Orizzonti e fratture
I venti di guerra non cessano mai. Come nel cuore della Terra si agita un magma infuocato che si fa sentire ed esplode con violenza incontrollabile nei ruggiti vulcanici, così, sulla faccia della Terra, i venti di guerra imperversano alimentati dalla mente inquinata dell’uomo, deciso a salvare i propri interessi piuttosto che promuovere i diritti di tutti. Sono trascorsi 20 anni dalla fine della guerra in Bosnia. Una sensazione diffusa è che quanto è avvenuto allora sia già stato metabolizzato. Il mondo mediatico ha altre cose cui badare… il tempo che passa sembra portare via con sé ogni grido, ogni palpito, ogni sogno e consegnare tutto all’oblio.
Ferite di guerra
Ma non è così. La parola Balcani ha una risonanza storica, profonda, inquietante e prende, in questo caso, la consistenza concreta di una Bosnia vivisezionata dalla guerra. Ancora oggi rimangono ferite causate da un conflitto bellico imposto dall’esterno, scoppiato nel 1992 e finito nel 1995. La situazione attuale è definita come assenza di guerra e assenza di pace. Lo afferma monsignor Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo con limpida amarezza. Aggiunge inoltre che in quel lembo di terra c’è divisione e ostilità degli uni contro gli altri più oggi che dopo la fine della guerra. Risalendo indietro nel tempo, non si può non evidenziare la complessità del tessuto socio-politico-religioso della Bosnia. La convivenza di tre gruppi etnici (croati, serbi e bosniak-bosniacchi) e di quattro confessioni religiose (ortodossi, cattolici, musulmani, ebrei) non risultava facile per una coesione tranquilla. Tuttavia, di fatto, l’integrazione di tali componenti etnico religiose fu resa possibile al punto da godere approvazione e buon nome anche fuori dei confini. Alla fine della guerra, ai 93.837 morti accertati, agli eccidi di massa, alla violenza spietata e brutale praticata sui civili, anziani, donne e bambini compresi, si è aggiunta una pace che ha ghigliottinato le fragili, ma pur buone relazioni esistenti prima della guerra.
La pace di Dayton
Gli accordi di Dayton, imposti dagli USA per mettere fine al conflitto il 21 novembre 1995, hanno avuto conseguenze decisamente negative:
* si tratta di una pace invivibile, perché mira a soddisfare interessi che non hanno niente a che vedere con quelli degli abitanti della Bosnia;
* è una pace che ha dato consistenza a uno Stato artificiale, nel quale alle vecchie ingiustizie e diffidenze se ne sono aggiunte di nuove;
* è una pace che ha spaccato il paese. Al principio dell’integrazione ha sostituito il principio della pulizia etnica, per cui a ogni gruppo etnico va assegnato un proprio territorio con la relativa organizzazione statale. Così croati e musulmani (Bosniacchi) si sono uniti nella confederazione della Boznia-Erzegovina e i serbi hanno costituito la Repubblica Serbo-bosniaca;
* è una pace che, supportata da un falso assunto, ritenuto incontestabile, che, cioè, è impossibile la coesistenza tra i popoli diversi ha reso il paese ingovernabile. Più Stati, più governi, più burocrazie diventano ingredienti ineludibili di una complessità tutt’altro che facile da gestire.
Il sogno e il grido
«È ragionevole – si chiede monsignor Sudar – che quattro milioni di persone debbano essere governate da 115 ministri?»… Che fare? Come guardare al domani? C’è ancora spazio per una profezia incoraggiante? Il futuro, senza volto, si presenta impassibile e impossibile. I suoi lineamenti rimangono informi nel grembo del sogno, urgenti nell’orizzonte del desiderio, seducenti nel cielo della speranza.
Intanto un grido di liberazione continua a risuonare alto, stridente, incessante da un popolo plurietnico come la Bosnia. È piccolo come un bambino. È grande in dignità come ogni popolo della Terra. Ha sete di giustizia: nello scenario internazionale si sente periferico ed emarginato. Ha sete di riconciliazione: necessita di mediazioni interne ed esterne, scevre da secondi fini e da subdoli interessi e miranti a una vera convivialità delle differenze. Ha sete di Europa, famiglia di popoli da cui non vuole sentirsi escluso né, tantomeno, considerato un’appendice superflua. Il sogno, il desiderio, la speranza si accordano sempre per diventare la voce di un diritto che fa di ogni popolo un patrimonio vivo dell’umanità.