Storie di acqua, di conflitti e di civiltà

di Monini Giovanni

Finalmente l’acquedotto
Quando arrivo nella piana di Mbaaria, attorno al kiosk c’è già molta gente in attesa, donne e bambini con la classica jerikan da venti litri, ma anche uomini con i carretti tirati dai buoi e con le taniche da cento litri, e poi ancora tanti animali che vengono da un nord arido e pietroso e trovano qui la prima acqua per dissetarsi.
Da molti anni aspettavano questo momento, a mano a mano che l’acquedotto avanzava dalle pendici del Monte Kenia attraverso la profonda forra del Kathita River e poi lungo la foresta ad alto fusto e giù ancora, lungo le strade rosse che attraversano campi fertili e ben coltivati, fino a raggiungere queste regioni aride dove la vita è strappata ad una terra poco generosa e dove non c’è altra acqua se non quella che cade dal cielo durante le rare piogge.
L’addetto alla fontana mi mostra il getto potente che riempie l’abbeveratoio per il bestiame con un sorriso carico di orgoglio; penso alle rocce taglienti di pietra lavica spaccate dalle mazze e dai cunei metallici che ho visto un paio di ore prima mentre ispezionavo i lavori più a valle, e riesco a condividere la gioia e quasi la meraviglia di questa gente di fronte al risultato straordinario che hanno conseguito insieme ai volontari del CEFA, e di cui neppure gli inglesi erano stati capaci. Dal 1992 le sedici comunità che aderiscono al progetto hanno contributo alla realizzazione dell’acquedotto coprendo una quota dei costi di realizzazione degli impianti locali ed assicurando il lavoro volontario per lo scavo delle trincee ed il rinterro della condotta principale di adduzione. Solo negli ultimi 12 mesi sono state oltre 16.000 le giornate­uomo di lavoro gratuito.

La partecipazione della popolazione locale
Il coinvolgimento della popolazione già nella realizzazione dei lavori è sempre stato, in effetti, l’elemento chiave ed il punto di forza irrinunciabile del progetto; forse una buona impresa di costruzioni avrebbe potuto realizzare le stesse opere in metà del tempo che noi abbiamo impiegato (e ad un costo almeno doppio), ma solo questo lungo e paziente processo di coinvolgimento della gente ci consente oggi di guardare con ottimismo al futuro di questo impianto.
Camminare con le comunità, discutere con loro il tracciato dell’acquedotto, la posizione dei serbatoi e delle fontane pubbliche, condividere le regole sociali e le modalità di funzionamento dell’impianto, i costi e le tariffe dell’acqua, lasciare loro la responsabilità di scegliere gli operatori di fontana e gli ispettori, organizzare i turni dei volontari agli scavi e le liste dei lavoratori da assumere per i lavori di costruzione, lavorare insieme per garantire la raccolta delle quote in danaro a carico dei beneficiari. Sono tutti processi faticosi, che richiedono tempo, tentativi ed errori, ma che piano piano restituiscono alla gente un protagonismo non ideologico e di maniera.
Quando si cominciò a parlare di acqua e di tubi, di costi e di manutenzione, la gente nelle comunità faticava a comprenderne il significato, diceva che l’acqua viene da Dio e chi mai si sognerebbe di "aggiustare" un fiume? Con il tempo, il lavoro, i meeting interminabili, le visite guidate in foresta per "vedere" come l’acqua era stata catturata al fiume e veniva deviata verso le loro terre aride, la gente ha sperimentato il valore del proprio lavoro, ha maturato la consapevolezza che questo è il "suo" acquedotto, frutto anche della propria fatica e del proprio danaro.
I leader delle comunità ora sanno bene che il loro acquedotto necessita di manutenzione e di buona amministrazione perché sia efficiente e perché sia in grado di adeguarsi ai mutamenti della domanda idrica di un territorio che, per la prima volta, sperimenta la disponibilità di acqua.

Alla fine… nascono i conflitti
Tutto facile, allora, tutto in discesa come l’acquedotto che stiamo costruendo? Non direi proprio! Quest’anno mi è ancora più chiaro che l’acqua che portiamo nei nostri tubi disseta, ma alimenta anche la tensione ed il potenziale conflitto, modifica profondamente le condizioni igienico­sanitarie della popolazione, affranca davvero le donne dalla "schiavitù" dell’acqua (fino a 5 ore di cammino per attingere alla prima pozza), ma diffonde anche il seme della discordia, sollecita interessi e sete di piccoli poteri tra gente che fino a ieri non aveva granché da contendersi.
All’inizio, quando visitavo il progetto per la supervisione tecnica ai lavori, che pure erano molto impegnativi, tutto mi sembrava più facile: la gente percorreva anche 10­15 km a piedi per venire in foresta a scavare, arrivavano in gruppi di 80­100 persone con i loro attrezzi dei campi, una forma di pane per il pranzo e vestiti con i colori della festa. L’obiettivo era lontano e forse era più facile sentirsi uniti, anche tra comunità ed etnie storicamente in conflitto.
Ora, invece, il risultato è a portata di mano, l’acqua è arrivata a Mbaaria ed anche i villaggi che si trovano nella estremità di valle dell’area di progetto sentono di essere prossime alla meta, ma questo non si traduce in un clima di sereno appagamento, anzi il clima si surriscalda facilmente, riemergono conflitti e diffidenze ataviche, timori di essere defraudati, tentativi di far prevalere gli interessi di singoli o di gruppi a svantaggio degli interessi collettivi.
Quella comunità non vuole che la condotta che alimenta il proprio impianto attraversi il territorio di un gruppo etnico antagonista, un gruppo di persone ci chiede di sconfessare i rappresentanti che loro stessi hanno eletto perché li accusa di ricercare il beneficio loro personale e dei loro familiari, altri sono accusati di gestire in modo clientelare la lista dei lavoratori avventizi da assumere nel progetto, questi dicono che i protestanti stanno facendosi largo nei posti chiave, e ne approfittano per pretendere provvedimenti su base confessionale, quelli mettono in giro voci su presunte manovre e futuribili diversioni dell’impianto…

Una verifica del progetto
Insomma è tutto un fiorire di voci, contrapposizioni e conflitti, sembra quasi di essere in Italia, ma sinceramente come possiamo stupirci di queste difficoltà? Potevamo immaginare che uomini privi di tutto, messi di fronte ad un bene prezioso qual è l’acqua in una regione siccitosa, potessero dividersi questo bene in piena armonia e concordia, potessero sfuggire alla tentazione di accaparrare benefici e potere? Allora mi è più chiaro il valore primo del Progetto di sviluppo, che va al di là dell’acquedotto e che, in un certo modo, precede e al tempo stesso prevale sul risultato concreto e pur straordinario di un’acqua dove mai non c’è stata.
Questo acquedotto non è che un pretesto, se volete un pretesto importante, per sperimentare un concreto cammino di sviluppo civile, per maturare una capacità di gestire i conflitti giacché essi non possono essere eliminati, per fare decollare un processo di partecipazione e di delega democratica; è a tutti gli effetti un programma di promozione dell’uomo, una premessa allo sviluppo sociale di un territorio e di una popolazione.

Comparazione con l’acquedotto di Ferrara
Ho riletto in questi mesi una breve memoria sulla storia dell’acquedotto della mia città (in "Elogio dell’acqua che si beve a Ferrara", Carlo Bassi e AA.VV, Tosi Editore) e mi sono al tempo stesso stupito e rincuorato nel ritrovare dinamiche e difficoltà non dissimili da quelle che oggi stiamo vivendo nel Kenia settentrionale. Anche allora, come oggi accade in tante regioni dell’Africa subsahariana, il problema dell’acqua era direttamente connesso con le pessime condizioni igienico­sanitarie della popolazione residente.
Il primo acquedotto di Ferrara, realizzato dalla impresa Medici che lo ebbe poi in concessione per oltre 30 anni prima che la municipalità ne assumesse la gestione diretta, risale al 1890 ed era destinato a soddisfare una popolazione di circa 80.000 persone. Scrive nel ’23 l’ingegnere capo Selvelli: «Dal 1890 al 1914, cioè per lo spazio di 24 anni la città di Ferrara ed il Forese non riuscirono a consumare complessivamente 2000 mc. al giorno… ma improvvisamente dopo lo scoppio della guerra il consumo aumentò».
Lo sviluppo che ne seguì, il progressivo potenziamento degli impianti, la definizione dei regolamenti per la concessione dell’acqua potabile, fa dire all’autore che «il realizzo della prima rete di distribuzione idrica rappresenta per il popolo ferrarese un fenomenale momento di crescita civile».
Acqua dunque non è solo vita, igiene e salute, animali e benessere. Prima ancora di tutto questo, acqua può significare una occasione di sviluppo della società civile, di maturazione delle relazioni tra gli uomini che, chiamati a gestire un bene che viene da Dio, imparano a farne un bene per tutti.

Scheda di progetto
Il Kathita ­ Kiirua Water Project è un sistema di adduzione di acqua ad uso potabile funzionante interamente a gravità, realizzato sulle pendici nord del Monte Kenya; dimensionato per una portata di progetto di 100 litri/sec l’acquedotto è in grado di soddisfare il bisogno primario di una popolazione di oltre 80.000 persone.
La zona interessata è un’area rurale di 200 Kmq completamente priva di risorse idriche, ad una altitudine variabile dai 2000 ai 1600 metri sul livello del mare, sottoposta ad un continuo aumento degli insediamenti, abitata attualmente da 30/40.000 persone che vivono di una agricoltura di sussistenza, ove le donne impiegano fino a 5 ore di cammino per raggiungere i pochi punti di approvvigionamento. Il CEFA è presente sul posto fin dal 1990 con volontari che hanno operato dapprima sui versanti sanitario e agricolo, nell’ambito di un programma di sviluppo integrato cofinanziato dal M.AA.EE. e dalla U.E.
A partire dal 1992, sollecitato dalle comunità locali e dalla controparte del progetto (la diocesi cattolica di Meru), il CEFA si è impegnato a risolvere in modo decisivo e autosostenibile nel tempo il gravissimo problema della mancanza di acqua, attraverso la realizzazione dell’acquedotto denominato Kathita­Kiirua Water Project.
L’opera di presa dell’impianto è ubicata all’interno della foresta del Monte Kenya, in zona difficilmente accessibile, ad oltre 2.500 m di quota, all’interno di una profonda forra ove si trova il letto del fiume Kathita che scorre su lastre di basalto e rocce vulcaniche.
Già ora tutti i dati sui consumi, rilevabili dai contatori, delle entrate e delle spese di funzionamento, dei costi di manutenzione ordinaria e straordinaria, vengono raccolti a livello centrale per tenere sotto controllo il sistema nel suo complesso e procedere nel processo formativo dei rappresentanti.
I dati raccolti nei primi mesi di funzionamento mostrano una netta crescita dei consumi, segno di consolidamento dell’abitudine all’impiego dell’acqua pulita, anche se in concomitanza con le piogge si registra un netta flessione che, almeno in parte, è giustificata dalla caduta di richiesta idrica per il bestiame.
Il progetto è ancora oggi in fase di completamento ed il CEFA confida di poter completare l’impianto e trasferire il sistema alle strutture locali di gestione entro il 2005. Chi volesse contribuire o fosse interessato a saperne di più, può contattare l’organismo bolognese di volontariato e cooperazione internazionale utilizzando la seguente e­mail: cefa@iperbole.bologna.it