Noi, nati nel 1963

di Alberto Camata

Non è stato un anno qualunque il 1963.
C’era nell’aria, a livello planetario, un qualcosa di elettrico, in molti stavano vedendo la possibilità di un mondo nuovo e desideravano viverlo. Ma questo cozzava con chi in quel tipo di mondo si trovava bene e lo gestiva sia economicamente che politicamente. La tradizione, il grigiore di una società maschilista, bianca, classista, patriarcale inorridiva davanti a questa voglia di cambiamento e reagiva con violenza, pretendeva ordine, il suo ordine.
Ormai parlano del 1968 come l’anno della trasformazione della società occidentale, noi sappiamo che non è così. Noi chi? Noi che abbiamo deciso di entrare nel mondo nel 1963.
Avevamo visto un mondo inquieto che chiedeva molto di più, desiderava i colori e la libertà.
Erano anni di trasformazione, l’industrializzazione al Nord marciava a pieno regime, aveva stravolto l’Italia lungo tutto lo Stivale. Se da un lato le fabbriche fumavano, inquinavano (e chi se ne frega, è il progresso!), ci producevano tante nuove comodità e nuovi oggetti ci potevano facilitare la vita ed erano a portata di tutti, bastavano le cambiali; dall’altro si viveva uno spopolamento delle campagne e un’intensa migrazione dal Sud, dal Veneto e dal Friuli verso la Lombardia e il Piemonte, i contadini diventavano manovalanza operaia.
Se Pasolini tremava davanti a tutto questo, intravedendo un appiattimento culturale finalizzato al consumo (anche i credi, gli amori, l’istruzione, il tenore di vita tutto sarebbe stato asservito al consumo), a noi, che abbiamo deciso di nascere nel 1963, sembravano preoccupazioni sciocche: era un buon momento per nascere.
L’Africa stava mettendo fine al Colonialismo; negli Stati Uniti, culla di democrazia e di segregazione, due leader neri, molto diversi tra loro, avevano movimentato un popolo per la parità dei diritti umani, in quel 1963 Martin Luther King aveva raccontato un suo sogno, il razzismo vacillava.
Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti. I cardinali nel 1958 elessero papa un vecchio montanaro bergamasco, un fisico da prete di montagna, pasciuto e bonario. Serviva ai cardinali per prendere tempo, studiarsi tra di loro, fare a braccio di ferro per vedere quale linea politica poteva avere il sopravvento nella Chiesa. Dio rise e molto. Quel mite montanaro chissà dove, chissà come, trovò la forza di Sansone e abbatté le colonne delle sicurezze su cui si fondava il potere cardinalizio e pensò di rifondare la Chiesa, riportarla a seguire le orme del Maestro. Quel Concilio si stava svolgendo in quel 1963. Quel papa, prima di andarsene, lasciò un ultimo segno davanti a un mondo che stava inseguendo il riarmo: l’enciclica Pacem in Terris.
Pure il movimento femminista si stava risvegliando negli Stati Uniti; da più parti si manifestava contro il riarmo nucleare, contro la guerra, questa follia senza ritorno. Era il momento opportuno per nascere, pensa che bel mondo avremmo costruito!
Certo non son mancate le brutte, tragiche notizie. L’assassinio di Kennedy che, in qualche modo, rappresentava le speranze del nuovo; il monaco buddista Thích Quảng Ðức che si è dato fuoco contro le politiche oppressive; il disastro causato dall’ingordigia umana che ha portato alla strage del Vajont.
Non siamo degli illusi noi del 1963, sappiamo che il Male cammina assieme al Bene, però il mondo che si prospettava era una bella vertigine da provare.

Così eccoci qua, sessant’anni dopo.
L’abbiamo visto e vissuto il bel mondo nuovo? Diciamo che abbiamo visto e vissuto un mondo nuovo, diverso, non certo quello sperato. Si sono concretizzati i timori di Pasolini, ragioniamo in termini di consumi. Abbiamo diritti non in quanto esseri umani, come predicava Martin Luther King, ma in quanto consumatori. Possiamo fare delle rimostranze allo Stato perché paghiamo le tasse, non perché esistiamo. I cardinali si sono organizzati per strozzare le novità del Concilio Vaticano Secondo e hanno fatto un ottimo lavoro: davvero pensavamo che avrebbero dato agli oppressi l’opportunità di liberarsi? (Ma io sento che Dio ride).
Abbiamo applaudito a tutte le guerre che i sessantottini, tagliati i capelli e indossate le giacche e le cravatte hanno dichiarato ovunque in nome di una loro libertà, che altrimenti l’economia e il Potere non avrebbero retto. Abbiamo visto i diritti dei lavoratori evaporare, abbiamo visto il lavoro uscire dalle agende politiche.
Ma allora che cosa abbiamo fatto in questi anni? Qui ognuno deve rispondere a sé stesso.
Abbiamo mantenuto in noi il senso del politico, della collettività o abbiamo abdicato all’individualismo?
Come singolo abbiamo colto l’opportunità che ci ha offerto la vita? Siamo stati curiosi? Ci siamo migliorati? Abbiamo coltivato delle relazioni? Abbiamo dato spazio all’amore, anche quando ci chiedeva una rinuncia? Abbiamo vissuto il lavoro come ambizione o come servizio? Come abbiamo affrontato il dolore?
Siamo le scelte che abbiamo fatto.
Abbiamo conosciuto il valore dell’amicizia, ne abbiamo assaporato il valore della fedeltà e del tradimento. Magari a tradire siamo stati noi e allora spero si sia capito quanto è grande il dono del perdono.
Abbiamo provato l’emozione di avvicinarci a una persona che, chissà perché, l’abbiamo reputata superiore alle altre; abbiamo sentito il cuore in gola quando abbiamo avvicinato le nostre labbra alle sue… siamo riusciti a farne momenti olistici, dove il corpo e lo spirito hanno convissuto, o sono stati una piacevole ginnastica?
Abbiamo imparato la pazienza, la costanza? Abbiamo imparato a mantenere un sorriso dentro, anche davanti alla morte?
Abbiamo imparato quant’è faticoso costruire un amore? Quante volte ci siamo detti: «Ma chi me lo fa fare?», e poi siamo rimasti lì perché ce lo fa fare l’amore.
Abbiamo vissuto con gli altri il calore della condivisione profonda o è stata sempre e solo una gita fuori porta?
Abbiamo imparato a restare fermi nel presente, abbiamo coltivato la nostra spiritualità o ci siamo accontentati di una sicurezza economica?
Abbiamo imparato ad accettare gli errori, i torti, farne tesoro o li ripensiamo spesso per lacerarci nel senso di colpa o nell’offesa?
Siamo così fieri della nostra sicurezza economica ma vediamo ovunque una minaccia che ce la possa portar via? Temiamo gli estranei e il futuro? Perché se sono queste le nostre paure, è stato inutile avere delle amicizie, innamorarsi, entrare nella vita degli altri e lasciare che altri entrassero nella nostra. È stato inutile vedere invecchiare i nostri genitori, perdere delle persone care, è stato inutile leggere, viaggiare, sognare.

Se in questi sessant’anni siamo riusciti a rimanere fedeli alle speranze del ragazzo che siamo stati (malgrado le delusioni); se ci è piaciuto vivere la stupidità che ti fa vivere l’amore, ben sapendo che sarebbe stato molto più stupido non viverla; se abbiamo considerato prioritario lo Spirito alla Materia e, con tutti gli inciampi e le cadute, vi siamo rimasti fedeli; se abbiamo sofferto per l’ingiustizia che altri hanno pagato per il nostro benessere e abbiamo fatto tutte le scelte che ci erano possibili per lenirla; se abbiamo fatto del cambiamento il nostro passo normale, se prima di chiedere al mondo di cambiare siamo cambiati noi, allora questi sessant’anni non sono stati buttati.
Se questo non c’è stato e un senso di vuoto insiste di esser colmato di cose, è un disagio che va vinto.
È vero, dovevamo a cambiare a vent’anni, quando il mondo lo vedevamo bianco o nero, o era con noi o era contro di noi; lo potevamo cambiare a trenta, quando il lavoro o le relazioni finite male ci avevano insegnato che tra il bianco e il nero esistono tutti gli altri colori; ma pure a quaranta, quando ci prendeva l’affanno dopo una corsa e i capelli brizzolati inducevano gli altri a darci del lei; e, perché no, anche a cinquanta, avevamo dalla nostra esperienza e disillusione, sapevamo leggere il mondo, avevamo imparato a leggere anche le sfumature. Se non l’abbiamo fatto allora, perché mai lo dovremmo fare ora?
Perché possiamo fare tutto. Non esiste ieri, se non ne ricordi; non esiste domani, se non nell’angoscia. Esiste solo ora, questo momento, questo battito di ciglia. Cambiare si può in qualsiasi momento: perché aspettare il momento successivo?
Dobbiamo cambiare, migliorare, amare. Amare è un rischio, ma è il sale della vita.
Ecco che cosa ci aspetta a noi ora, nati nel 1963, trarre il meglio dall’amore che è transitato nella nostra vita e nella Storia e metterlo a servizio di chi incontreremo.
Questo sarà il cambiamento, saper vivere un’autentica e rispettosa relazione con ogni persona che incontreremo, sia pure solo alla fermata del treno; saper vivere una corretta e rispettosa relazione con il Creato che ci è stato dato in custodia; vivere una relazione filiale con lo Spirito. Questa è la Trinità. Per vivere tutto questo il tempo giusto è ora.
In sessant’anni dovremo averlo imparato, queste relazioni si condensano in una sola parola: vita.

Alberto Camata

Curatore del sito www.macondo.it