Il problema dell’acqua nel Sahel

di Bonfanti Vittorio

Il Sahel (etimologicamente "cintura") è la fascia di terra che delimita il deserto del Sahara meridionale che parte dal Senegal fino all’Etiopia, Eritrea, Somalia.
In questi paesi, in generale, vige un clima tropicale, composto da due stagioni: la stagione umida che, a seconda della vicinanza del deserto, può durare dai 5 mesi (più a sud) ai 40­50 giorni più a nord, e la stagione secca, che va da settembre­ottobre a giugno­luglio, durante la quale le precipitazioni sono pressoché inesistenti.
La pluviometria di queste regioni del Sahel varia dai 100 mm. d’acqua ai 700­800 mm. all’anno e sono concentrati nella stagione delle piogge.
La siccità che ha colpito questi paesi agli inizi degli anni ’70, susseguita da anni poco piovosi con una nuova punta bassa agli inizi degli anni ’80, è la causa principale del problema dell’acqua che affligge le popolazioni di queste regioni.
Negli ultimi trent’anni la media di precipitazioni si è abbassata del 25% circa. Tanto per dare un esempio concreto: negli anni ’60 la pluviometria nella regione di Kolokani, a 140 km a nord della capitale Bamakò, si aggirava attorno ai 1000­1100 mm. annui, mentre oggi supera raramente i 700 mm.
Questa situazione climatica ha come conseguenza, oltre all’avanzata del deserto favorita anche dal disboscamento, l’impoverimento della falda acquifera naturale (che si trova in media tra i 15­25 mt. sottosuolo) sulla quale sono costruiti la stragrande maggioranza dei pozzi tradizionali nei villaggi.
Oggi molti di questi pozzi seccano nei primi mesi dell’anno, gennaiofebbraio­marzo, per riprendere un po’ d’acqua durante la stagione delle piogge.
Superfluo sottolineare come in questi paesi, qui parlo soprattutto dei villaggi, non delle città, l’acqua corrente non esiste. L’unica risorsa d’acqua rimane il pozzo del villaggio o del clan, e quando secca non sono poche le donne che devono percorrere fino a 10 chilometri, fare la fila per ore per poter recuperare un po’ d’acqua per far da mangiare, per bere e per lavarsi…

La qualità di quest’acqua
È luogo comune ritenere che l’acqua dei pozzi tradizionali non sia potabile. Le opinioni possono essere diverse. Dalla mia esperienza posso dire che tutto dipende dai periodi dell’anno.
Mi spiego. Quando il pozzo riceve regolarmente e continuamente l’acqua dalla falda acquifera, l’acqua è normalmente potabile (l’ho bevuta per 12 anni e non ho mai avuto nessun disturbo). Certo il colore non è limpido, ma piuttosto giallastro, ma questo è dovuto al fatto che i pozzi sono scavati nell’argilla e non hanno protezioni e quindi l’acqua è sporca di terra. Al massimo come conseguenza si possono prendere dei calcoli.
Il problema è diverso all’approssimarsi della fine della stagione secca, quando la falda acquifera si impoverisce e il rifornimento dei pozzi si riduce al minimo. L’acqua stagna nei pozzi e non riceve il dovuto quantitativo di approvvigionamento e, in questo caso, il rischio di malattie è molto alto, soprattutto per il fatto che la gente non è abituata a far attenzione, ma beve l’acqua che trova, dai pozzi, dalle pozzanghere o da piccoli bacini dove si abbevera il bestiame.
Personalmente ho visto più volte pastori bere l’acqua da una grossa pozza d’acqua mentre le mucche si abbeveravano nella stessa pozza e facevano anche altre cose…

Cosa fare?
Personalmente penso che grandi progetti, come le dighe, pur avendo la loro utilità, non siano la soluzione più indicata in quanto creando bacini d’acqua sorgono altri problemi, quali le malattie come la malaria o malattie intestinali, in quanto la gente beve dovunque trova acqua.
Una cosa è certa: una perseverante formazione all’igiene è indispensabile. Di fatto se anche si fornisse l’acqua potabile, filtrata o altro, esiste ancora il problema della sua conservazione in recipienti puliti.
Utile è anche educare a filtrare l’acqua con filtri a materie naturali (sabbia, sassi ecc.) oppure semplicemente con un panno pulito. Questo non risolve completamente il problema, ma è un buon inizio da cui partire.
Si può anche pensare di far bollire l’acqua, ma questa procedura richiede ulteriore lavoro alle donne.
Durante i 12 anni trascorsi nel Mali, abbiamo lavorato con i giovani per cercare di trovare una via d’uscita al problema, con la realizzazione di sbarramenti per l’acqua. Molto semplicemente si trattava di piccole dighe (alte al massimo due metri) costruite con materiale recuperato sul posto: argilla, terra di termitai, sassi… il cui scopo non era quello di creare dei bacini permanenti (allevamento di zanzare!!!) ma con il semplice obiettivo di sfruttare al massimo l’acqua piovana e ristabilire la falda acquifera naturale, in modo che i pozzi potessero ricevere acqua sufficiente e necessaria per tutto l’anno.
Ne sono state realizzate quasi un centinaio in 15 anni e nel 90% dei casi è stato un successo. Oltre ad avere evitato la siccità nei pozzi, ora la gente può permettersi anche di coltivare legumi.
Certo è solo un piccolo passo, ma efficace e altri passi seguiranno. Lo sviluppo non è fatto di un giorno, ma di lavoro perseverante e costante di tanti anni, nel rispetto dei ritmi di ciascuno.

Conclusioni
Il problema dell’acqua in Africa e nei paesi del Sahel ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro ovunque. Il pericolo di cercare soluzioni a tavolino con progetti megalomani esiste tutt’ora.
Senza mettere in discussione l’utilità di progetti come trivellazioni a grandi profondità (dagli enormi costi) oppure della realizzazione di grandi dighe, personalmente ritengo che la politica dei piccoli passi, tenendo conto delle abitudini e della sensibilità della gente, e al suo coinvolgimento in prima persona nella soluzione del problema, sia indispensabile.

Vittorio Bonfanti,
Rivista Africa