La cooperazione per lo sviluppo nell’era dei partenariati

di Sergi Nino

Dal volontariato alla professionalità e soggettività politica

Ho lungamente vissuto il mondo delle ONG di cooperazione allo sviluppo e ne ho visto l’evoluzione negli anni. È una storia lunga più di 60 anni: ha prodotto idee, esperienze, analisi, progetti, professionalità, legami con organizzazioni e comunità in molti paesi, scelte e battaglie politiche, rapporti vivi con i molti sud del mondo ma anche presenza attiva nella società italiana, confronti con le istituzioni a livello locale, nazionale, europeo e internazionale.

È stato un cammino segnato da successi e da limiti, da capacità di azione comune e da sterili divisioni, ma sempre espressione di valori quali giustizia, pari dignità, solidarietà, rispetto dei diritti umani, rispetto e valorizzazione delle culture, sostenibilità, dialogo, pace.

Essenziale, in particolare, è stato l’apporto e l’impegno unitario delle Ong per innovare la visione e la normativa italiana delle politiche di sviluppo, nel 2014, che è passata dagli aiuti alla cooperazione e quindi ai partenariati e si è aperta ai tanti soggetti non profit, profit e istituzionali che possono arricchire, con la loro presenza operativa, la cooperazione.

Ma le sfide per le Ong sono oggi tali da richiedere un passo ulteriore, possibilmente unitario, di analisi e di proposta, anche per garantire il necessario peso rappresentativo nella società italiana e di fronte alle istituzioni nazionali e internazionali. Lo richiedono la complessità dei problemi dello sviluppo e delle relazioni internazionali; una globalizzazione generatrice di crescenti squilibri, che non considera la persona, le comunità e i loro bisogni al centro delle scelte politiche e degli ordinamenti economici e finanziari; la tendenza all’esclusione di intere regioni e intere popolazioni; il moltiplicarsi di situazioni di emergenza dovute a crisi politiche spesso strumentali; i fenomeni migratori e di mobilità internazionale che, se non correttamente gestiti, rischiano di provocare conflitti sociali e stravolgimenti politici oltre che sofferenze e morte.

Gli aiuti all’Africa uccidono l’Africa

Dambisa Moyo affermava che gli aiuti all’Africa uccidono l’Africa. Sintetizzata così, è una frase che potrebbe essa stessa uccidere. La Moyo dice semplicemente quanto è sotto gli occhi di tutti. Gli aiuti, senza istituzioni pubbliche capaci, trasparenti e dotate di vere strategie e programmazioni, senza forti motivazioni allo sviluppo collettivo e al bene comune e senza coinvolgimento dell’iniziativa privata nei paesi che li ricevono, sono inefficaci e creano una sterile dipendenza. Come non concordare? Altra cosa sarebbe invece sostenere che gli aiuti sono da evitare: sarebbe come affermare che non servano la lotta alla povertà, alla fame, alla mancanza di acqua potabile, l’impegno ad assicurare istruzione, salute, lavoro, la battaglia contro le iniquità, le discriminazioni e le ingiustizie. Vanno però attuati in un rapporto di pari dignità, con una visione strategica che guarda al futuro. La cooperazione, per uscire dalla povertà, lottare contro intollerabili disuguaglianze e per uno sviluppo condiviso e sostenibile, è la base delle relazioni internazionali ed è anche una via per assicurare un futuro di pace.

Occorre tenere presente che paesi considerati poveri fino a pochi anni fa hanno recentemente vissuto ritmi di crescita annui anche superiori al 5%. Tra questi vi sono Stati africani con metà della popolazione sotto i 30 anni che preme per un futuro migliore. L’aumento del PIL, infatti, non corrisponde a un’equa distribuzione dei benefici ma accresce il divario tra ricchi e poveri. E i giovani non lo sopportano. Nel 2050 saremo complessivamente più di 9,5 miliardi di persone rispetto ai 7,2 di oggi. La maggioranza sarà nata in contesti di povertà, crescendo carica di risentimento e decisa, molto più che nel passato, a ribellarsi al sistema esistente.

Indubbiamente la cooperazione allo sviluppo non potrà essere quella vissuta nei decenni passati. La riforma legislativa del 2014 è un buon passo avanti ma il mondo è in continuo cambiamento. Devono parallelamente cambiare le relazioni internazionali e le istituzioni che le regolano, ripensandone i poteri, i processi di democrazia interna, le stesse finalità. Cooperare deve comportare rapporti alla pari, rispettosi e solidali, finalità condivise, crescita e sviluppo reciproci, basati sullo scambio e sul mutuo interesse. Sostenibilità ambientale, sociale, economica, lotta alle disuguaglianze, inclusione, occupazione dovranno essere i binari su cui indirizzare lo sviluppo, favorendo al tempo stesso la pace. Dovrà continuare a esserci anche la disponibilità al dono, alla gratuità, quando esigenze di giustizia o necessità lo richiedano, quando il dono è esso stesso atto di giustizia.

Accoglierli o aiutarli a casa loro?

È un’alternativa senza senso. Spesso l’aiuto a casa loro è affermato in modo strumentale e xenofobo per cercare facili consensi, lontano dal principio che tutti devono poter avere una vita dignitosa senza dovere essere costretti a emigrare. Il mondo è caratterizzato da estreme e crescenti disuguaglianze che si manifestano tra paesi ricchi e paesi poveri e all’interno di entrambi. L’1% più ricco dell’umanità possiede più ricchezza del restante 99% in condizioni che perpetuano e aggravano tale rivoltante disuguaglianza. Domina un capitalismo ipertrofico, clientelare, chiuso nei propri privilegi, distruttivo, insensibile alle esigenze di giustizia, venditore di falsi bisogni, in contrasto con le esigenze di un’economia umana indirizzata all’interesse collettivo.

Le calamità causate dai cambiamenti climatici, siccità e inondazioni, stanno colpendo circa 350 milioni di persone, costrette spesso all’abbandono definitivo delle proprie terre. Altre 60-70 milioni di persone sono in fuga da guerre, repressioni, persecuzioni, alla ricerca di protezione.

Se l’Europa è in calo demografico, il resto del mondo continua a crescere. La sola popolazione dell’Africa raddoppierà gli attuali 1,2 miliardi di persone, determinando un bacino di circa 700 milioni di persone in età lavorativa tra i 14 e i 65 anni. Paradossalmente, nel caso in cui la cooperazione raggiungesse i propri obiettivi contribuendo a creare sviluppo nei paesi più poveri, è molto probabile una parallela crescita dell’emigrazione, almeno nel breve-medio periodo. L’uscita dall’estrema povertà e l’acquisizione di maggiore benessere economico e culturale favoriscono infatti le condizioni per potere immaginare, desiderare e realizzare l’emigrazione. Ciò evidenzia ancora una volta la complessità del rapporto tra gestione delle migrazioni internazionali e politiche di cooperazione allo sviluppo. Quindi, pensare di poter applicare paradigmi semplicistici o di poter indirizzare la cooperazione allo sviluppo al contenimento dei flussi migratori, oltre a essere inefficace, rischia di sviare l’attenzione che richiede invece approfondite analisi e strategie di sviluppo impegnative, coordinate a livello europeo e internazionale. Occorre decidere, senza ulteriori ritardi, di ripensare la cooperazione internazionale e di metterla al centro delle politiche dei prossimi decenni.

Nino Sergi
presidente emerito di INTERSOS www.nino-sergi.it