Sul ddl Zan e dintorni

di Cortese Fulvio

Un dibattito surreale

Di questi tempi si assiste spesso all’infiammarsi di discussioni pubbliche tanto accese quanto poco consapevoli: occasioni in cui tutti si sentono nella condizione di dover esprimere con forza e ostinazione la propria opinione definitiva, in molti casi rivendicando il ruolo di difensori di qualche interesse superiore o addirittura di qualche diritto o di qualche libertà. Il risultato è che l’interesse superiore, il diritto o la libertà di volta in volta invocati, lungi dal contribuire a orientare la pratica soluzione del conflitto, rinfocolano i dissidi e stimolano gli interlocutori verso antipodi sempre più lontani. È una situazione per certi versi surreale, ed è ciò che si può verificare anche con riguardo al recente dibattito sul cd. “ddl Zan”, un disegno di legge che comprende «Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità». La Camera dei Deputati lo ha approvato lo scorso anno e in queste settimane è all’esame del Senato.In proposito, c’è chi grida allo scandalo, sostenendo che se il disegno di legge venisse approvato definitivamente la libertà di opinione sarebbe messa in grave pericolo. Alcuni ritengono che a essere a rischio sarebbe anche la libertà religiosa e a prova di ciò segnalano che proprio con riferimento al ddl Zan lo Stato Città del Vaticano ha da ultimo lamentato una potenziale violazione del regime concordatario che impegna Chiesa cattolica e Stato italiano. Altri ancora immaginano che la nuova legge segnerebbe la fine della famiglia e il pari tramonto dei diritti dei bambini, sancendo una sorta di ufficialità pubblica per le cc.dd. “teorie gender”.Dalla parte opposta, però, si levano voci del tutto dissonanti: la legge in questione segnerebbe per l’Italia un traguardo di civiltà, perché volta a riconoscere e tutelare a ogni effetto i diritti di categorie ancora discriminate; metterebbe fine a gravi episodi di stigmatizzazione e minaccia della libertà di autodeterminazione sessuale; disincentiverebbe o impedirebbe del tutto pratiche sociali e culturali di istigazione alla violenza nei confronti di coloro che assumano orientamenti di genere diversi da quelli propri della maggioranza eterosessuale.Che dire? Ci troviamo davvero di fronte a un dilemma inestricabile? Cerchiamo di guardarci dentro e di capirci qualcosa di più.

Di che cosa stiamo parlando?

Le norme che sono ancora all’esame del legislatore si propongono diverse finalità:a) in primo luogo, intendono modificare una disposizione che già si trova nel codice penale (all’art. 604 bis), la quale punisce, rispettivamente: «chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi»; e «chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». La stessa disposizione, inoltre, vieta anche «ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», e ne punisce i partecipanti, coloro che vi prestino assistenza e i relativi promotori e dirigenti. Ciò premesso la modifica consiste nel rendere punibili tutti i suddetti comportamenti anche laddove «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità».b) in secondo luogo, il ddl Zan si propone un’altra modifica: in altra disposizione già vigente del codice penale (art. 604 ter) si prevede che costituisca una circostanza aggravante, operante per tutti i reati che non siano puniti con l’ergastolo, il fatto che essi siano stati commessi «per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità»; il ddl Zan vuole estendere l’operatività di questa aggravante anche laddove i reati in questione vengano commessi «per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità».c) in terzo luogo, il disegno di legge adegua a tali proposte di modifica, estendendone a esse l’applicazione, alcuni aspetti del regime sanzionatorio previsto per i reati attualmente già puniti dalla legge (in tema di sanzioni accessorie e loro esecuzione, di sospensione condizionale della pena, di determinazione effettiva della pena da parte del giudice).d) in quarto luogo, si intende: istituire una «giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia», con tutto ciò che simile previsione comporta circa l’organizzazione di iniziative istituzionali a tal fine sinergiche; rafforzare il ruolo dell’Ufficio per il contrasto delle discriminazioni, già operante presso la presidenza del Consiglio dei ministri; estendere alle vittime dei reati di nuova introduzione l’assistenza dei (già esistenti) «centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere»; e incaricare l’Istat di svolgere un’apposita rilevazione statistica, a cadenza almeno triennale, ai fini della verifica dell’applicazione della nuova legge «e della progettazione e della realizzazione di politiche per il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oppure fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere e del monitoraggio delle politiche di prevenzione».A corredo di queste proposte di modifica, il ddl Zan introduce alcune definizioni, per chiarire il senso delle nuove “criminalizzazioni”. Il suo art. 1, infatti, specifica che, ai fini della nuova legge: «a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».Oltre a ciò, infine, l’art. 4 precisa che, pur a fronte della previsione di una più ampia punibilità di certi comportamenti, come sopra ricordati, «sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».

Pro e contra

Se questo è il contenuto del ddl Zan, si deve subito ribadire un aspetto, sul quale, oggi, e indipendentemente dall’approvazione dello stesso ddl, non può esservi discussione.Sul piano giuridico il diritto all’identità di genere è già riconosciuto e ha una valenza di primaria importanza, su cui negli ultimi anni si è espressa anche la Corte costituzionale, pronunciandosi sul tema del rapporto tra la percezione di sé e la certificazione pubblica relativa alla definizione della propria identità sessuale: «l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici al momento della nascita con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisc[e] senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere» (sentenza n. 180/2017).Il ddl Zan, dunque, non introduce ex novo il diritto all’identità di genere come qualcosa di finora sconosciuto; non fa altro che offrire una protezione penale dinanzi ad atti discriminatori o idonei a generare discriminazione o violenza – o direttamente violenti – laddove fondati sul sesso e sulla percezione personale che di questo ogni singolo individuo può liberamente avere. Da questo punto di vista, peraltro, e a essere precisi, il ddl Zan null’altro dispone se non l’estensione – per le discriminazioni fondate «sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità» – di una tutela penale già prevista, ossia di quella tutela penale che nel 1993 era stata introdotta per combattere le discriminazioni etniche, razziali e religiose.Se tutto ciò è vero, ha buon gioco, tra i sostenitori della legge, chi registra che non si comprendono né il motivo di tanta opposizione al riconoscimento di diritti che esistono già e, anzi, hanno un chiaro rilievo costituzionale, né la ragione di una disparità di trattamento, quanto a tutela penale, tra il sesso, il genere o la disabilità (per un verso) e la razza, l’etnia o la religione (per altro verso). Forse che l’unica spiegazione esistente, per mantenere una simile disparità, è la (tuttora) invincibile refrattarietà di larga parte della società italiana ad accettare che le forme dell’affetto e della relazione possano essere diverse da quelle più tradizionali?Il sospetto che sia questa la principale “anima” dell’opposizione all’approvazione del ddl Zan è forte, tanto più che, negli argomenti usati anche dagli osservatori più sensibili, essa si ammanta di una lettura più generale, che appare nobile e particolarmente condivisibile, tanto che, alla fine, finisce per provare troppo. Si ripete, infatti, che non è possibile castigare i costumi con il diritto o (ancora) che gli strumenti più adeguati per combattere le discriminazioni non sono le sanzione penali, bensì l’istruzione e la cultura. Tutto vero, naturalmente; senonché occorre capire perché, per certe discriminazioni, la sanzione penale funzionerebbe e per altre no.Se questo è il punto di forza del ddl Zan, bisogna avvertire, tuttavia, che nei modi con cui esso è veicolato si nascondono comunque alcune insidie; che sono tali non per presupposizioni di matrice ideologica, ma per profili di natura tecnica.Il primo profilo è questo: le nuove disposizioni incriminatrici sono poco tassative e poco determinate; si espongono, cioè, al rischio di interpretazioni molto oscillanti, nelle quali l’area della punibilità non è così facile da percepire con sufficiente e preventiva certezza. Come può riconoscersi, ad esempio, l’esatta operatività della amplissima causa di giustificazione che il legislatore vorrebbe introdurre nel citato art. 4 del ddl? Quando si può essere certi, in altri termini, che non vi è una discriminazione punibile e vi è, invece, una manifestazione di «pluralismo delle idee» o di «libertà delle scelte»? Al di là di alcuni casi di scuola, di facile prefigurazione, lo spazio che così si offre al giudice è assai ampio, e forse è addirittura troppo. Va anche detto che la stessa presenza, nel ddl, di quell’art. 4 è quasi una confessione dell’estrema delicatezza del tema, forse non ignota agli stessi proponenti: non è di per sé sufficiente, a garantire la libertà di opinione, l’art. 51 del codice penale, che “scrimina” l’esercizio di un diritto? Il fatto è che l’eccesso di precisazione è suscitato, con tutta probabilità, dalla circostanza che la tutela penale dell’identità di genere come proiezione soggettiva, autonoma e variabile espone gli interlocutori a una sfera strutturale di rischio, a sua volta molto liquida.Il secondo profilo critico ha a che fare con l’argomento, poc’anzi ricordato, del carattere eccessivo del ricorso alla sanzione penale. Perché è vero (come ricordano correttamente tanti penalisti) che la sanzione penale dovrebbe rappresentare un’extrema ratio, non il passepartout per la tutela di qualsiasi bene o interesse o diritto, né, tanto meno, un manifesto; e che, a ben vedere, le perplessità che tanti agitano nei confronti del ddl Zan dovrebbero valere, per questo stesso motivo, anche nei confronti delle disposizioni incriminatrici introdotte nel 1993, delle quali il ddl Zan vuole estendere l’operatività. In questa prospettiva, se rivolto nei rispetti di una ricorrente e insostenibile attitudine totalizzante nel ricorso alla sanzione penale come rimedio risolutivo, se non taumaturgico, l’argomento sulla logica e inevitabile importanza primaria dell’istruzione e della cultura è più che fondato. Sul punto si dovrebbe anche aggiungere che, proprio a voler dare importanza all’eventuale valore aggiunto della protezione penale, occorrerebbe anche verificare preventivamente se la sua messa in atto possa realizzarsi in modo pronto ed effettivo: basterebbe guardare alla (già) scarsa applicazione della legge del 1993 per capire che l’estensione ulteriore del suo regime non è automatica garanzia di ciò che il nuovo intervento parrebbe promettere.Tutto ciò comporterebbe, per l’appunto, di aprire un capitolo amplissimo, che nulla ha a che fare con il ddl Zan di per sé considerato e che onestà vorrebbe connesso a una revisione globale di molte scelte criminalizzatrici degli ultimi anni o (meglio) a una rivisitazione delle convinzioni più profonde sul rapporto tra l’utilizzo della sanzione penale e il raggiungimento di specifici e concreti risultati. Se l’orizzonte dei contestatori del ddl fosse questo, non vi sarebbe da obiettare alcunché, salvo l’aprirsi di un cantiere dalle dimensioni assai complesse. È in grado questo Parlamento di occuparsene?


Fulvio Cortese

professore ordinario di diritto amministrativo, preside della facoltà di giurisprudenza, università degli studi di Trento