi non dobbiate ascoltare una richiesta così giusta? Io non posso crederlo di voi, Signore, della vostra bontà e giustizia, perché voi davvero siete giusto giudice, e non come i giudici del mondo – i quali, perché sono figli di Adamo e quindi tutti maschi – non c’è virtù di donna che non considerino sospetta. Giorno verrà, però, in cui si vedrà chi sono».
Nonostante le ripetute dichiarazioni di obbedienza ai confessori e alla Chiesa istituzionale nel suo complesso, il dato che non ha mai convinto l’Inquisizione e molti esponenti della gerarchia è il tono dottorale di questa donna che, con un coraggio inaudito per il periodo storico, denuncia la misoginia della Chiesa, giudice del mondo, e si appella a un modello maschile diverso: quello di Gesù, unico giusto giudice.
Nel 1577 il nunzio apostolico Filipp Sega la definisce «una femmina inquieta e vagabonda, disubbidiente e contumace, che propagava false dottrine contro gli ordini del Concilio di Trento e dei suoi Superiori, insegnando come maestra, mentre San Paolo prescrive che le donne non devono insegnare».
Una lettera del 4 ottobre 1578 di Teresa al suo amico gesuita Hernàndez, a cui chiede aiuto, attesta che lei fosse al corrente delle accuse, a cui risponde con altrettanta durezza: «[…] di me dicono che sono inquieta e vagabonda, e che le mie fondazioni sono state fatte senza licenza, né del papa, né del Generale […] per poi rispondere all’accusa del nunzio, secondo il quale noi non siamo in regola perché i monasteri si sarebbero fondati senza licenza, le spedisco una copia delle patenti che mi autorizzavano a fondare. Supplico infine Vostra Grazia di parlare per conto mio con il padre confessore del nunzio; gli presenti i miei ossequi e lo informi di tutto, affinché obblighi il nunzio a non più pubblicare tante indegnità prima di aver preso le debite informazioni. Gli dica pure che sì, io sono molto cattiva, ma non mai al punto da fare quello che mi rinfacciano…».
E ancora: «Siccome io sono stata allevata dalla Compagnia, dalla quale, come suol dirsi, ho ricevuto la vita, non sarebbe male, a mio modo di vedere, che un religioso della medesima s’incaricasse di far trionfare la verità, inducendo il Nunzio, persona molto rispettabile, ma venuto a riformare i religiosi in una terra non sua, a esaminare bene chi dev’essere riformato, favorire chi dev’essere favorito, e castigare chi gli va innanzi con tante menzogne» (S. Teresa di Gesù, Lettera 248 A Padre Paolo Hernàndez, gesuita a Madrid, in Lettere, pp. 748-752).
Emerge da questa corrispondenza la felice e rara sintesi fra mistica e politica che solo Teresa d’Avila ha saputo compiere riuscendo a non essere bruciata (letteralmente) dal contatto con Dio, che in questa fase, come attesta il Castello interiore, vive stabilmente in lei nella stanza centrale del castello, metafora dell’“io soggettivo”.
Matrimonio mistico che non le impedisce, anzi le permette, di occuparsi delle cose del mondo.

Eleonora Graziani

nata a Ferrara nel 1957, è laureata in filosofia e pedagogia, fa parte della comunità filosofica femminile Diotima,
i suoi studi si concentrano sull’esperienza mistica femminile, considerata dal punto di vista filosofico.