A fondamento della vita interiore

di fra Benedetto da Sillico

L’espressione "vita interiore", anche se assai di moda, mi pare molto vaga e riduttiva. Preferisco parlare di "vita spirituale". L’interiorità è una semplice componente della psiche umana, che si manifesta attraverso scelte esistenziali e filosofiche, tutte costruite sul raziocinio umano. C’è l’adeguamento ad una forma mentis che non porta all’universalità e spesso sbocca nel settarismo e nell’"elitismo". La vita spirituale non è immune da tali pericoli – se la si riduce a vita interiore! – però si ricollega ad un’intuizione del divino o del sovrannaturale insito nella coscienza umana e si sviluppa con essa. Solo le due espressioni saranno diverse secondo le epoche e le culture.
Essendo io monaco cristiano, mi atterrò all’esperienza cristiana o, in modo più sicuro, al richiamo di Cristo sulla vita spirituale: la vita di ciascuno di noi nello Spirito; l’incarnazione nostra dello Spirito, portando il sostantivo spirito all’aggettivo spirituale.
D’altra parte, nella nostra epoca così chiassosa, non si è mai tanto parlato del silenzio. Però si preferisce trovare i mezzi per mettere a tacere gli altri piuttosto che tacere noi stessi. Sarà che ciascuno di noi ha tante cose da comunicare!
Il silenzio si manifesta in vari modi. Non è una mera assenza di suono. Il silenzio che ci interessa non è esterno all’essere: è propriamente un modo dell’essere e non stare in un modo o in un altro; il silenzio è vivo, è una tensione dell’anima o, se si vuole, una vigilanza del cuore. È fondamentale, in quanto fondamento della vita spirituale. A patto che non si intenda fondamento, come comunemente lo si intende, come quello di una casa o di una legge. Il fondamento spirituale del cristianesimo è la Parola viva, riconosciuta e rivelatasi nel corso del nostro pellegrinaggio terreno ed è in questo stato pellegrino che il silenzio entra come fondamento. Per rimanere al paragone del fondamento fisico della materia, Cristo è il basamento e il silenzio è il fondamento.

I vostri pensieri
non sono i miei pensieri

La costruzione della vita spirituale passa attraverso l’assimilazione esistenziale delle Beatitudini, dove Gesù ribalta tutti i luoghi comuni più cari agli uomini. Mai è stata tanto vera la parola del profeta che fa dire a Dio: «I vostri pensieri non sono i miei pensieri, le vostre vie non sono le mie vie». La prima beatitudine è l’illustrazione antropologica del silenzio. Perché?
Abbiamo per abitudine di pensare che la libertà, l’indipendenza sono necessarie a delle scelte vere ed autentiche, e assimiliamo questi due termini ad un altro altrettanto ambiguo: autosufficienza. Dimentichiamo che la nostra libertà è sempre mediata e che l’indipendenza è solo affermazione di predilezione per una dipendenza. I pensieri umani, in quest’ambito, sono tutti fasulli o, più esattamente, basandosi su presupposti assiomatici, creano un sistema infrastorico limitato ad un periodo sempre più ristretto della storia, escludendo la transitorietà dell’uomo e delle sue istituzioni; tanto è vero che i nostri più belli ideali di società perfetta, cioè chiusa, finiscono con creare l’ennesimo inferno. Esempi lampanti sono sotto gli occhi dell’intera nostra generazione, ma continuiamo a voler strutturare le nostre utopie politico-sociali. Cristo, nella prima beatitudine, ci propone un’altra utopia – utopia perché la proposta fattaci è metastorica: la sua realizzazione non è di nessun tempo e di nessun luogo determinato; direi che è psico-culturale: è l’esodo dalle nostre utopie ed è espressa fattivamente dallo stato interiore di silenzio.

Beati i poveri in spirito
«Beati i poveri in spirito, perché vedranno Dio». Che cos’è maggiormente auspicabile di vedere la luce che illumina il cammino di ogni uomo? La luce vera, sorgiva! Cristo non dice «beati i poveri» e infatti chi mai oserebbe affermare che i poveri sono beati o che uno stato innaturale di degrado umano sia la via universale della felicità? Se i poveri fossero intrinsecamente beati, la Rivelazione non ci presenterebbe Dio come il loro protettore; un protettore che non chiede nessun conto al povero. Al contrario, gli assicura che la sua povertà lo pone, ipso facto, fuori da ogni forma di giudizio.
Non si tratta della povertà volontaria che entra nelle scelte etiche, ma della povertà subita, quale ne sia l’origine. Ed è il senso della povertà evangelica, evidentemente non è il senso imposto dai media per dare una sferzata psicologica al mercato o quello dei buoni sentimenti propensi a creare l’uomo alla misura delle nostre bramosie o delle nostre brutte coscienze. L’esempio del povero delle Beatitudini è di chi non può – per forza o per diritto – esigere nulla.
Esigere? Rivendicare niente perché privato di tutto non è ascoltato da nessuno; più di essere un nullatenente è un nonnulla.
«In spirito». Con il suo verbo profetico, Gesù non vuole nemmeno essere frainteso. Non parla di una situazione socioeconomica, nemmeno di un fatto culturale, ribadisce che nell’economia divina questi poveri, nonnulla della società, sono i bambini di Dio. Non si chiederà loro alla fine dei tempi più di quanto si chiede ai bambini. Pur di non dimenticare che l’uomo libero, cioè ricco, se non ritroverà lo stato d’animo del bambino, rimarrà fuori del Regno.

Servi inutili
Che cosa significherebbe se non che l’uomo non può accedere alla vita spirituale prima di essersi svuotato di se stesso per fare spazio a Dio? Che cosa è tale svuotamento, se non il silenzio? Silenzio dell’ascolto, silenzio della fede, silenzio dell’amore. Silenzio del discepolato, certo, ma silenzio più essenziale ancora, stato cosciente di chi davanti a Dio è un nonnulla. Solo su queste fondamenta Dio costruirà la casa «non fatta di mano d’uomo»; una casa in cooperazione perché il silenzio se è vivo è generatore di vita spirituale. È vita di Dio in noi, tramite noi.
«Servi inutili» – ci dirà Gesù un’altra volta, inutili certo ma servi lo stesso. Inutili perché nessuno è indispensabile ma servi perché servitori della Parola che salva; non la propria, ma la parola intuita, riconosciuta nel silenzio delle nostre logiche. O se il vocabolo servo ferisce la nostra mentalità: innesto. L’innesto non vive di vita propria, vive della linfa del tronco. Evidentemente, l’innesto non si rinchiude con la linfa altrui in una torre d’avorio di compiacimento e di contemplazione che sia, ma cresce e porta frutti, quelli che gli permette di maturare la sua individualità specifica, trasformandosi in personalità spirituale. Se fa l’indipendente, il sapiente muore: gli manca la sorgente della quale il letto è il silenzio.