Sarà l’economia sociale a salvarci dal capitalismo?

di Boschetto Benito

Un’ipotesi di economia mista

Dove va il capitalismo

Che il sistema capitalistico stia rivelando uno stato di crisi profonda, non legata all’andamento congiunturale dell’economia, ma ad un male oscuro che ne mina le fondamenta, non è affermazione gratuita né isolata
Paradossalmente si potrebbe dire che quando con la caduta del comunismo, il capitalismo ha celebrato il suo trionfo, ha anche iniziato, forse, il suo inconsapevole declino.
Male interpretando il senso storico degli avvenimenti, il capitalismo ha assunto il carattere di modello di valore assoluto.
Ha così generato, con il pensiero unico, una sorta di “teologia del mercato”, un fondamentalismo cioè che ha preteso di imporre ovunque il suo modello economico. E questo anche laddove mancavano le condizioni più elementari e mentre, oltretutto, il mercato stava perdendo sempre di più le sue caratteristiche più virtuose (con l’estensione smisurata delle concentrazioni monopolistiche, dei conflitti di interessi, della deregulation selvaggia ecc.).
Ma soprattutto ha commesso l’errore di credere che con la caduta del comunismo, fossero anche venute meno le ragioni che storicamente lo avevano generato. Ragioni che sarebbe fatale per l’economia, ma sopratutto per la società occidentale, continuare non solo ad ignorare, ma addirittura ad accrescere. Non occorre particolare perspicacia per cogliere i segni inquietanti che seguono a questo errore di lettura del nostro tempo.
E così, senza più limiti e senza più competitor, i sacerdoti dell’economia di mercato si sono sentiti autorizzati a dare pieno sfogo a quel processo di bulimia da avidità peraltro da taluni teorizzata come il nuovo sogno americano (Ivan Boesky 1986). Un processo che nella finanziarizzazione dell’economia e nella globalizzazione versione anni ottanta e novanta, ha trovato due formidabili fattori di accelerazione espansiva.
Gli ultimi anni hanno registrato numerosi segnali di questa crisi profonda e qualche segnale di faticosa presa di coscienza, peraltro del tutto insufficiente rispetto all’urgenza dei cambiamenti necessari.
Ma soprattutto hanno registrato una persistente ottusità in quei centri politici ed economici i soli capaci, oggi, di generare i cambiamenti che urgono, e senza i quali si rischia che, domani, tali cambiamenti avvengano, come la storia insegna, per altre vie ben altrimenti turbolente. E anche di questo i segnali non mancano.
La finanziarizzazione spinta e la globalizzazione guidata dagli interessi particolari, hanno generato, da un lato, una separazione dell’economia dalla realtà e, dall’altro,
una accentuazione della separazione dell’etica dall’economia e dalla politica.
La conclusione di tutta questa breve premessa è che questi processi, sommariamente enunciati, hanno prodotto quello che, senza esagerazione alcuna, possiamo definire come lo scandalo più clamoroso del nostro tempo. E cioè la contemporanea crescita smisurata della ricchezza accompagnata da una rilevante crescita della povertà, e quindi dell’ingiustizia, e non solo allargando ancora di più il divario fra paesi ricchi e paesi poveri, ma producendo una crescente povertà negli stessi paesi ricchi. Mentre Bush scriveva il suo famoso messaggio al congresso americano sulla guerra preventiva, affermando la dottrina imperiale della superiorità del modello di vita americano da imporre a tutto il mondo (basato sulla teologia fondamentalista del mercato), nel solo 2002 «tre milioni di americani sono passati dalla middle class allo stato di vagabondaggio. quasi 50 milioni non hanno assicurazione malattia. e, unico caso nei paesi ricchi, negli USA aumenta la mortalità infantile fra le comunità negra e ispanica, cresce l’analfabetismo, diminuiscono i matrimoni misti, si estende l’uso della pena di morte, per non dire che alle truffe finanziarie di una classe dirigente avida e bancarottiera, si aggiungono le truffe elettorali.” (Curzio Maltese, la Repubblica, 23/08/2003).
Insomma il mondo va proprio in senso contrario a ciò di cui avrebbe bisogno: la pace attraverso la giustizia ed il rispetto dei diritti. E il modello americano, pur sorretto dalla sua forza economica e militare e dal fondamentalismo della sua religione laica del mercato, non è certo la soluzione, ma piuttosto il problema.
Guai se fosse vera la provocazione di un grande economista (Sullivan) che quasi con disperazione afferma «La guerra alla povertà è finita. I poveri hanno perduto», perché gli risponde Marcos dall’altra parte del mondo «Se non sentite le nostre ragioni sentirete i nostri rumori».
Ma l’economia di mercato e la sua finanza, viene da domandarci, così prepotentemente dominanti ed avidi, saranno mai convertibili ad una modalità ed un’etica differenti capaci di aprirsi ad una dimensione anche antropologica?
«Dio ha creato l’uomo, ci ricorda Havel, e l’uomo ha creato il mercato». Non possiamo quindi chiamare in causa l’Altissimo per ciò che nel mercato non va, né porre il mercato al posto di Dio. È l’uomo che si rivelerà saggio o stolto (la storia di Re Mida insegna) a seconda se saprà o meno porre riparo a tanto scandalo, di cui lui, e lui solo, porta la responsabilità e la colpa.
Così come porterà la responsabilità di un modello di società che si va strutturando proprio sui “valori” e i disastri di questo neocapitalismo al quale non gli basta essere una “macchina dei soldi”, ma pretende anche di essere una weltanshaung da imporre al mondo, senza rendersi conto della sua improponibilità.

Il possibile ruolo dell’economia sociale

Così, mentre tutto lascerebbe supporre una intrinseca incapacità dell’economia a convertirsi anche per l’insipienza e la subalternità della politica che dovrebbe regolarla, personalmente credo che una possibilità sia oggi rappresentata dall’evoluzione del sistema economico verso un’economia mista nella quale assuma un ruolo di crescente importanza l’economia sociale di mercato. Una economia che, in senso lato, è rappresentata sia dal terzo settore, il cosidetto no profit, sia da quel tessuto di economia reale di produzione e servizi che conserva un rapporto corretto e ovviamente, moderno ed avanzato con tutti i fattori produttivi della teoria classica, a cominciare dal lavoro.
E, non a caso, dico a cominciare dal lavoro perché un ulteriore segno della deriva che manifesta il nostro sistema economico sociale, oggi, anche sulla spinta di una cultura mistificatrice ispirata ed asservita ad interessi scorretti e irresponsabili, è proprio rappresentato dalla delegittimazione morale che ha subito il lavoro ridotto ormai al rango di una merce qualsiasi.
E allora sarà bene ricordare il monito di Rifkin che ci avverte: «Oggi siamo in grado di produrre tutto ciò che ci serve con una limitata frazione di persone… Alle generazioni del terzo millennio resterà poco da scegliere. Sono infatti quattro le porte tradizionali alle quali si bussa per cercare lavoro: il mercato, lo stato, il terzo settore (o economia sociale, n.d.r.), la criminalità organizzata. Il mercato però offrirà sempre meno opportunità a causa del progresso tecnologico. Lo stato, ovunque nel mondo, non è più in grado di assumere. L’unica alternativa alla criminalità organizzata, resta il terzo settore» e/o l’economia sociale.
Se questo monito è tanto vero quanto inquietante, la risposta deve essere coerente da parte di chi ha a cuore il futuro delle nuove generazioni.
E così non solo sempre più netta apparirà la dimensione etica sia nell’agire quotidiano di ciascuno di noi, come nella costruzione della società. Vorrei dire quasi come scelta fra il “bene” e il “male” che finiranno per risultare meno sfumati, meno ambigui, meno ingannevoli. Ma di fronte a questa prospettiva, della quale nella realtà di ogni giorno abbiamo mille segnali confermativi di tendenza (il rapporto De Maillard sulla crescita dell’economia criminale è una testimonianza esemplare), il ruolo essenziale che può assumere l’economia sociale, emerge con implacabile evidenza al pari delle responsabilità dell’attuale classe dirigente nei confronti, appunto, delle nuove generazioni.

Il rapporto organico con il mercato finanziario

E tuttavia vi è una condizione preliminare all’assunzione piena di questo ruolo: quella che l’economia sociale esca dalla condizione di economia assistita e/o marginale (ed è marginale perché solo assistita) e con tutto il bagaglio delle sue specificità, a cominciare dalla qualità etica che la qualifica, entri in rapporto organico non solo con il “pubblico” e la solidarietà privata, ma anche con il mercato diventandone un fattore strutturale, a pieno titolo, capace di interagire con le sue dinamiche, le sue strutture, le sue istituzioni. Diversamente resterà sempre una realtà marginale, alibi per il sistema dominante.
Se in particolare non potrà avere accesso con regolarità, in condizioni di assoluta normalità e non per eccezione, alle risorse ordinarie e straordinarie del mercato finanziario e diventare economia sociale di mercato, il suo sviluppo continuerà ad essere maledettamente frenato e non realmente incisivo. E ciò nonostante le potenzialità che gli sono riconosciute e le attese che su di esso si vanno comunque riversando in modo crescente, anche in dipendenza dei processi di cambiamento in atto nella riorganizzazione del welfare, nella ristrutturazione del sistema economico, nel mercato del lavoro e così via.
E pur apprezzando altamente, secondo la teoria dei cento fiori, ogni possibile iniziativa di crescita della cosiddetta economia e finanza etica come realtà parallela, credo francamente che occorra andare oltre questo tipo di esperienze che si muovono su un parallelismo distintivo appunto, se vogliamo sperare di incidere significativamente nell’ontologia del sistema economico che ci governa.
Se insomma rispetto all’economia “vera”(secondo il senso comune) quella che accumula i soldi, l’economia sociale rimane realtà “altra”, che si accontenta delle briciole del sistema dominante, è inevitabile che essa resti un’economia ghettizzata destinata ad avere poco fiato e meno cielo.
Nella prospettiva di perseguire l’obiettivo di un sistema misto, due sono a mio parere le strade da percorrere con fantasia creativa per promuovere i processi di cambiamento necessari.
La prima è quella dell’uso dei prodotti e delle istituzioni del mercato finanziario finora destinati al solo mercato privato, da estendere anche al finanziamento di progetti sociali. Il che non esclude la ricerca di strumenti ad hoc sempre però finanziati con le risorse di mercato.
La seconda è quella di una coerente politica fiscale che ne elevi la convenienza e la fattibilità.
Le nuove sensibilità diffuse nel ricco mercato del risparmio, sempre più orientato a destinare almeno una parte delle risorse ad investimenti etici e le ricorrenti turbolenze del mercato azionario, ci dicono che esistono oggi come non mai condizioni particolarmente favorevoli verso questa evoluzione.
Il fattore ancora critico in questo processo resta semmai il ruolo delle istituzioni che gestiscono l’intermediazione finanziaria (dalle banche alla borsa alle mille società finanziarie) le quali vittime di assurdi pregiudizi come quelli che ignorano il valore economico del profitto sociale, stentano a capire, contro il loro stesso interesse, le virtualità di questo settore emergente del sistema economico sociale, meritevole non di elemosina, ma si risorse vere.

Progetti e proposte

E per dare il senso della concretezza dei principi sin qui enunciati vorrei illustrare due esempi di proposte costruite nelle due direzioni guida che abbiamo indicato.
Finanziare per esempio con un prestito obbligazionario da quotare in borsa un’opera sociale (case di riposo, strutture sociosanitarie, asili ecc.) che abbia garantiti dal mercato o dal servizio pubblico ricavi tali da assicurare l’equilibrio economico-finanziario dell’istituzione promotrice, ancorché non profit, non ci sembra francamente impresa bizzarra o impossibile. Eppure quante difficoltà da parte delle istituzioni finanziarie!! Abbiamo studiato e strutturato una operazione con esperti del più alto livello tecnico-finanziario, verificando la perfetta fattibilità già nell’ambito della normativa vigente. Così come abbiamo verificato la versatilità di questa ipotesi nella possibilità di incentivare l’investimento con warrants di diversa natura. Un progetto, il nostro, che è all’esame di importanti istituzioni finanziarie, che sembra facciano una gran fatica a cogliere il valore morale e sociale, ma anche le opportunità, di questa prospettiva destinata a dare un piccolo contributo ad un cambiamento di grande valore ed a nobilitare il ruolo sociale nel business di un mercato prima o poi sicuramente emergente.
Sul secondo fronte abbiamo proposto al Ministro dell’Economia un emendamento ai decreti fiscali, introducendo una defiscalizzazione a quei prodotti finanziari destinati al finanziamento dei progetti di significativo valore sociale ad opera di organizzazioni no profit. Un incentivo questo allo sviluppo della sussidiarietà, ad un orientamento del risparmio verso una destinazione che combina remunerazione e valore etico dell’investimento, ad una evoluzione del sistema economico finanziario verso una prospettiva di grande suggestione.

Un mondo migliore è davvero possibile

Penso proprio che dobbiamo crederci e crederci fermamente che un mondo migliore è possibile, come proclama uno degli slogan più azzeccati ed efficaci del movimento new global. Esso contiene insieme l’insoddisfazione per il mondo così com’è e, nello stesso tempo, la speranza, o più ancora la certezza, che esso può davvero essere migliore.
Ma insieme a questa convinzione, cresce sempre di più anche la coscienza che lo snodo cruciale per la realizzazione di questa speranza, è rappresentato dal cambiamento del modello di sviluppo economico/sociale dominante, che oggi ha il nome di globalizzazione neocapitalista e che oltre a costituire un modello economico è, praticamente e sostanzialmente, anche la vera e propria nuova identità della politica globalizzata.
Cambiare quindi le regole e le prassi della economia, costringendo la stessa politica a fare il suo dovere per ricondurla alla dimensione dei bisogni dell’uomo del quale, fino ad oggi, in molta parte del mondo per essa (e cioè per l’arricchimento dei ricchi) si sono sacrificati diritti, dignità e speranze, è la via maestra obbligata di questo cambiamento.
La “battaglia” dei contadini a Cancun non è stata altro che una richiesta di corrette regole del gioco nella gestione della stessa economia globale di mercato, smascherando i bari dei grandi gruppi di potere politico (Usa/Europa) ed economico (multinazionali) che hanno la pretesa di dettare e praticare regole pro domo loro ma, soprattutto, regole in danno dei paesi e delle economie più povere del mondo.
È quindi l’economia la frontiera degli scontri globali del futuro che ci attende: le guerre commerciali fra i paesi ricchi, le guerre contro la spoliazione delle economie dei paesi poveri: una storia non nuova, ma sempre più insopportabile.
È per questo che siamo convinti che introdurre nel mercato finanziario capitalistico, a cominciare dal nostro, il germe di una economia diversa (diversa per natura, finalità, regole, eticità) in un processo destinato ad espandersi, può rappresentare un piccolo contributo ad una grande prospettiva.

Benito Boschetto
economista, già presidente
della Borsa Valori di Milano