Crescita

di Panebianco Fabrizio

Il termine crescita economica, o semplicemente «crescita», è riportato nei servizi economici di ogni giornale o telegiornale, assumendo che il suo significato e la sua importanza siano ben conosciuti da ognuno e le implicazioni ovvie. Forse è bene però ragionarci maggiormente.

Innanzitutto per crescita economica si intende il processo economico che porta all’aumento della ricchezza prodotta in un anno; con ricchezza, in questo contesto, si intende il valore di beni e servizi prodotti da uno Stato e destinati a consumi, investimenti ed esportazioni, normalmente definito Prodotto Interno Lordo (PIL).

Per grandissima parte della storia umana, il PIL è rimasto pressoché costante di anno in anno, con una crescita quindi quasi nulla. Si può dire che, a livello generale, la ricchezza prodotta all’epoca dei romani non differisca molto da quella rinascimentale. Fino al XVIII secolo non si sono avute variazioni di rilievo, finché la rivoluzione industriale, con il parallelo sviluppo di un sistema di produzione capitalistico, ha permesso, in una parte di Europa, una crescita con un ampliamento delle possibilità di consumo inimmaginabile prima di allora. A oggi, con la progressiva espansione di questo processo su scala mondiale, se la ricchezza prodotta fosse equamente divisa tra tutti i cittadini del mondo, garantirebbe un reddito mensile lordo di circa 580 euro, tenendo conto dei differenti livelli di potere d’acquisto tra paesi: uno standard di vita come quello di Ukraina, Bosnia-Herzegovina, Colombia o Albania: un livello di vita che richiederebbe un enorme sforzo di sobrietà anche ai più volenterosi occidentali.

Come mai la crescita economica è percepita come indispensabile? Occorre andare alle cause principali della crescita che possono essere riassunte con il termine «progresso tecnologico». Da quando questo è entrato prepotentemente nella sfera della produzione, di anno in anno, grazie all’aumento della produttività, la stessa quantità di beni può essere prodotta da meno lavoratori, o, come più frequentemente avvenuto, lo stesso numero di lavoratori ha prodotto una crescente quantità di beni. Conseguenza immediata è che se non ci fosse crescita, pur ipotizzando una crescita demografica nulla, il progresso tecnico creerebbe disoccupazione o sottoccupazione, socialmente inaccettabili. Proposte come quelle di ridurre l’orario lavorativo non saranno mai accettate liberamente dalle imprese e sono risultate problematiche da applicare in un mondo in cui i paesi hanno differenti livelli di sviluppo economico. Questa è la motivazione principale che porta a sostenere la crescita come indispensabile. La seconda è che un reddito come quello raggiunto oggi su scala mondiale, anche se fosse equamente distribuito, non viene percepito come sufficiente per garantire una vita con standard ritenuti generalmente accettabili. Fino a questo punto sembra non esserci soluzione alla crescita capitalistica.

Le voci critiche della crescita evidenziano però dei punti problematici: le risorse naturali sono destinate a finire (aspetto sorprendentemente trascurato nei modelli economici dominanti), la misura della crescita avviene su basi esclusivamente materiali, e si osserva uno scadimento di valori associato a una crescita puramente materiale. Mentre il primo punto è evidente e riguarda la difficile accettazione del senso del limite, e il terzo riguarda un ragionamento su uno specifico sistema di valori, quindi non generalizzabile, il secondo punto coglie un aspetto essenziale: la ricchezza di una nazione, il suo livello di sviluppo, deve potersi esprimere come un indice multidimensionale. A questo proposito le Nazioni Unite hanno creato un Indice di Sviluppo Umano che, pur considerando il reddito come parte di esso, tiene conto della situazione educativa e sanitaria del paese. Purtroppo questi valori non vengono solitamente considerati al di fuori delle Nazioni Unite. È comunque interessante notare che, a parte alcune eccezioni, questa nuova classifica rispecchia abbastanza fedelmente le classifiche derivate usando solo il reddito come variabile.

Più interessante sembra essere un movimento di economisti che vuole uscire dal ristretto campo materialista in cui l’economia si è chiusa ed è stata confinata negli ultimi due secoli. Economisti che ritengono che, per saper parlare di economia, bisogna non solo saper bene amministrare, ma sapere entrare nelle motivazioni profonde dell’animo umano. Questa branca dell’economia è stata chiamata, in maniera provocatoria, economia della felicità. Il primo economista contemporaneo a cercare di indagare il rapporto tra felicità e reddito fu Easterlin che, conducendo un esperimento su migliaia di persone in differenti paesi del mondo, scoprì che fino a che le persone non dispongono circa di 10000 euro annui, un aumento del reddito ha un effetto positivo e stabile sulla felicità individuale; oltre questa soglia indicativa il reddito non sembra avere che effetti temporanei sulla felicità percepita. Questa soglia, ben superata dai paesi del Nord, sembra ancora lontana per molti altri. A livello medio, si può dire che ci siamo quasi. Il punto è capire che fare dopo. Gli appetiti umani preferiranno sempre una maggior ricchezza, seppure questa abbia un effetto non particolarmente positivo sul proprio benessere, mentre una scelta di lungo periodo consiglierebbe, almeno nella nostra parte di mondo, un cambiamento di prospettiva, cercando di conciliare il mercato e altri aspetti della vita. Diventano dunque attuali le parole di Gandhi: «La Terra – disse una volta – ha risorse sufficienti per soddisfare i bisogni di tutti, ma non per soddisfare l’avidità di pochi».