In città come a scuola

di Panebianco Fabrizio

In questo inizio di secolo la popolazione urbana mondiale si è assestata ormai sopra il 50% del totale degli abitanti del nostro pianeta. La stragrande maggioranza dei giovani crescerà in questi straordinari prodotti dell’evoluzione culturale, dove da millenni si svolge il fulcro della vita sociale, economica e politica, dell’innovazione, delle tappe fondamentali della storia. La forza di attrazione delle città è enorme. Da una parte i cambiamenti nelle strutture economiche (industriali prima, terziarie poi) portano a incentivare l’agglomerazione di persone nello stesso luogo. Le differenze tra le varie nazioni nei tassi di urbanizzazione dipendono, di fatto, dalle differenze di industrializzazione e dai diversi mix geografici, ma la tendenza è globale e, pare inarrestabile. La scelta di spostarsi fuori dall’area metropolitana è un lusso che non tutti possono permettersi, e che, pur nelle possibilità, pochi farebbero, compreso chi scrive, per motivi legati all’attrazione che la vita cittadina provoca in molte persone.

Le città sono anche il primo approdo di chi cambia nazione. I migranti sono ovviamente attratti dalla città perché è maggiore la possibilità di trovare un primo lavoro in assenza di reti informali. È nelle città che si possono cogliere le migliori opportunità per la ricerca di una vita migliore; è nelle città che si trovano i membri del proprio gruppo precedentemente migrati, ed è quindi possibile rendere meno traumatico il cambiamento, riproducendo un contesto familiare. Pensiamo ai condomini «vecchia Milano» che riproducono le case di corte di campagna, ma sviluppate in altezza. Questo fenomeno di agglomerazione, presente da sempre nelle città italiane di immigrazione, e ancora più diffuso nelle metropoli estere, produce due importanti fenomeni dalle conseguenze importanti per le opportunità di chi in città ci vive: una progressiva polarizzazione della popolazione cittadina, e un’importanza crescente del quartiere.

In particolare, in una città è molto facile avere sacche di povertà più dolorose in quanto confrontate con il generale benessere della vita intorno. Povertà non intesa solamente come mancanza di reddito, ma come impossibilità di usare bene le proprie carte (forza lavoro, istruzione, connessioni sociali) per poter decidere di vivere liberamente una vita soddisfacente. Non si tratta, quindi, solo di persone ammassate in appartamenti insalubri peràridurre i costi dell’affitto. In questo senso le città da sempre sono stati ambienti in cui la povertà si trasforma spesso in miseria. Si tratta dell’amplificazione di questi effetti, dovuti al fatto che in città persone simili vivono vicine, determinando quegli effetti di quartiere che tendono a creare comunità territorialmente omogenee. Questa vicinanza crea maggiore omogeneità nelle connessioni sociali tra le persone, con la conseguenza di amplificare gli effetti della segregazione. Gli effetti di quartiere, molto forti in metropoli estere, sono ancora relativamente poco presenti in Italia. Le città italiane, se confrontate con alcune città estere, presentano infatti ancora elevati livelli di mix economico e sociale. Per fare un esempio, a Milano anche in quartieri a fortissima presenza di immigrati, il mix sociale è elevato e, tuttora, una via come via Padova, presenta palazzi di classe media e molto ben tenuti a fianco di condomini insalubri. Questo previene la creazione di bombe sociali, come la banlieue parigina e di Bruxelles. Per questo stesso motivo in Italia non siamo abituati come altrove a politiche mirate sul quartiere, poiché i quartieri risultano finora relativamente problematici.

In questo senso occorre tenere l’occhio vigile su un’istituzione che ha contribuito a tenere la situazione dei quartieri sotto controllo: la scuola. In Italia la scuola contribuisce ancora a livellare in parte le differenze sociali delle famiglie di provenienza. Questo però fintanto che nelle scuole sono presenti alunni provenienti da famiglie eterogenee. Questo livellamento ha due effetti. Il primo, positivo, è quello di riuscire ad aiutare i ragazzi proveniente daàfamiglie in difficoltà. Il secondo effetto, però, è un livellamento in basso delle potenzialità degli alunni bravi o provenienti da famiglie che forniscono elevato supporto. Questo livellamento in basso viene vissuto come un limite e quindi porta alcune famiglie a cercare sempre più di cambiare scuola, cercando scuole migliori. L’effetto, nel lungo periodo, è quello di creare scuole di serie A e di serie B. Il passo successivo, come avvenuto altrove, sarà che le famiglie cominceranno a scegliere la residenza in base alla qualità delle scuole, portando anche a una segregazione abitativa. Non esistono ovviamente facili soluzioni, ma occorre trovare i modi per incentivare le famiglie ricche o quelle con maggiori capacità di supporto ai figli a rimanere nelle scuole di quartiere. Per far questo però ogni scuola deve rispondere in maniera propria alle esigenze del quartiere in cui vive. In questo senso il dibattito si sposta sul grado di autonomia delle scuole, sulla possibilità o meno di scegliere gli organici migliori rispetto ai propri bisogni, ecc. Il recente dibattito sulla riforma della scuola verteva su questi argomenti ma pochi, da entrambe le parti, ne hanno percepito la rilevanza sul futuro delle nostre città. È purtroppo prevalsa una contrapposizione ideologica, dimenticando, come sempre, che il mondo è così complesso che le risposte semplici non sono quasi mai quelle efficaci.

Fabrizio Panebianco
Università Luigi Bocconi, Milano