Il salotto buono delle città

di Heimat

Ode alla panchina fossile

Il rivestimento esterno di marmo della facciata (mai completata) della chiesa di San Petronio a Bologna contemplava una sporgenza appena sopra il ginocchio dei fedeli. Una panchina a correre lungo tutto il lato corto della basilica posta a ristoro tra una visita alle sacre volte e una pausa di contemplazione rivolta alla piazza. Studenti, turisti, vecchi, immigrati. Flaneur provinciali, residenti, osservatori perditempo. Tutti a sfidare la buona creanza degli stormi di colombi locali per sedersi sulla panchina a cielo aperto della città. Accomodarsi a ridosso della chiesa era un po’ come avere un bel posto da cui guardare la gente passare. Senza pretese né massimi sistemi. Un comodo cornicione – freddo o meno a seconda della stagione – su cui consumare un bonus di tempo libero da 10 minuti, o più. E parlare di affari umani, o prendere il sole, o mangiare un panino.

Sul letterario ponte sulla Drina, Ivo Andric aveva posto due panchine di pietra che si guardavano, una per ciascun lato del ponte, a «salotto della città»: centro gravitazionale della storia degli uomini di quella lontana landa di Bosnia, incrocio di imperi, avamposto della porta d’Oriente in Europa. Staffetta di guerre, di idee, di cambiamenti. Andric aveva messo un ponte al centro di quella civiltà maestra di coesistenza tra elementi diversi. E al centro del ponte due panchine, simboli a loro volta del gesto per eccellenza della convivenza: la conversazione. O anche solo un bel posto dove sedersi e guardare il fiume scorrere sotto il cielo immenso. E rendersi conto della propria effimera piccolezza: antidoto formidabile a ogni ideologia.

La panchina di San Petronio era sempre affollata. Tra i marmi bianchi e rosa si rifugiavano anche nigeriani con grandi sporte di plastica, punkabbestia accompagnati da cani con il pedigree, forse qualche tossico solo in cerca di un puntello su cui appoggiarsi. Nel 2002, nel pieno della lotta al terrore post 11 settembre, un gruppo legato ad Al Qaeda fu intercettato mentre tentava di colpire il Maometto all’inferno dipinto da Giovanni da Modena nel XV secolo proprio all’interno di San Petronio: un simbolo giudicato offensivo. L’attacco fu sventato. Ma da allora una transenna fece la sua comparsa intorno al perimetro dell’edificio, chiudendo l’accesso non tanto al tempio, quanto alla sua panchina secolare. Nel 2006 un nuovo allarme portò ad allargare la zona di sicurezza: anche la scalinata che scende verso il Crescentone – la pavimentazione rialzata della piazza a geometrie bianche e rosa ristrutturata da Giorgio Guazzaloca nel 2004 nell’estremo tentativo estetico di respingere gli attacchi del Cofferati di sinistra che si presentava a insediare la sua poltrona di primo cittadino di destra – fu rinchiusa dentro un cordone di protezione. Ancora oggi un energumeno della Digos ha il veto inappellabile sull’entrata dei pellegrini: chi ha uno zaino troppo grande resta fuori. Così l’unico gradino rialzato che rimane a Piazza Maggiore è proprio quello del Crescentone. Ma è come sedersi per terra. Gesto di assoluta poca dignità. E così l’eleganza bolognese ha rinunciato al suo salotto cittadino per ragioni maggiori di sicurezza nazionale. Per fortuna i muriccioli di mattoni rossi sotto le volte di piazza Santo Stefano, dove si raccolgono primaverili accrocchi di giovanotti in giacca di velluto e ragazze con la sciarpa di seta, resistono ancora. Come pure le panchine di piazza San Francesco, rifugio del via vai che va in scena nella vicina via del Pratello.

Le panchine di Gentilini e compagnia

Eppure la guerra alla panchina in questi tempi di estirpazione del degrado cittadino conta molti successi. Quasi fosse tempo di estinzione per un gingillo che da protagonista dell’arredo urbano diventa un fossile. Il primo a farla franca, a memoria, deve essere stato quel già imitato Giancarlo Gentilini, sceriffo di Treviso, che tolse le panchine perché vi si fermava la feccia che deturpava il paesaggio. Immigrati, nullafacenti, accattoni, ambulanti. Chi fa vita sulla strada non ha una proprietà privata in cui rifugiarsi: usa il salotto condiviso della città. Chi ha tempo per sostare a naso all’aria gode della pubblica riprovazione perché l’attività e il lavoro dei giorni riempie i minuti della società della produzione infinita. Togliere le panchine significa togliere anche quell’estremo urbano piacere di guardare il mondo e non fare niente. Stare seduti, pensare, osservare. E basta.

La scalinata di piazza di Spagna, a Roma, ha sofferto degli stessi divieti delle nuove città pulite: niente briciole di prosciutto, niente gelati, niente soste accovacciati sulla visuale della Barcaccia. Si guarda senza toccare. L’estetica del paesaggio perfetto vince sulle esigenze corporee di sollievo, di un momento per rifocillarsi o sorridere alla vista di Roma secolare. Si toglie la fauna umana per permettere ad altra fauna, sempre umana, di fare belle foto.

Anche a Milano nell’epoca della campagna elettorale per vincere l’Expo 2015 erano apparse speciali panchine di design in piazza Duomo. In legno e acciaio, celebravano qualcosa come «Milano città a misura d’uomo». Iniziativa che mi aveva piacevolmente sorpreso. Tra uomini in gessato, giapponesi, venditori di rose, africani, russi, ragazze in tacco 12 e badanti si poteva sempre trovare uno di quegli ubriaconi docili che – come nel caso classico in cui la verità si manifesta per bocca dello scemo del villaggio – punzecchiava il genere umano milanese: «Ma siamo sicuri che tutto questo lavoro faccia la felicità ?». Purtroppo dopo

che la città di Letizia Moratti ha tolto a Smirne la soddisfazione di organizzare l’Expo, le panchine sono sparite. Senza motivo apparente. Non ci sono più. Forse perché ora tocca ai palazzinari veri entrare in campo. Quelli che costruiscono panchine hanno un business troppo limitato e residuale per il grande affare di Expo 2015 che si gioca attorno alla periferia Nord-Ovest di Rho, dove c’è ora la nuova fiera. Peccato, proprio ora che dal Duomo è scomparso l’ultimo drappeggio del pluriannuale restauro e la facciata risplende nella sua luce di pietra chiara. Bisognerà ammirarla restando in piedi.

Via del Paradiso? no!

Una volta stavo gironzolando per Firenze. Avevo del tempo libero che volevo spendere senza guida o cartine della città. Mi infilavo nei vicoli procedendo un po’ a caso. Avevo incrociato via dell’Inferno e via del Purgatorio a poca distanza una dall’altra: la cosa mi incuriosiva e mi stavo chiedendo se via del Paradiso non si trovasse nella stessa zona. Non riuscendo a scovarla avevo chiamato un amico che conosceva la città. A sentire la mia richiesta lui si era fatto una risata. «Hai sbagliato a cercare», mi aveva detto: «il Paradiso non può essere una via, deve essere per forza una piazza dove uno si ferma, magari si accomoda sotto la veranda di un bar, e fa quattro chiacchiere, beve qualcosa. Una piazza dove ci si possa incontrare, ci si possa sedere su una panchina a guardare passare la gente. E stare lì, e non dire niente».

HEIMAT
o forse meglio HEIMWEH

Nota del webmaster: Heimat=Patria; Heimweh=Nostalgia di casa