Pellegrini in territori estremi
Nel 1990 un giovane americano, appena laureatosi con il massimo dei voti alla Emerity University di Atlanta, sparisce iniziando un viaggio solitario nella natura alla ricerca della libertà assoluta. Si chiama Christopher (Chris) McCandless, ma, dopo essersi spogliato delle cose che possedeva, della macchina, dei risparmi (24.500 dollari) che dà in beneficenza e dopo aver abbandonato la famiglia, cambia il nome in quello di Alexander (Alex) Supertramp (Supervagabondo), lasciando perdere ogni traccia di sé. Si mette in cammino lungo le strade dell’America del Nord, vivendo di ciò che ricava da impieghi occasionali. Lo muove il sogno dell’Alaska, dove arriverà nella primavera del 1992 per compiervi la sua «grande avventura finale, la battaglia progressiva per uccidere l’essere falso dentro di lui e concludere vittoriosamente il suo pellegrinaggio spirituale». In realtà le cose non andranno così. Dopo cento giorni vissuti senza ripari, la «natura selvaggia» avrà il sopravvento su di lui. Nel momento in cui egli matura il convincimento che la felicità non è un fatto individuale, ma che è, al contrario, «vera solo se condivisa» e decide di tornare indietro, troverà la strada del ritorno sbarrata dal fiume Taklanika, gonfio per le piogge e il disgelo, e morirà di fame a ventiquattro anni, intrappolato nella foresta inospitale.
Quattro anni dopo, il giornalista e scrittore Jon Krakauer ne ha ricostruita la vicenda in un libro di grande successo, pubblicato in Italia all’inizio di quest’anno (Nelle terre estreme, Corbaccio) e già alla settima edizione. Dal libro Sean Penn ha tratto il fortunatissimo film Into the wild, nel quale il personaggio di Alex è interpretato in modo molto convincente da Emile Hirsh.
Più o meno negli stessi anni, un altro giovane, questa volta francese, abbandona anche lui ogni cosa e inizia un più lungo pellegrinaggio nel territorio desolato e povero degli stati settentrionali del Brasile come testimone dell’amore della «dolce» Trinità divina. Un cammino verso coloro che per lui costituiscono l’immagine misteriosa di Dio: i senza dimora, i senza famiglia, gli esclusi e gli emarginati di ogni genere. Coloro insomma che rappresentano il lato «selvaggio» dell’umanità. Anche questo giovane cambia il suo nome anagrafico – che non conosciamo – con un nuovo nome che, come nel caso di Chris McCandless, è inteso a rivelare la sua scelta fondamentale di vita: Henrique da Trinidade. I primi anni della sua avventura, che continua ancora oggi, sono raccontati in un diario, pubblicato dalle edizioni Paoline brasiliane, del quale Città Aperta sta preparando l’edizione italiana.
Due esperienze estreme
Quelle di Alex e di Henrique sono due esperienze estreme che, pur nascendo da presupposti e motivazioni diversi, hanno tuttavia molti aspetti in comune e che aprono squarci di comprensione su una realtà giovanile inquieta e insoddisfatta del modello di vita che viene loro proposto dalla società occidentale contemporanea, con la quale entrano in conflitto e rompono in maniera radicale, fino a cancellare la loro presenza al suo interno attraverso la cancellazione del nome, come a segnare una nuova nascita, l’inizio di una vita che non ha nulla in comune con quella precedente, e rispetto a quella precedente profondamente alternativa nei valori e nelle modalità in cui si esprime. Ed essi seguono gli imperativi che si affacciano alla loro intelligenza e alla loro sensibilità con molto coraggio, fino alle conseguenze estreme. Il dato fondamentale che li accomuna è, appunto, la fuga dai condizionamenti sociali, dai processi di omologazione culturale, dalle pressioni ad adeguarsi ai comportamenti dominanti.
Ambedue, come primo atto della loro nuova vita, rinunciano al denaro e cercano altrove le loro sicurezze, aprendosi al dono inatteso della natura per l’uno, della provvidenza per l’altro, aprendo nuovi sentieri di lettura e di comprensione della realtà. Alex, sulla strada per l’Alaska, brucia gli ultimi dollari.
Qualcosa di simile compie anche Henrique: «All’uscita dalla chiesa (dove inizia il nuovo cammino) mi sono sentito straordinariamente libero. Libero e risoluto. Nella mia bisaccia la Bibbia e una coperta. Ai mendicanti seduti davanti alla porta della cattedrale detti gli ultimi soldi che avevo ricevuto nel pomeriggio. Non avevo più niente; nessuna ricchezza, solo l’intima certezza di questa meravigliosa chiamata. Al freddo e nella notte di questa città sconosciuta, tutto mi sembrava luminoso».
Alla riscoperta del proprio nome
Alex riassume la sua filosofia di vita in una lunga bellissima lettera a Ron, un pensionato ultrasettantenne che l’aveva ospitato nel suo ultimo vagabondare. «C’è tanta gente infelice – scrive – che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo». La gioia, secondo lui, dipende dall’incontro con nuove esperienze, dalla scoperta «di tutte le cose meravigliose che il Signore ha disposto intorno a noi» e invita l’amico a trovare il coraggio «di rivoltarsi contro lo stile di vita abituale e di buttarsi in una esistenza non convenzionale». La gioia è semplicemente lì che aspetta e non si deve far altro che tendere la mano per prenderla. «Prendi e vai!», conclude. Infatti la sicurezza offerta dall’eccesso di beni materiali esclude dolorosamente dall’autentico pulsare dell’esistenza.
«Per non essere mai più avvelenato dalla civiltà, egli fugge, e solo cammina per smarrirsi nelle terre estreme». Così Alex racconta di sé in terza persona, una volta arrivato in Alaska. Si definisce «un estremista». La libertà lo rende euforico. Secondo la sorella, Chris (Alex) si sentiva emancipato dal mondo d’astrazione dell’università, da un mondo «di false sicurezze, di consumismo, di tutte quelle cose che lo tagliavano fuori dalla verità dell’esistenza». Dello stesso tenore e della stessa radicalità sono le scelte fatte da Henrique: «Avevo fatto il fermo proposito di non avere più soldi né cibo per il giorno dopo, per vivere materialmente la fiducia che la dolce Trinità mi chiamava a vivere spiritualmente. Non avere niente di proprio, non appoggiarmi a nessuna risorsa personale».
Sia Alex che Henrique sono due caratteri forti, determinati a dare corpo alle convinzioni e ai sogni maturati nelle letture con le quali continuano ad alimentare il loro spirito. Del primo conosciamo l’elenco dei libri che aveva portato con sé perché furono trovati annotati vicino al suo cadavere. Sono opere di D. Thoreau, di Jack London, di Tolstoj, di Pasternack, di Paul Shepard. Il secondo invece ha come costante riferimento il testo biblico. Medita la Bibbia nella preghiera che può durare anche giornate intere o intere notti, la legge e la commenta ai poveri che incontra lungo la strada, alle famiglie che gli danno ospitalità.
L’uno pone l’accento sugli aspetti «estetici» della sua avventura, l’altro si muove dentro l’esaltazione dell’esperienza mistica. Ma per tutti due la strada porta a una riscoperta di sé e alla scoperta della natura non addomesticata come fonte di una moralità più pura. Anche Alex, a differenza degli autori che frequenta, si avventura nella foresta non tanto per riflettere sul mondo, quanto per esplorare il paesaggio interiore della propria anima.
Una sfida oltre la razionalità
È facile tacciare le persone che intraprendono avventure così estreme come dei matti, dei disadattati, dei vagabondi o identificarli con lo stereotipo dei ragazzi troppo sensibili, dei giovani svitati che hanno letto troppi libri e mancano di equilibrio e buon senso. Sia uno che l’altro sono stati vittime di questi giudizi. Ma potremmo dire di loro quello che Krakauer scrive di Alex: «Così facendo sentiremmo di non aver esaurito l’argomento. McCandless non era un irresponsabile scansafatiche, confuso e alla deriva, tormentato dalla disperazione esistenziale. Al contrario la sua esistenza brulicava di significati e propositi. Ma il significato che il ragazzo attribuiva alla vita, andava oltre il tracciato di comodo: McCandless diffidava dei traguardi facili e pretendeva molto da sé, molto di più, in conclusione, di quanto non fosse in grado di dare». Del resto, molte delle testimonianze raccolte sul loro conto confermano questa impressione.
Persone come Henrique e Alex appartengono a un tipo speciale di uomini, a quegli uomini convinti che ammettere che l’essere umano debba essere governato esclusivamente dalla ragione vuol dire precludergli la possibilità di vivere pienamente la vita. Questo tipo di persone, dai benpensanti vengono indicate abitualmente come pazze, perché agiscono fuori dei canoni della cosiddetta «normalità». Prima di loro, ne era stato perfettamente cosciente san Francesco d’Assisi quando sosteneva che Dio gli aveva semplicemente chiesto di «essere un nuovo pazzo per il mondo».
Queste persone sono convinte che la libertà e la semplice bellezza sono troppo grandi per lasciarsele sfuggire. D’altro canto, queste stesse persone, nonostante la durezza delle loro condizioni di vita, mostrano una felicità e una gioia sconosciute ai più: è perché sanno infondere vita al loro sapere e perché la loro visione si fonda sull’unità e l’armonia del cosmo.
Citando il Walden di Thoreau, Alex scriveva: «Il vero raccolto della mia vita quotidiana è qualcosa di altrettanto intangibile e indescrivibile dei colori del mattino e della sera. È un po’ di stelle afferrate. Un segmento di arcobaleno che abbiamo preso con una mano». E poco prima di morire, in una situazione oggettivamente carica di disperazione: «Ho avuto una vita felice e ne ringrazio il Signore. Addio e il Signore vi benedica tutti». E sotto si firmò con il suo vero nome, Christopher John McCandless, con il nome dell’io ritrovato.
Anche il diario di Henrique è dall’inizio alla fine la testimonianza gioiosa di chi è cosciente che stare con i poveri e condividerne l’esistenza spogliata di tutto vuol dire stare dalla parte del popolo profeta della salvezza, senza separarsi dal mondo vivente.