Genitore del disagio

di Alberto Camata

Il mondo di Franco Basaglia mi ha sempre messo a disagio, lo accettavo solo per i poeti che amavo leggere come Dino Campana, Charles Baudelaire o che mi affascinavano con i racconti come Edgar Allan Poe, Virginia Woolf. Il disturbo mentale fino a che toccava le menti creative, impreziosiva la lettura delle loro parole, arricchiva l’idea romantica dell’artista tormentato, a disagio nel mondo. Nella vita concreta, il disturbo mentale, termine generico con cui si racchiude mondi e situazioni diverse di dolore, per me era come la lebbra, andava tenuto a distanza, mi inorridiva avvicinarmi a chi ne era vittima. Non li consideravo neppure ammalati, erano un caso a sé, una sventura nell’irrazionalità che andava allontanata, bollata, segregata. Dentro di me sapevo che era una paura immotivata, la mia giovinezza l’ho trascorsa condividendo l’ideale di progresso, di inclusione, di comunità. Le conquiste di Basaglia da quelli che condividevano la mia idea di futuro erano applaudite e sostenute. Io mi limitavo ad applaudirle e neppure tanto forte.

Dalle mie parti c’è un detto: «Dove non vuoi andare ci vai di corsa.»

Così è stato. Il mondo che sognavo l’ho visto smantellarsi con costanza e dedizione da coloro che misurano tutto con il metro del denaro. Io me ne stavo a dire che non andava bene, che c’era un altro modo per stare al mondo. Niente, il futuro veniva svenduto in cambio di un posto di lavoro dove le conquiste per la dignità venivano grattate via lasciandoti uno stipendio che si affievoliva, e mi spiegavano che dovevo considerarmi un privilegiato, un lavoro ce l’avevo. Caduto il muro di Berlino i potenti hanno spacciato nei programmi televisivi e nella stampa, la paura. Paura dello straniero che si fa pagare meno di te; che entra nella tua casa e ti ruba il rubabile; un lavoro che costava troppo a causa della pretesa dignità dei lavoratori, dovevamo dire addio alla dignità e piegarci alla produzione, altrimenti il lavoro emigrava; dovevamo rinunciare ai sogni perché la realtà concorrenziale è spietata. Paura. Paure. Nessuna prospettiva per il futuro. Il nulla.

Abili i ricchi, hanno pagato narratori per rimbombarci con film e serie televisive dove emergeva che la precaria condizione presente era determinata dalla poca voglia di fare, chi vuole vincere deve lavorare duro, altrimenti si è perdenti. Non più il senso della collettività, Marx lo avevano buttato nella discarica assieme al Comunismo, ma la solitudine di uno contro tutti. Un mondo contro, un mondo violento, che non dà spazio alla sensibilità, ci vuole la scorza dura, la rabbia della conquista, il debole va schiacciato, bisogna essere pronti a tutto, avere il pelo sullo stomaco.

Sono bastati pochi anni, i politici (anche coloro che da giovani cantavano Dylan) si son rifatti il trucco, la gestione del Potere per conto terzi (i ricchi) offre la bella vita raccontata nei film, perché restare legati a stanche e impolverate idee del passato? Il presente è denaro, allegria, bella vita, effimera gioia! Se qualcuno non lo vuole capire è colpa sua, la precaria condizione è causa solo ed esclusivamente sua. Nella vita non bisogna avere scrupoli, il mondo va aggredito e divorato. Essere ammirati e invidiati, questo conta, il resto è fuffa!

E chi non ci sta? Chi ha ancora dignità di sé e rispetto per gli altri, per il pianeta, che non vuole guerreggiare ma vivere, quale destino ha?

L’ho visto in casa mia il disagio, non sentirsi a posto, mascherarlo recitando la parte del sorriso da pubblicità, però detestarsi fino a farsi del male, ferirsi nella carne, punirsi per quella sensibilità che ti rende mite. In silenzio, nascosti da tutti. Ma prima o poi qualcuno ti scopre, e se quel qualcuno è un educatore lancia l’allarme e il mondo finto che non si riesce più a reggere, crolla.

Così da genitore ti ritrovi davanti a una porta bianca chiusa, suoni il campanello e aspetti che due giri di chiave ti permettano di entrare in quel corridoio dove svetta in alto la parola PSICHIATRIA. Lasci che controllino che cosa hai nelle borse che hai portato, tolgono i lacci alle tute, tolgono tutto ciò che può ferire, devi lasciarli fare, è il loro mestiere (si impara in fretta che cosa portare e cosa no). Entri, senti la porta chiudersi con gli stessi due giri di chiave, ti pare un suono assordante e devi fare i conti con la realtà: sei entrato nel mondo di Franco Basaglia.

Tra quei ricoverati c’è la tua responsabilità, la figlia a cui non hai saputo leggere il disagio, la sofferenza, la fatica di recitare un ruolo che non era suo, il mascherare con degli squillanti saluti l’essere costantemente bullizzata.

La prima reazione è quella di fustigarti, di darti tutte le colpe del mondo, di rincorrere i ricordi per decifrare se ti aveva mandato dei segnali! Lo scopo? Farti del male, proprio come ha fatto lei su se stessa. Fuggire dalla realtà, come ha fatto lei. Per fortuna dura poco, devi imparare in fretta a rapportarti con una sconosciuta, perché questo scoprirai che è diventata la bambina con cui giocavi. Devi ricostruire un mondo, lasciarti aiutare da gente esperta a imparare un vocabolario di parole, di espressioni da dire e da non dire, di farti forza e capire come leggere le emozioni, prima di tutto le proprie, come reagire ai propri stati d’animo, a imbastire al momento un discorso con le parole giuste per non farla affondare. Devi imparare a esserle d’aiuto senza annullarti, devi continuare la tua vita e viverla fino in fondo, altrimenti non le sarai d’aiuto.

Questo è il mondo di Franco Basaglia, non un mondo di picchiatelli, ma una schiera di anime sensibili a cui hanno proibito di sognare obbligandoli a conformarsi al Sistema. Rifiutandolo sono stati messi all’indice e hanno smarrito il senso, convincendosi che per loro il senso non c’è.

Il dramma è tutto qui, da genitore lo affronti con perseveranza e pazienza, la stanchezza spesso sopraggiunge, ma è un lusso che non ti puoi permettere, c’è una vita da far risorgere.

Alberto Camata

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