“Caino, dov’è tuo fratello…” L’etica della responsabilità

di Stoppiglia Giuseppe

“Essere a immagine di Dio,
non è essere l’icona di Dio,
ma trovarsi nella sua traccia…
è andare verso gli Altri
che si tengono nella Traccia” (E. Lévinas)

Vorrei che parlasse il silenzio e non la mia penna.
Sono tanti, troppi, gli avvenimenti, le immagini e le voci che si rincorrono in questa mia e nostra storia.
Lo stupore sta per essere sostituito dal timore, perciò l’esigenza di silenzio si è fatta impellente. Il silenzio decomprime gli spazi interiori, permette loro di dilatarsi, di esprimere ciò che contengono, di abbracciare il mondo. Solo nel silenzio si può comprendere. Uno spirito sempre invaso dai rumori è un terreno calpestato, isterilito. Il silenzio è la condizione dell’ascolto degli echi interiori, del pensiero, della coscienza, della memoria, della poesia.
È diventato luogo comune parlare delle macerie della nostra vita politica. Vorremmo portare altrove lo sguardo dalle atrocità della Bosnia, ma è difficile. Giungono dal Ruanda e dal Sud Africa immagini di una carneficina agghiacciante che si consuma da tempo. Questo ferisce profondamente, perché quando i momenti diventano duri sono sempre i più deboli a soffrire e perire.
Sembra il tempo dell’impotenza: invece è proprio questo il tempo della dolorosa pazienza a ricercare il valore essenziale della giustizia.
È proprio nel silenzio attento che cominciano a parlarci veramente le voci degli altri. L’inquinamento acustico non è solo un problema di stress, di salute e serenità compromesse: è un inquinamento interiore, spirituale. Se il nostro baricentro è dentro, si sente il bisogno di silenzio, che è libertà dall’assedio e dal peso dell’esterno. Se il nostro baricentro è fuori, il silenzio fa paura perché sembra vuoto e morte.
Custodisco nel cuore le immagini raccolte e i sentimenti vissuti negli ultimi miei incontri in Ecuador, Bolivia e Brasile.
È nel silenzio che parlano le cose silenziose, che i rumori si annullano. Parlano le persone silenziose, che tu magari non hai ascoltato mentre ti mandavano segnali inudibili nel chiasso e nella chiacchiera.
Ritorna lo stupore degli altipiani andini e delle foreste, lo sgomento dei paesaggi di città immense, la sofferenza dei bambini e della gente che vive sperduta nelle gole delle montagne o nei piani disseccati. Gli stinchi, fatti di bronzo dal vento delle montagne, dalla mancanza di vitamine, dal continuo seguire le mandrie errabonde. Ecco, senti allora che parla il Silenzioso, che ha da dire le cose più rare e preziose. Solo il silenzio conserva ciò che vale e apre lo spiraglio verso ciò che le parole non hanno saputo dire.

Il silenzio negli occhi

Rimangono nella mia mente e nei miei occhi i volti di tante persone (preti, minatori, donne, giovani, campesinos, suore), scolpiti nella dignità e incorniciati dalla bellezza semplice delle cose vive.
E intanto mi trovo spesso con gli amici ad analizzare i risultati delle elezioni politiche italiane del 27 marzo u.s. Sgomento, incredulità? Certamente no! Sentivamo da tempo e da lontano il rumore del temporale che arrivava. Un egoismo cieco e storicamente stolto ha nutrito e nutre le menti di tanti italiani, guidati come sono da leaders superficiali e rozzi. Non c’era via di scampo. Mi sono ricordato di quanto diceva Abramo Lincoln: “Potete ingannare tutti qualche volta e qualcuno sempre, ma non potete ingannare tutti sempre”. Ho fiducia che prima o poi il buonsenso comune sarà capace di difendersi dai cacciatori di potere.
È proprio questo il tempo di lottare, facendo appello alle riserve di energia, alle ragioni più vere ed alla più lucida ragione. Ciascuno cerchi quel nucleo di luce che abita nel profondo o quel sogno che non ha del tutto dimenticato.
Di nuovo propongo il ritorno al silenzio.
Anche l’intelligenza richiede silenzio: “intus-legere”, leggere dentro, significa entrare nel profondo delle cose, ma anche lasciar entrare le cose, gli altri, nel proprio profondo e lì cominciare a leggerle, a contemplarle.
Le due profondità si richiamano l’una con l’altra. Se lo spazio interno non è ampliato, non può accogliere; se non è vuoto, di un vuoto aperto e teso, non può ricevere. Capire è accogliere in sé.
Quali sono i contenuti che la realtà attuale impone alla politica? Sorpassare il mito dello sviluppo quantitativo rovinoso, che non potrà neppure essere gustato a lungo da noi, attuali cortigiani di Sua Maestà Berlusconi.
Uguaglianza planetaria, diritto umano universale, soluzione non violenta delle controversie, fine del saccheggio della terra.
Votando, abbiamo fatto la meno peggio delle cose possibili. Ma ciò che conta davvero è vivere, lavorare, pensare, far politica, aiutarci a veder chiaro e lontano. Non basta cambiare in qualche modo (c’è pure a disposizione il peggio). Non basta neppure aver eletto onesti che non sanno vedere i problemi reali. Se non vuole uguaglianza e pace, la politica non è nuova.
A me pare chiarissimo che questo è il tempo di comunicare tra umani, perché il rischio è proprio l’eclisse di quanto è umano in noi, l’appiattimento di ogni soggettività e della dimensione comunitaria del nostro vivere.

Dalla violenza alla politica

Come “filo rosso” che unisce quest’anno nella riflessione delle nostre “feste”, disseminate in tutta Italia (brasiliane, sudamericane, africane, ecumeniche…) abbiamo scelto proprio l’etica della responsabilità. Anche la democrazia, più che un metodo di organizzazione dello Stato, è il tentativo di introdurre la non violenza per risolvere i conflitti e di prendere a carico la condizione dei più deboli. Implicando la dimensione etica, la democrazia è perciò forte quando i suoi membri accolgono e praticano i valori che ne sono l’anima, ma anche per questo debole perché la loro assimilazione non può essere imposta, ma proviene dalla libera adesione, dalla riuscita di una educazione, di un costume, di una civiltà.
La democrazia è anche fragile, perché fondata sulla libertà del popolo, una libertà chiamata ad un senso di responsabilità, capace di riconoscere il primato del “bene comune” proprio in un tempo di individualismi e corporativismi. Fragile perché esige il senso della tolleranza e del rispetto delle altre opinioni e pertanto richiede che nessuno si ritenga in possesso della verità. La democrazia non è mai un dato, ma una conquista continua sulle forze regressive che sono nella società come nel cuore umano. È un processo, la cui unica o comunque essenziale garanzia è la maturità dei cittadini, la loro coscienza.
Quanto più cresce l’interdipendenza e la comunicazione tra i popoli, tanto più diventa necessario sviluppare lo scambio culturale e il confronto tra le tradizioni etniche e le fedi religiose. Il che non è impresa da poco.
È più facile, infatti, sapersi e volersi mantenere diversi che sapersi vicini, interrogarsi e confrontarsi, aprirsi a prospettive nuove. È più facile separarsi che integrarsi, se integrarsi vuol dire convivere in parità di diritti, mettersi davvero a confronto per costruire forme di convivenza sociale, nate dall’incontro e non dalla giustapposizione. Convivere non è tollerare le diversità, ma è lavorare assieme ad un progetto che valorizzi e integri le differenze, rendendole reciprocamente costruttive ed arricchenti.
Macondo punta su questo, confortati dagli orientamenti tracciati da E. Lévinas. L’uomo non trova la propria identità nell’affermazione di sé, l’uomo “si scopre” come “Io”, solo allorché una Parola originaria (infinita) gli è rivolta all’imperativo: “Tu amerai il tuo prossimo”, è questo il tuo “te stesso”.
Parola la cui traccia è leggibile già quando l’uomo ha il coraggio di “fissare lo sguardo dell’altro”, perché nel volto (nella nudità dello sguardo) dell’altro si esprime una richiesta di aiuto cui si può rispondere solo eticamente con un “Eccomi”.
Narra la Bibbia che il giovane Davide, mentre si preparava all’impari duello con un avversario da tutti ritenuto invincibile, “si scelse cinque ciottoli lisci del torrente e li pose nel suo sacco che serviva da bisaccia”. L’immagine vuol significare l’accuratezza con la quale ci si deve attrezzare per vivere e lottare in tempi esigenti, nei quali la speranza è difficile e tutto sembra proclamare l’inutilità degli sforzi tesi a rendere la storia più umana.
Sproporzione di forze, eppure…
Siamo in tempi di resistenza. Arturo Paoli scriveva: “La povertà non è una virtù da conquistare, ma situazione della persona che ha puntato tutto su un ideale”.
Qual è l’ideale che sosterrà, animerà, renderà gioioso il nostro cammino?
Mi affido alla risposta di R. Pannikar: “L’etica contemporanea deve confrontarsi con un “novum”, e questo “novum” è il fatto che non c’era mai stata tanta gente che muore di fame, di sete, di stenti, di violenza e che attende una redenzione concreta”.

Maggio 1994