L’utopia è la risposta ad un mondo in agonia

di Stoppiglia Giuseppe

“Vidi un solitario in una landa arida;
non era né eretico, né ortodosso;
non aveva ricchezze, né religioni né dio,
né legge, né certezze.
Chi avrà questo coraggio in questo tempo di fine?”.
[(Omar Khayyam)
“In ogni epoca bisogna cercare di strappare
la tradizione al conformismo
che è in procinto di sopraffarla”.
(W. Benjamin)

Dammi le tue paure
Una favola dice che un giorno un vecchio monaco va a fare una lunga passeggiata per un sentiero e trova una trave su cui è indicato “casa della felicità”. Guardando un po’ curioso ed un po’ sospettoso, vede una casetta là in fondo; ma non ci va, torna indietro e finge dentro di sé di non aver bisogno di questo. Il giorno dopo rifà la stessa strada, e quando arriva all’indicazione, la guarda con insistenza, ma non la segue. All’improvviso, vede seduto al crocicchio tra la stradina e il sentiero, un mendicante. Sorpreso, si fruga nelle tasche per cercare se ha qualcosa da donargli, ma quello gli dice: “Non ti preoccupare, tieni pure quello che hai; siediti un momento con me; da te ho bisogno solo di una cosa: dammi le tue paure”.

Gambe lunghe e walkman
Capelli neri tagliati corti, walkman e cuffia sulle orecchie, stava seduto nel posto d’angolo vicino al corridoio, isolandosi con una certa aria scontrosa dal resto del mondo, ossia dello scompartimento. Il viaggiatore di fronte a lui lo scosse, irritato ed intrigato dalla sacca che il ragazzo aveva deposto a terra anziché sul portabagagli. Lui accolse il rimprovero, più aspro del necessario senza battere ciglio e srotolando le lunghe gambe che trovavano spazio a fatica attraverso la porta, ristrette tra i due sedili, sistemo l’ingombro sulla reticella e sprofondò nuovamente nell’ascolto delle sue musiche e dei suoi pensieri.

Parole dagli anfratti dell’anima
A Verona il vagone si svuotò completamente e restammo soli. Allora il ragazzo cominciò subito a parlare, liberando il suo chiuso bisogno di confidenza. ” Lei abita a Vicenza? – mi chiese. – Io faccio il militare a Belluno, ho finito il CAR; non è tanto dura, ma è così stupido fare la guardia ore ed ore e poi tutto l’insieme. A Milano ho la ragazza e la famiglia. Sono diplomato in ragioneria. Trovare un lavoro stabile? Mah!!, vedremo. Per ora mi piacerebbe girare un po’, vedere altri posti, incontrare altre persone, scoprire altre culture… viviamo in un mondo nel quale impera sempre più il non senso dell’esistenza e l’incapacità di progettare il futuro. “È impedita l’esperienza del perdersi (che tiene viva la fondamentale dialettica di integrazione – in un territorio, in una cultura, in uno stile di vita condiviso – e di differenziazione individuale) e si trasforma viceversa, in una sorta di deriva apatica, in un vagare perenne e distratto, che non consente una rigenerazione e non attiva alcun processo di differenziazione, ma solo di omologazione impersonale. Si preferisce rinchiudersi in un “territorio” privato, in una sorta di nicchia circoscritta, sotto controllo e tendenzialmente rassicurante. In tal modo si rinuncia alla fondamentale esperienza del perdersi come momento chiave dello sviluppo cognitivo e della propria storia di formazione. È un mondo in agonia… Ci può essere un futuro vivo con un passato morto?”. Parlava sommessamente, con visibile sofferenza ed affanno, raccogliendo le parole dagli anfratti dell’anima.

Raccontare, ascoltare, raccontare
Eravamo arrivati a Vicenza e ci separammo. Mi faceva tanta tenerezza… Al mondo vorrei dire il tuo coraggio, bruno soldatino di Belluno. Ascoltare e raccontare sono entrambi un’arte, ed ogni arte chiede esercizio… L’arte di conservare muore d’inedia. Noi anziani, ancora, sappiamo le storie dei nostri padri, ma che cosa sanno i giovani della nostra? a pensare quanto poco conoscono i figli della vita dei genitori, c’è da restare spaventati… A che cosa mai serve la nostra vita oltre il lavoro e la procreazione, se non può insegnare niente agli altri? quanto abbiamo tutti sofferto, e quanto dovremo sapere l’uno dell’altro! Ma che cosa ci si dice scambievolmente, ormai? Il nome. – Molto piacere… – Piacere mio…

Il rischio di esistere e la paura
Quanto diceva il soldatino di Belluno mi ricorda la fragilità psicologica dei giovani oggi e quindi la loro difficoltà ad assumere le frustrazioni che si accompagnano alla vita. Evidentemente la fragilità varia da soggetto a soggetto e non si può generalizzare al punto di parlare di giovani alla carta velina: una lieve unghiata della vita ed è la lacerazione ed il crollo. Tuttavia può condurre e sperimentare la vita come un peso tanto insopportabile, fonte di infelicità da indurre a ricorrere alla droga o addirittura al suicidio. Ogni storia è naturalmente personale, alla base ci sono certamente sofferenze esistenziali profonde, di chi non riesce a radicarsi nella vita, che sente la realtà intollerabile, che non ce la fa ad assumersi la responsabilità di diventare adulto ed assumersi il rischio di esistere. Il giovane è acerbo, l’anziano è compiuto, realizzato per quel che ha potuto. Ma questo non è ammesso nell’attuale società di consumo, che consuma anche l’uomo. Essa ci fa vivere meno del tempo che ci viene dato, ci fa sopravvivere come morti. Il “bellismo”, il giovanilismo vedono la vita come decadenza, una perdita fatale. Unico rimedio la chirurgia plastica, la menzogna, l’autoinganno. È un disastro antropologico di cui difficilmente cogliamo la misura. Personalmente vivo la condizione del pubblicano che “non osava neppure alzare gli occhi al cielo” (Lc. 18,13). Quando l’occhio non riesce a trovare nulla cui appigliarsi, allora si prova il capogiro e bisogna chiudere gli occhi. È l’esperienza dello spaesamento, di chi non sa dove cercare il vero e insieme sa di non poterlo possedere pienamente. È l’esperienza del sentirsi nudi, ma anche del provare ad allontanare ciò che spinge a rivestirsi: l’ansia e la vergogna.

Transizione accelerata e sospensione ideologica
“Siamo all’inizio di una nuova era, caratterizzata da una grande insicurezza, da una crisi permanente e dall’assenza di ogni tipo di “status quo” (Michael Sturmer). Gli scenari di significato, le ideologie, i punti di riferimento culturali, politici e religiosi nei quali credevamo e che avevano svolto una potente azione di orientamento nei decenni precedenti, sembrano svaporare. Viviamo un’esperienza contrassegnata smarrimento e da un senso di perdita. Come afferma Aldo Bonomi stiamo vivendo un periodo di transizione accelerata, caratterizzato da un sentimento di sospensione tra ciò che non è più e ciò che non è ancora, tra il rimpianto del passato e la paura del nuovo. In questa sospensione vengono messe a dura prova, nel mondo laico come in quello religioso le chiavi di lettura utilizzate fino ad oggi per interpretare il mondo. Ritengo che la domanda epocale di oggi sia diversa da quella del dopo Auschwitz. Mentre allora si poteva avere la speranza che raggiunto il punto più basso della storia umana si potesse cominciare a risalire la china, oggi purtroppo ci stiamo convincendo che esso sarà la “costante” che ci accompagnerà e con cui dovremmo rassegnarci a convivere. Arriviamo alla fine del secondo millennio con estinzione dall’orizzonte della storia di ogni credibile ipotesi di un mondo libero, fraterno ed uguale. L’unica strada realisticamente lasciata aperta, per non soccombere psichicamente, sembra essere quella di rassegnarsi di fronte all’evidenza del dato e ritirarsi a coltivare “private virtù” (singole, familiari o di gruppo).

Non bastano le virtù private
Vivo il tempo (l’età) in cui uno si sente chiamato a misurarsi sull’ultimum (perché non venga all’improvviso). Penso ci sia un ultimum (giudizio, pigiatura) anche del credere. Di fronte ad esso tutte le cose penultime diventano in qualche modo “relative” (ho creduto, ho fatto miracoli, ti ho adorato… anche queste cose vengono dopo). In questo ultimum i giudicanti non sono più le regole, le norme, i comandamenti, i confessori, le gerarchie, ma solo coloro che avevano fame e a cui hai dato da mangiare, che avevano sete e hai dato da bere, che erano nudi, perseguitati, affamati di giustizia. L’ultimum non è quindi il dopo della vita, ma il suo punto di arrivo cosciente e responsabile, che relativizza tutto riconducendo le cose al loro nocciolo duro non mistificabile. Come se sentissi il bisogno di non chiedermi più nient’altro che questo: se quello che faccio risponde o no alla domanda del tribunale della storia di oggi; vivo come se sentissi il bisogno di non chiedermi più nient’altro che questo: se quello che faccio risponde o no alla domanda del tribunale della storia di oggi.

Tra il grido dell’oppresso e la voce del mercato
Ma chi vive in condizione privilegiata, soprattutto ora che ha trionfato il pensiero unico del mercato, come potrà considerare divino l’ascoltare il grido stonato dell’oppresso e lo sporcarsi le mani per la giustizia? E poi certe cose le si vedono solo stando “dentro”. Ci sei andato in favela? Hai camminato e dormito sotto i ponti coi meninos de rua? Più che vederle con gli occhi, certe cose le senti con la pancia, con la contrazione nervosa dei muscoli, col respiro affannato, con la rabbia in corpo… Lì si percepisce che non si parla bene di Dio (come gli amici di Giobbe), se non ci si ribella all’ingiustizia subita. Lì diventa insopportabile il linguaggio mistificatorio che si appella a quell'”al di là inventato per meglio calunniare l’al di qua” (F.Nietzsche).

La denuncia del profeta nasce dalla sofferenza
“Questa è una società che deve scomparire” – diceva con forza Turoldo, in quanto la vedeva intaccata dal germe della morte. Forse si può dire di più: bisogna lavorare per vederla scomparire. Di fronte alla cultura del denaro e del successo, del consumismo e dell’arrivismo nasce anzitutto l’obbligo della denuncia. È il compito del profeta. Se pratichi il volontariato e l’assistenza verso i più bisognosi, puoi trovare ancora qualche segno di approvazione da parte del mondo ufficiale. Ma se denunci quel tipo di cultura che aggrava sempre più la disuguaglianza fra affermati e falliti, tra quelli che ce la fanno e quelli che non ce la fanno, tra gli insostituibili e i relegati fra gli “esuberi”, allora non puoi aspettarti che isolamento ed indifferenza. La denuncia, per essere autentica, deve tuttavia nascere da una profonda sofferenza. Che non è l’atteggiamento desolato di chi si lamenta perché a suo giudizio il mondo va sempre peggio, ma è passione e impazienza in vista di un mutamento che deve cominciare da se stessi. La condizione del profeta è quella di abitare la contraddizione. A Geremia Dio dice: “E tu vai cercando grandi cose per te? Non le cercare… io ti darò come bottino unicamente la tua vita, ovunque tu vada” (c. 45). Come dire che nulla è garantito, se non la nuda vita, della quale anche i capelli sono contati. Può perfino succedere come a Giona che, reduce da un viaggio di cui non capiva il senso e con una profezia sentita estranea – la profezia oltre chi la pronuncia – si aggrappa ad una pianta di ricino da cui riceve sollievo nel deserto. Ma nel deserto si secca anche quella. Di fronte alla morte invocata si chiarisce quel paradossale cammino, forse non ancora ultimato, con le parole della misteriosa Guida.

L’uomo in cammino verso il luogo che ancora non c’è
I profeti, i testimoni, ci indicano il luogo dove volgere lo sguardo per vedere la luce dell’utopia. Credono nella possibilità dell’uomo di mutare, di divenire migliori. È l’atteggiamento dell'”homo viator” che considera il vivere come un cammino verso una meta e quindi muove i suoi passi nella direzione di questo orizzonte che abita innanzitutto in lui. È proprio perché spera di avvicinarsi a quell’orizzonte lontano che si mette in viaggio. Poiché spera, mobilita fantasia, razionalità, socialità. Poiché spera, si protende in avanti. Malgrado la nostra società appaia senza sogni e senza passioni, nonostante che “sulla polvere dei profeti passeggino i ragionieri”, siamo portatori del sogno di una cosa: il sogno che si possa costruire, sulle ceneri delle ideologie fallite, un mondo più umano, più giusto, più libero. Cerchiamo di essere tutti portatori dell’utopia, non un’utopia astratta, non un’illusione, ma un’utopia concreta, che ha sede nelle possibilità non ancora espresse dell’essere umano. Non una fuga nell’irreale e nell’irrealizzabile, né un mero esercizio della mente, ma un pensiero in anticipo sui tempi, che cerca un luogo, un topos, dove mettere salde radici. Questo è quanto oggi riesco a balbettare sull’utopia.

La vita si vive con amore
So che i giorni della vita offrono un’intelligenza precaria ed intermittente. Per usare una metafora proposta da F. Rosenzveig, essi sono come un riflettore che fa emergere per un tratto dall’oscurità una parte di campagna, poi ancora un’altra, e poi viene schermato. Nessuna conclusione, dunque. La fede non serve per ottenere qualcosa, come se fosse una moneta per comprare la vita eterna. La vita né si compra, né si tira a sorte. La vita si vive. E la vita di fede è gioiosa e gradevole… Non è per senso di dovere che si devono fare le cose, ma per il piacere, cioè con amore. Cerco Dio come un pescatore di perle. Non amo i sistemi e quindi mi attengo agli inizi, agli indizi, alle intuizioni non ancora estinte nell’argomentazione, alle mappe incompiute dove gli spazi bianchi dominanti dicono quanto di incompreso resta ancora da capire nella vita. Mi lascio aiutare da testimoni perché da solo sono incapace di camminare; e vado alla ricerca dei poeti perché “essi dicono il taciuto” (M. Heidegger). E quando, nei confronti di un Dio così percepito, provo a dire: “Io credo”, in realtà voglio dire “che io possa credere”.
Pove del Grappa, Pasqua 1997

Liberi, uguali,diversi…
“L’utopia è la risposta all’appello di un mondo in agonia: annuncia un altro mondo, possibile casa per tutti, spazio aperto di incontro dei popoli liberi, uguali nei diritti, diversi nei volti, diversi per le voci.
Più che utopia bisognerebbe chiamarla speranza, perché generata insieme dalla esperienza e dalla immaginazione.
… La storia può e deve essere fatta dal di dentro e dal basso, e non dall’esterno e dall’alto.
… Anch’io credo in tanta allegria: credo che Lelio, Ruth, Marianella vivranno finché nel mondo vivranno la volontà di giustizia e la volontà di bellezza; finché la dignità umana, assassinata migliaia di volte, continuerà ad essere miracolosamente capace di alzarsi e di camminare”.
[Eduardo Galeano]