La rivolta degli indios di Chiapas

di Crosta Mario

Il modo con cui la stampa e i mass media in genere hanno affrontato la questione della rivolta degli indios di Chiapas (Messico), è sintomatico di un certo modo (purtroppo oggi imperante) di fare informazione: usa e getta; l’incapacità di andare oltre la mera cronaca.
Voglio provare a leggere un po’ più in profondità (anche se in estrema sintesi) quanto è successo.
Lo stato di Chiapas rappresenta il “sud del sud” del mondo.
La sua popolazione è rappresentata per il 60% da indios, ritenuti eredi dei maya. Nel Chiapas la percentuale di popolazione che parla lingue indigene è del 26,4% contro il 7,5% del Messico.
La percentuale di alfabetizzati sopra i 14 anni nel Messico è pari all’87,4%, nel Chiapas è del 69,9%. Le case con acqua corrente sono il 79,4% nel Messico, il 58,4% nel Chiapas. La spesa federale pro-capite nel 1993 (espressa in dollari) è stata pari a 180 nel Messico, 84 nel Chiapas.
Sono alcuni dati che ci forniscono una qualche indicazione della situazione esistente.
All’inizio dell’anno parte della popolazione del Chiapas ha imbracciato le armi e ha dato atto ad alcuni episodi di rivolta, di insurrezione conquistando alcuni paesi. La situazione è tornata a “normalizzarsi” con l’intervento dell’esercito regolare, nel giro di qualche giorno. Gli insorti si richiamavano a Emiliano Zapata e rivendicavano la riforma agraria, comunque in un contesto complessivo di maggiore giustizia sociale.
Questo avviene a pochi mesi dalla celebrazione del 500° anniversario della “scoperta” dell’America e a pochissima distanza dalla sigla del Trattato NAFTA (accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico). Sostenere che la rivolta degli indios sia l’immediata conseguenza della firma da parte del presidente messicano Carlos Salinas del NAFTA, non ritengo sia del tutto corretta, in quanto la “questione indios” nasce secoli fa. Mi sembra comunque che le radici della rivolta abbiano trovato terreno fertile nelle politiche economico/sociali che hanno (tra l’altro) favorito la firma del NAFTA stesso.

È una storia triste e che purtroppo si ripete. Le ricette economiche di stampo liberista vengono fatte passare per il toccasana di tutti i mali dei paesi in via di sviluppo. Ma nessuno si preoccupa della pace sociale, dei pericolosissimi squilibri sociali a cui queste conducono. È significativo il titolo riportato in questi giorni su un quotidiano: “Crescono export e povertà nel mondo latinoamericano”.
Le politiche economiche di Carlos Salinas hanno in qualche modo risanato l’economia messicana (taglio drastico dell’inflazione, contenimento del debito estero e del deficit pubblico), ma a quale prezzo? L’economia nazionale è stata pressoché completamente messa in mano alle multinazionali e le ricadute nella società civile sono quelle evidenziate.

Che cosa può insegnarci questo?

Il risanamento economico non è certo cosa deprecabile. Anzi. È senz’altro elemento importante per la crescita democratica di una società. Ma non può essere lasciato e conseguito fine a se stesso. Se esso non viene conseguito secondo una logica di democratizzazione economico-politica i risultati non possono che tradursi nella rivolta sociale.
Le politiche sino ad ora attuate hanno estremamente allargato la forbice tra ricchezza e povertà. Chi stava bene ora sta molto bene; chi stava male sta invece ora molto male. E, guarda caso, ciò si sta verificando tanto nelle economie occidentali che nei paesi in via di sviluppo.
A quando la realizzazione di politiche economiche che oltre al raggiungimento di determinate performance per alcuni aggregati economici (inflazione, deficit pubblico, tassi di cambio…) siano orientate alla redistribuzione del reddito e all’ottenimento di una maggiore giustizia sociale?