Chi ha paura dell’affettivitàà?

di Mocellin Silvano

«Da quando vado a scuola ho scritto migliaia di pagine. Mi hanno sempre corretto, ma non mi hanno mai risposto».
Partiamo da qui, da questo sfogo di uno studente all’ultimo anno di liceo. Nella sua affermazione vi è tutto il rammarico per tante opportunità sprecate. Occasioni di comunicazione che sono state mancate.

Che c’entra il virtuale con la scuola?

Eppure la scuola è comunicazione: spiegazioni, interrogazioni, verifiche, testi di ogni tipo. È comunicazione anche perché è, fondamentalmente, relazione. Prima fra tutte quella tra il professore e lo studente. Se la relazione non fosse importante, anzi decisiva, nel processo di apprendimento, si potrebbe trovare una soluzione molto semplice al problema che affligge il ministero preposto alle risorse economiche: dotare ogni famiglia di computer e collegamento internet, predisporre qualche software che gestisca, somministri e verifichi i ‘saperi irrinunciabili’, e lasciare poi che ognuno si arrangi. Secondo le proprie ambizioni, secondo le proprie possibilità. Ma così non sarà mai, perché incancrenirebbe le disuguaglianze dal momento che chi parte socialmente svantaggiato sarebbe definitivamente fregato… Aspetta un attimo; dici: «non sarà mai»? Forse. Perché senza recuperare scenari alla George Orwell, quel diavolo ‘profetico’ che è Isaac Asimov ha già scritto un racconto in cui si prospetta una siffatta soluzione per il prossimo futuro.

Ascoltare e fare lezione: si può

Perché una relazione sia davvero tale e la comunicazione si realizzi in modo corretto, occorre che sia attivata una adeguata capacità di ascolto. È il presupposto per quella sorta di alleanza comunicativa che rende fertile la relazione. Saper ascoltare significa disponibilità verso l’interlocutore, adesione alle sue esigenze e ai suoi problemi, capacità di assumerne i punti di vista. Succede questo a scuola?
Sento già le reazioni. Che c’entra tutto ciò con la professione docente? Il professore deve insegnare, che diamine! Ha un ruolo istituzionale ben preciso: ha dei programmi didattici da svolgere e deve poi misurare e valutare gli apprendimenti. Che è ‘sta storia dell’ascolto? Quelle sono competenze degli psicologi. Io non sono pagato anche per questo. A ciascuno i propri compiti. E così via.
Siamo al nodo della questione. Due fili intrecciati: l’istruzione e la formazione. Da una parte la crescita delle conoscenze, dall’altra la crescita della persona. Con l’obiettivo unico di far maturare le capacità. Tutte le capacità. Da quelle logiche, sintetiche e analitiche, a quelle estetiche, sociali, etiche, eccetera. Le quali non possono che essere il frutto di un processo integrato. Occorre arrendersi: è una pretesa ormai anacronistica quella del docente che crede sia sufficiente entrare in classe e ‘fare lezione’.

Vasi da riempire o fuochi da accendere?

Ce ne rendiamo conto in ogni settore. Tutti i ruoli comportano una relazione affettiva. Anche quelli degli impiegati agli sportelli di un ufficio comunale, di una banca. Sempre, con ciascuna nostra azione, attiviamo necessariamente degli affetti, che possono essere produttivi o controproducenti. Se considero la persona che mi sta di fronte un seccatore, reagirò e mi comporterò in un modo diverso da quello che adotterò se la considero simpatica, divertente o affascinante.
Ciò vale in modo particolare a scuola. Perché tanti ragazzi, che pure avevano iniziato, con la scuola primaria, la loro carriera di studenti con tutte le migliori prospettive, poi si arenano, falliscono e ripudiano quell’istituzione che dovrebbe essere invece uno dei loro più fidati sostegni nel processo evolutivo? Perché si scontrano con stili di relazione che li respingono. Nella scuola dell’infanzia un buon rapporto con l’alunno è tra gli obiettivi prioritari della relazione educativa. Nella scuola secondaria spesso non è più così. L’accusa che molti studenti rivolgono alla scuola è che ancora tanti professori interpretano il loro ruolo in senso autoritario. L’insegnante è colui che giudica, che dà i voti. Corregge, non ascolta. Sta in cattedra, non dialoga davvero. È abituato a esporre, spiegare, dire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Si pone come arbitro il cui giudizio è inappellabile. È percepito come un avversario, non come una persona in grado di aiutare. Lo studente pensa che l’insegnante ‘ha il coltello dalla parte del manico’ e perciò sta in guardia, diventa diffidente, perché non si sente né considerato, né capito, né ascoltato.
Da parte sua il docente spesso è portato a ‘fare il cattivo’ perché crede che questa modalità affettiva sia in grado di rafforzarne l’autorità e motivare maggiormente allo studio. È come pretendere di curare l’anoressia rimpinzando di cibo. Si crea un circolo vizioso di reciproca svalutazione.
La soluzione? Migliorare le relazioni. Rendersi conto che lo studente (come del resto ogni persona con cui tutti noi abbiamo a che fare) ‘non è un vaso da riempire ma un fuoco da accendere’.

L’abbraccio della ‘reverie’

Wilfred Bion direbbe che anche a scuola ci vuole la ‘capacità materna di reverie’. Appena nato e nei primi mesi, il bambino deve fare i conti con la realtà. Il mondo è per lui un insieme di cose sconosciute che gli provocano angosce proprio perché non sa cosa siano e non sa come relazionarsi con esse. La madre, intuendo questo bisogno del suo bambino, ne accoglie le perplessità, che egli proietta in lei, e gli restituisce le sue emozioni dotandole però di senso, garantendogli che sono comprensibili e accettabili. In questo modo tutti noi abbiamo ‘imparato’ tutto ciò che ci è stato poi utile ad armonizzarci con la realtà, a tollerare quelle che prima erano ‘non-cose’, a pensare i pensieri, a relazionarci. La professione docente dovrebbe essere ripensata in questi termini: il professore abbraccia, sostiene, fa da mediatore, accompagna l’allievo nell’acquisizione di nuovi saperi e nella produzione dei contenuti mentali utili a produrre altri pensieri.
Ciò risulta tanto più importante se poi ci ricordiamo che l’adolescente, nella fase evolutiva che sta affrontando proprio negli anni scolastici, vive una realtà interna conflittuale e caotica, che necessita di riferimenti esterni a cui appoggiarsi e che svolgano un ruolo di organizzatori del suo mondo.

Fornari vuole una casa armoniosa

Franco Fornari, da parte sua, parlava di ‘buona famiglia interna’ da ricreare dentro di noi. Si tratta dell’armonizzazione dei vari codici che ci portiamo dentro dalla nascita e che determinano il nostro benessere se riusciamo a saturarli come si deve. Sono quello della madre (che garantisce la soddisfazione dei bisogni legati alla serenità e alla sicurezza di chi viene abbracciato e ‘contenuto’), del padre (che favorisce il percorso di progressiva autonomia), dei fratelli (che porta alla socializzazione e alla collaborazione, evitando la droga della competizione esasperata), del bambino onnipotente (la gioia della spontaneità e della creatività), della sessualità (accettazione e valorizzazione della propria corporeità). Sono tutti codici ‘affettivi’. È impensabile che anche l’apprendimento non debba fare i conti con queste necessità. Come la famiglia nella prima infanzia, così anche la scuola come istituzione, per adempiere al suo ruolo, per essere davvero efficace, deve diventare un contenitore ‘affettivo’. Ciò vale per gli studenti come per gli adulti che vi lavorano. Ne hanno diritto anche i professori. Genitori e docenti dovrebbero incontrarsi più spesso e compattarsi per parlare, prima ancora che di programmi e rendimenti scolastici, di come costruire tale contenitore.

Chi ha parlato di prof remissivi?

Obiezione: non è che sulla strada dell’assunzione di un atteggiamento ‘materno’, si vogliono professori eccessivamente comprensivi, disposti a giustificare tutto, anche il disimpegno o i comportamenti cialtroneschi degli studenti?
In realtà assumere un atteggiamento di ascolto nella relazione educativa non significa essere più ‘materni’ nel senso banale del termine. Non significa diventare meno severi nell’esigere che lo studente esegua i propri compiti. Accompagnare l’allievo può significare semplicemente non contrapporsi a lui ma collaborare con lui, e magari anche promuoverlo da un ruolo di cliente, che come tale dovrebbe essere blandito o persuaso con le strategie del marketing, a un ruolo che in quanto persona merita, vale a dire al ruolo di co-protagonista. E per fare ciò un primo passo potrebbe essere quello di trovare del tempo (non in fretta nei cambi dell’ora, nei corridoi ), per dei colloqui individuali tra insegnante e allievo che purtroppo ancora non sono istituzionalizzati dalla nostra scuola.

Se ti conosci, ti migliori

Imparare ad ‘ascoltare’, allora, non per essere più accomodanti, ma sapendo che comunque esistono delle inevitabili dimensioni affettive nelle professioni che, come l’insegnamento, sono fondate su una relazione. L’atteggiamento di ascolto consente di dominare tali dimensioni, evitando di diventarne vittime magari inconsapevoli. Ad esempio può succedere che un ragazzo sempre coccolato dai genitori si aspetti di esserlo anche dal professore e per questo cerchi di avere bei voti seducendolo invece che studiando. Oppure che un altro, abituato a essere punito dai suoi, a scuola adotti comportamenti provocatori che portino al risultato da lui dato per scontato. Anche sul versante dei docenti, possono agire rappresentazioni affettive che influenzano gli stili relazionali ed educativi. Quello di chi considera l’insegnamento come una guerra contro lo studente e la sua ignoranza, sarà ben diverso da chi lo considera un far germogliare idee nuove. Nel primo caso lo studente è un nemico, nel secondo è un bambino.
Se diventa consapevole di avere certe aspettative nei confronti dei propri studenti, un professore saprà riconoscere i momenti in cui, ad esempio, sente una certa rivalità con i loro genitori, o si identifica troppo con loro. Oppure si identifica con certi atteggiamenti distruttivi degli studenti o diventa un loro competitore. Vedendo che gli studenti sono sedotti da altri oggetti diversi dalla scuola (certa musica, la moda o altro), può mettersi in competizione reprimendo, svalutando o imitando per deviare su di sé la loro attenzione, per esercitare una uguale attrazione seduttiva…

Risposte, non segni

Accettare la verità che ogni nostra scelta di comportamento e di relazione è indotta o mediata da componenti affettive significherà per il professore, oltre a prendere atto che, come dice Alfio Maggiolini, non può essere «una macchina anaffettiva che produce spiegazioni e interrogazioni», riconoscere anche la relatività dei suoi atteggiamenti distaccandosene quanto basta per padroneggiarli meglio, sapere che i ‘ruoli’ (anche quello del professore) sono rappresentazioni e che può essere dannoso farli coincidere con un’unica posizione affettiva, specie se si tratta di una posizione difensiva, respingente, sospettosa, arrabbiata, delusa e, in una parola, ‘luttuosa’, quando invece la scuola dovrebbe essere il luogo della vita, della fiducia, del rispetto, della stima. E così via sperando.
Dovrebbe essere il luogo dove uno studente trova anche delle ‘risposte’ a quello che scrive, e non solo segni rossi e blu.