I “nemici” e la scommessa dell’amicizia

di Cortese Fulvio

Il caso Guantanamo

Chi sono i nemici?

Nella storia del pensiero politico-giuridico la domanda con la quale si apre questa breve riflessione ha ricevuto diverse risposte, ma non può non riconoscersi che, in proposito, una delle tesi tradizionalmente più significative ha trovato una sua coerente e completa espressione con l’opera di Carl Schmitt (1888-1985).
L’importanza dei risultati cui giunge il pensiero del noto costituzionalista tedesco è presto dimostrata, poiché in esso si individuano le ragioni di un criterio interpretativo universale proprio nella contrapposizione amico/nemico.
Il nemico non è l’avversario privato; il nemico non può essere tale se non è “pubblico”; il nemico costituisce l’identità collettiva contrapposta; il nemico, in definitiva, non è altro che la possibilità reale di un gruppo politicamente ostile, che concettualmente identifica e fonda la pluralità delle comunità politiche e degli Stati, e che, conseguentemente, spiega l’incombenza della guerra e delle decisioni (politiche appunto) nelle quali gli Stati si riconoscono e per le quali essi agiscono (C. Schmitt, Il concetto di “politico” (1932), in Id., Le categorie del “politico”, Bologna, 1972, 101 ss.).
In tal modo, quindi, la distinzione tra amico e nemico assume un valore tutt’altro che semplicisticamente ingenuo o puramente didascalico: ogni comunità politica, in sé e per sé riunita in un legame storicamente territoriale di vicinanza e di condivisione (amicizia), tende inevitabilmente a scontrarsi con le altre comunità politiche, legittimando in questo senso sia l’esistenza e l’inevitabilità dei conflitti tra gli Stati, sia la fallibilità e l’ipocrisia di qualsiasi sistema di governo internazionale.
Non è difficile, a questo punto, constatare che un’interpretazione del genere se da un lato poteva rappresentare, nel periodo in cui è stata formulata, una sicura profezia di ciò che sarebbe accaduto con il secondo conflitto mondiale, dall’altro può ancor oggi riproporsi quale motivo di riflessione circa la difficoltà, sempre presente e, potremmo dire, strutturalmente immanente, di contenere (se non di evitare) lo scoppio e la diffusione di guerre e di contrasti politici internazionali.
Ma ciò che è a dir poco sorprendente è il fatto che una simile considerazione possa comunque ribadirsi anche in un’epoca, come quella presente, nella quale da più parti si elabora il declino ormai conclamato dello “Stato” e dei suoi presupposti strutturali a favore di uno spazio economico, giuridico e sociale ben più vasto ed universale (globale), ed in quanto tale asseritamene libero da condizionamenti territoriali o da declinazioni organizzative e funzionali che all’esistenza di quei confini sono inscindibilmente legate. Ed è ancor più sorprendente che la logica del dualismo amico/nemico sia quasi testualmente ripresa ed accettata proprio nel momento in cui si riafferma che alcuni diritti, universalmente definiti come inviolabili, competono non solo a coloro che sono estranei alla comunità che li riconosce quali “fondamentali” e costitutivi della propria esistenza storica oltre che politico-giuridica, ma anche a chi, perseguendo finalità di lotta terroristica, si sia appunto “contrapposto” a quella medesima comunità e ai valori che in essa sono condivisi, ivi compresi quelli “fondamentali”.

I nemici sono…

Quest’ultima osservazione merita una breve spiegazione.
Com’è noto, e alla vicenda hanno dato ampio riscontro tutti i giornali quotidiani, la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha pronunciato, il 28 giugno 2004, tre importanti sentenze, con le quali è stato definito il regime e lo status giuridico degli “enemy combatants”, ossia di alcuni “nemici combattenti” catturati nell’ambito delle politiche anti-terrorismo attuate dall’amministrazione Bush dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001 e da tempo trattenuti presso basi militari statunitensi senza che fosse loro permesso l’esercizio dei più basilari diritti processuali, quali la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria o, ancor prima, di contestare le imputazioni sommarie emesse a proprio carico.
La vicenda, come si è detto, è assai conosciuta, soprattutto per la circostanza che una delle pronunce in questione concerne la grave posizione, più volte denunciata anche dalle più importanti organizzazioni umanitarie, di alcuni prigionieri, non statunitensi, detenuti presso la base navale di Guantanamo (cause riunite Rasul et al. V. Bush, e Al Odah et al. v. United States); le altre due, invece, riguardano i casi di due cittadini statunitensi, accomunati al regime degli altri detenuti in quanto anch’essi qualificati come “enemy combatants” (cause Hamdi et al. v. Rumsfeld, Rumsfeld v. Padilla; tutte le sentenze possono essere agevolmente reperite al sito www.supremecourtus.gov).
La Corte Suprema, espressamente investita della questione relativa alla legittimità di un trattamento così duro, ha effettivamente sancito che comunque, ed indipendentemente, quindi, dalla loro condizione di “combattenti nemici”, sia gli stranieri catturati all’estero (e detenuti a Guantanamo) sia i cittadini americani possono adire i tribunali ordinari degli Stati Uniti per contestare i propri capi d’imputazione o la legalità della propria condizione e del regime carcerario cui sono sottoposti. A ragione, quindi, si è unanimemente sottolineato che con ciò sono stati riaffermati alcuni dei principi irrinunciabili dell’intero costituzionalismo, e che lo “stato di diritto” e le sue primarie garanzie individuali costituiscono ancora un insopprimibile limite anche per le politiche che fondino i motivi della propria azione sulla necessità di fronteggiare uno “stato d’emergenza” idoneo a minare le basi stesse della comunità e della sua sicurezza.
Tuttavia, ciò che la Corte non rigetta è la qualificazione di “combattenti nemici” e la connessa possibilità che il governo statunitense definisca l’ampiezza dello “stato d’emergenza” e, con essa, la condizione di coloro che, pur titolari di libertà fondamentali sul piano squisitamente processuale, possono comunque essere soggetti a restrizioni profonde del proprio status.
I primi commenti hanno messo in luce proprio quest’aspetto, ricordando che, nonostante la formale ed importante riaffermazione dello “stato di diritto”, le pronunce in questione avallano l’idea che gli Stati più forti e, in essi, i “portatori del diritto” evitino il ricorso alle categorie universalmente accettate del conflitto bellico e definiscano direttamente (ed indefinitamente) uno “stato d’emergenza” che a quelle categorie si sottrae pur rimanendo compatibile con gli altri valori fondanti dello stato liberaldemocratico (cfr. S. Santoli, U.S.A.: Eppur (r)esistono. Habeas corpus, due process of law, checks and balances. In margine alle sentenze della Corte Suprema del 28/6/2004, reperibile al sito www.forumcostituzionale.it). L’assimilazione di tali sviluppi a quelli preconizzati da Carl Schmitt è immediata: “chi è superiore vedrà nella propria superiorità sul piano delle armi una prova della sua justa causa e dichiarerà il nemico criminale” (così in Il Nomos della Terra, Milano, 1991, 430, ripreso anche da S. Santoli, op. cit.).

La scommessa dell’amicizia

Ci si può sottrarre, in qualche modo, alle contraddizioni di un sistema che, pur nella sua dichiarata evoluzione globale, non riesce a svincolarsi dalle tipiche forme del conflitto amico/nemico?
L’enigma sembra inestricabile, ed è singolare notare, ad esempio, come l’inevitabilità dell’approccio conflittuale abbia storicamente contraddistinto ed alimentato l’affermazione stessa dei principi di libertà, di uguaglianza e di fraternità quali aspetti comuni di un’identità politico-costituzionale.
Essa, non riconoscendosi più nel fatto di essere tale in quanto soggetta ad una comune autorità “assoluta”, ha ritrovato le ragioni della propria coesione nella solidarietà e nell’amicizia dei “cittadini”, che in tanto sono titolari sovrani del potere di produrre tutto il diritto della “nazione” cui appartengono in quanto si contrappongano ai “nemici” della solidarietà e dell’amicizia che li unisce. Quindi, se anche l’identità delle esperienze politiche che hanno fatto dell’universalismo e dell’amicizia il proprio vessillo soffre di quest’intima e genetica contraddizione, come è possibile affrancarsi dalla necessità di una costante dinamica aggressiva?
Nei suoi celebri Pensieri, al n.303, Pascal riporta un brevissimo dialogo tra due individui, nel quale si rappresenta, in buona sostanza, la situazione di amicizia/inimicizia teorizzata da Schmitt.
La prima voce chiede alla seconda: “Perché mi uccidete, profittando della vostra superiorità? Io non sono armato”. La seconda risponde: “Come! Non abitate sull’altra riva del fiume? Amico mio, se abitaste da questa parte, sarei un assassino, e sarebbe ingiusto uccidervi in questo modo; ma, poiché abitate sull’altra riva, sono un valoroso, e quel che faccio è giusto”. Al passo n.305, di poco successivo, Pascal commenta: “Abita di là dal fiume”.
Ora, in questa sede piace ipotizzare che questo commento suoni quale imperativo, quale invito ad abitare al di là, poiché soltanto immedesimandosi nelle ragioni esistenziali e nelle condizioni reali del potenziale nemico è possibile evitare la conclusione tragica del confronto. “Almeno questa è la condizione necessaria, anche se non ancora sufficiente, per praticare quella philia erotiké che il mondo greco ci aveva indicato e che ancora può ritrovarsi nella scommessa della …«amicizia per l’umanità'” (E. Resta, Il diritto fraterno, Roma-Bari, 2002, 47).