La distruzione del capitale naturale nelle città italiane

di Angrilli Alessandro

Un cambiamento radicale
L’umanità dovrà affrontare nel prossimo futuro un’importante sfida: attualmente circa il 55% della popolazione mondiale è concentrata nelle città e nel 2050 si stima che questo valore aumenterà al 68% (ONU-WUP, 2018). L’allargamento delle città avviene inevitabilmente consumando le aree verdi naturali. Sono ben poche le città che gestiscono questo allargamento in maniera armonica, garantendo adeguati spazi verdi in ogni quartiere: questo richiede una pianificazione urbanistica illuminata che è veramente rara anche nei paesi più industrializzati. Nella maggior parte dei paesi l’espansione cittadina avviene caoticamente e alcuni quartieri rimangono particolarmente privi di vegetazione e alberi. Per la Comunità europea, un parco dovrebbe essere al massimo a 300 metri dall’abitazione, di dimensioni minime di 5mila mq, e in ogni città dovrebbero esserci almeno 18 mq di area verde per abitante.
Di fatto, come viene misurato il verde? La modalità varia molto. Per l’ISTAT e l’ISPRA italiani, la quantità di verde viene chiesta ai comuni con un questionario. Sempre per gli stessi organi ministeriali, viene computata come verde anche la superficie di piste ciclabili (che di fatto sono asfalto) e gli impianti e le aree sportive. Il metodo (questionario) e i criteri sono chiaramente sbagliati: la superficie verde oggi può essere oggettivamente e facilmente misurata con foto satellitari. I comuni come aree verdi riportano anche una superficie d’erba di pochi metri quadri che delimita le corsie stradali, sono conteggiate le aiuole verdi delle rotonde e il verde sotto i ponti. E così, in base a criteri soggettivi al rialzo, i comuni italiani possono dichiarare quello che vogliono senza verifiche oggettive. Padova, ad esempio, a seconda degli anni e dei criteri, varia da 23 mq a 40 mq di verde pro capite (dati ISPRA, 2016), mentre nelle mappe europee ha 10,04 mq/abitante1 e a un calcolo del sottoscritto sui dati comunali pubblici in rete (dati del 2018) risultano meno di 6 mq/abitante, se consideriamo il verde di parchi e giardini pubblici anche piccoli, che sarebbe il verde decente che non comprende l’erba spartitraffico.
Comunque, anche all’interno del verde di parchi e giardini c’è un’enorme differenza di qualità effettiva, oltre a quella percepita dal cittadino, tra giardini con erba, sentieri di cemento e qualche alberello e un vero parco alberato naturale. La qualità del verde non viene attualmente considerata e questo è un problema.
Anche il numero e la taglia degli alberi comunali sono un parametro molto importante e variabile. Sulla carta un albero vale un altro: un grosso errore metodologico (ma voluto da quei comuni che vogliono rifare tutte le alberature spendendo molti soldi dei contribuenti) perché dal punto di vista ecologico non si può confrontare un albero maturo di prima grandezza con uno giovane e di quarta grandezza. Il paradigma di green washing dominante nelle città italiane è quello di contare il numero degli alberi di nuovo impianto, nascondendo alla popolazione il numero di alberi abbattuti ogni anno, le loro dimensioni e la biomassa. Così, un patrimonio ecologicamente e storicamente importante di migliaia di alberi maturi (tigli, platani, celtis, ippocastani) di prima e seconda grandezza viene progressivamente e irreversibilmente sostituito con alberelli di terza e quarta grandezza. È una delle tante strategie utilizzate per fuorviare i cittadini distratti o ingenui. A Padova, ad esempio, dai dati comunali risulta che il 45% degli alberi stradali sono ormai sotto i 7-8 metri di altezza, sia perché giovani, sia perché si sono scelti volutamente quelli di terza e quarta grandezza (cercis siliquastrum, parrotia persica, tiglio greenspire, carpinus betulus fastigiata, ecc.). Anche se il bilancio delle alberature a fine legislatura comunale è un obbligo della legge 10/2013, non essendoci sanzioni, questa di fatto viene ampiamente disattesa da quasi tutti i comuni che, nel migliore dei casi, forniscono dati aggregati e non verificabili.
Uno dei metodi psicologici più utilizzati dalle amministrazioni cittadine è l’abbattimento sistematico ma scaglionato, ovvero da un viale alberato ogni 2-3 mesi viene abbattuto un albero (spesso senza perizie scientificamente valide perché la decisione è la sostituzione a priori di tutto il viale), fino a desertificare o sostituire un intero viale in pochi anni: in questo modo il cittadino, convinto che sono esemplari isolati malati, non protesta. Ovviamente non manca l’approccio classico della distruzione programmata e massiccia di uno o molti viali, con centinaia di abbattimenti in nome della riqualificazione urbana (Firenze, Milano, Torino e molte altre città lo hanno fatto), ma in questo caso le proteste dei cittadini sono molto più forti e talora riescono a bloccare l’amministrazione (ad esempio i pini secolari dannunziani della pineta di Pescara).
In Italia, come in Europa e nel resto del mondo, c’è un paradigma dominante sulla forestazione urbana che conta solo sul numero di alberi di nuovo impianto, senza considerazione per grandezza a maturità e specie, come indice qualitativo di una città sostenibile. Questo criterio, che favorisce perversioni distruttive a favore di un’edilizia incontrollata e propaganda politica facile, va radicalmente cambiato. Serve un nuovo paradigma basato, in primis, sulla conservazione in buona salute (senza potature sistematiche) degli alberi esistenti maturi che sono fondamentali per la sostenibilità di una città e, solo quando diventa inevitabile, gli alberi vanno gradualmente sostituiti con specie identiche o ad alta velocità di crescita. I comuni, nei loro resoconti di sostenibilità, dovrebbero quindi fornire dati oggettivi e riscontrabili sugli alberi abbattuti ogni anno, sulla loro biomassa, sulla CO2 immessa in atmosfera per gli abbattimenti e la superficie stimata della copertura arborea dovuta alle chiome (canopy) misurata ogni anno. Questi dati permetterebbero di confrontare le città tra loro ed evidenziare quelle virtuose e quelle molto distruttive e l’evoluzione (o, più spesso, l’involuzione) del verde nel tempo. Solo così si può evitare l’attuale distruzione di massa del patrimonio arboreo della maggior parte delle città italiane, distruzione che in molti casi è ormai completa e irreversibile.
Ma quali sono i motivi per cui le pubbliche amministrazioni abbattono tanto? Tra le molte e complesse cause di questo fenomeno tutto italiano c’è l’ignoranza, la non conoscenza dei metodi scientifici e dell’ambito ecologico-biologico-botanico, il desiderio di assecondare la lobby del cemento e dell’edilizia, la paura (irrazionale) delle cause legali in caso di danni da caduta di un albero (ma per le buche, i pali e altri manufatti del comune perché non hanno paura?). Qui non c’è spazio per approfondire questo tema complesso, ma il tema della prossima sezione contiene parte dei motivi che i pubblici amministratori condividono con i cittadini.

Tanta paura per gli alberi che cadono
La paura per la caduta degli alberi è un fenomeno di chiara irrazionalità legato alla cultura e alla natura dei sistemi cerebrali preposti alle reazioni di difesa. In questa estate tormentata dal maltempo nel nord Italia, i quotidiani si concentrano molto sulla caduta degli alberi. Molti esperti hanno già chiaramente spiegato come in città l’aumento di cadute di alberi è legato a interventi violenti di tutti i tipi dell’uomo sull’albero: potature continue che infettano l’albero, capitozzature, interventi drastici con scavi sulle radici senza controllo. Nonostante gli eventi di caduta siano incrementati da tempeste con venti sopra i 100 km/h, i morti e feriti per tali cadute, pur aumentando, rimangono poco frequenti. La paura è una risposta innata e anche appresa, ha un forte valore adattivo in natura, ma capita, nei disturbi d’ansia e nella comunicazione mediatica moderna, che diventi spesso una risposta appresa irrazionale e disfunzionale: il sapere che la probabilità di morire per un albero che ci cade sulla testa (in base ai dati della British Medical Association) è da 500 a 1000 volte più bassa di quella di morire per un incidente stradale non ci aiuta ad averne meno paura, oppure a non prendere l’auto, né ad attraversare con più cautela le strisce pedonali.
E per un anziano, sapere che la probabilità di morire per lo smog o per un’ondata di calore nel nord Italia è da 10mila a 20mila volte più alta, non aiuta a preoccuparsi di più delle citate cause di morte che degli alberi.
Su questo fenomeno psicologico poco indagato giocano un ruolo importante tre effetti. Il primo è relativo al sistema innato per le emergenze che abbiamo nel cervello. Abbiamo nell’amigdala neuroni molto sensibili all’intensità e alla velocità di cambiamento di uno stimolo (un tuono o un lampo, ad esempio), ci accorgiamo e spaventiamo per la rara e rapida caduta di un albero, non per cambiamenti lenti e più pericolosi per la salute (disidratazione, colpo di calore, difficoltà respiratorie per smog e calore, ecc.).
Un secondo fenomeno psicologico ben studiato riguarda la percezione di un pericolo raro: in genere sovrastimiamo il rischio di un evento raro (caduta di un albero, caduta di un fulmine) e sottostimiamo un evento avverso più frequente (infarto, incidente in bici o come pedone, influenza – anche se dopo il Covid non sottostimiamo più le influenze virali). A questo si aggiunge l’effetto “singleton” sui media. Un evento è tanto più citato sui media quanto più è raro: gli attacchi mortali degli squali, gli incidenti aerei gravi, ad esempio.
Una persona che venisse colpita e uccisa da un meteorite verrebbe riportata su tutti i giornali del mondo. Questa esposizione mediatica del raro aumenta la nostra ansia per un evento rarissimo e la cecità per un evento molto più frequente (come ad esempio venire uccisi mentre attraversiamo le strisce o andiamo in bici).
Il terzo fenomeno è a nostro avviso il più importante e riguarda l’“euristica della familiarità”. Le euristiche sono scorciatoie cognitive che usiamo per fare una scelta senza dover affrontare un’analisi accurata, lunga e faticosa di un problema. Questa euristica viene usata quando andiamo in vacanza sempre nello stesso posto per anni, oppure quando compriamo in supermercato sempre gli stessi prodotti che ci sono familiari, perché non dobbiamo analizzare, con fatica, il rapporto vantaggi-costi di una nuova scelta o di un nuovo prodotto. Per questo motivo, nelle città moderne sempre più immerse nel cemento e sempre più lontane da ambienti naturali (molti parchi cittadini soprattutto di recente concezione dei nostri urbanisti provinciali sono ben lontani dalla naturalità, con piastre di erba e cemento e pochi alberelli di quarta grandezza, area giochi scoperta al sole, panchine non in ombra, ecc.), i grandi alberi diventano sempre più rari e temuti perché grandi e alti, e perché mal gestiti cadono più facilmente. Viceversa, per noi sono molto familiari le tegole, i cartelli stradali, i tetti in metallo di alcune strutture, per cui quando arrivano le tempeste e i tornado ci guardiamo dagli alberi che potrebbero cadere, ma non temiamo tegole volanti, cartelli stradali, grandi pali, tralicci, tetti e coperture di metallo che cadono anche più degli alberi. Ciò che ci è più familiare non lo temiamo, anzi, curiosamente non abbiamo paura dei manufatti umani in generale, ma molto più temiamo gli elementi naturali. Ad esempio in acqua abbiamo più paura degli squali che delle eliche dei piccoli natanti che ci passano veloci a pochi metri e che sono molto più pericolosi e frequenti. In breve, ci fidiamo molto di più, erroneamente, dei manufatti umani che degli elementi naturali che ormai per una persona nata e vissuta in città sono diventati estranei. Gli elementi naturali (piante, alberi, animali come volpi, lupi e orsi) ci fanno molto più paura di quanto sia il rischio reale di rimanere uccisi per loro causa. Ulteriore esempio: sovrastimiamo il rischio di essere attaccati da un raro orso rispetto a quello molto più frequente di essere attaccati (e uccisi) da un cane di grossa taglia, ma nelle città attuali abbiamo poca paura dei grandi cani perché sono diventati elementi frequenti e familiari del paesaggio e della vita cittadina. Questo bias culturale-cognitivo da cui sono molto colpiti anche gli amministratori cittadini, peserà sempre più in un paese provinciale come l’Italia, dove la diffusa ignoranza della popolazione per la scienza si accompagna a una classe dirigente miope, inadeguata e pavida, ma che ci tiene molto a passare per filo-ambientalista praticando un ingenuo e poco credibile green washing, che però ha una facile presa su una popolazione con le caratteristiche descritte.
Nell’immediato futuro, gli ambientalisti dovranno affrontare questi temi che riguardano la gestione ambientale e sostenibile locale, perché questa azione è più realistica e ha effetti anche sul clima globale. L’inverso è molto meno efficace perché, per i singoli o le piccole-medie associazioni ambientaliste, la possibilità e capacità di incidere su politiche e clima negli scenari nazionali e globali sono molto limitate.

1 Maes J. et al., Enhancing Resilience of Urban Ecosystems through Green Infrastructures. Final Report, Publications Office of the European Union, Luxembourg 2019.

Alessandro Angrilli

docente di psicobiologia e psicofarmacologia all’Università di Padova,
presidente del CDAT (Comitato difesa alberi e territorio) di Padova