Fuori e dentro il nido

di Tuzzi Micol

La mia esperienza lavorativa è iniziata presto, quando ero ancora ragazza e frequentavo il liceo: promoter, cameriera, fornaia sono solo alcune delle occupazioni più o meno saltuarie che ho svolto a partire dall’estate in cui avevo 17 anni, per arrotondare prima e per mantenermi poi.

Era la metà degli anni ’90. Tangentopoli aveva appena fatto piazza pulita della vecchia classe politica e stava cominciando la «storia italiana» del celebre cavaliere destinata a durare un ventennio. Il lavoro, tuttavia, non mancava. Una ragazza volenterosa poteva trovare occupazioni di ogni tipo, alcune delle quali anche ben pagate, regolarmente contrattualizzate a tempo determinato o al limite in regime di «collaborazione occasionale».

Ciò che guadagnavo – assieme alla borsa di studio – mi consentiva di pagarmi tutte le spese e avere un’autonomia economica rispetto alla mia famiglia di origine. E mi permise, a soli 18 anni, di intraprendere la prima convivenza con un compagno di vita.

Ricordo molto bene quegli anni: una cameriera part-time e un magazziniere a tempo pieno (questa era l’occupazione del mio compagno dell’epoca) potevano permettersi di vivere in un

bilocale, disporre di un’auto e un motorino, pagare un’iscrizione all’università, andare in vacanza tre settimane all’anno e pagare tutte le spese quotidiane, senza neanche stare troppo attenti a tener dietro ai conti. Erano anni spensierati, in cui pensavamo che la vita sarebbe stata per noi tutto un migliorare. Personalmente mettevo un po’ di soldi da parte, non dimenticavo di divertirmi e progettavo – finiti gli studi e trovato un lavoro più stabile – di mettere al mondo molti figli.

Un contratto co.co.co

Nel 1999 ebbi la prima sorpresa. Il primo lavoro attinente alla mia formazione universitaria (pedagogia) fu un contratto co.co.co. da educatrice di nido per il Comune di Casalecchio di Reno. Quando lo mostrai a mio padre, mi disse che secondo lui mi avevano truffata, perché una cosa del genere lui non l’aveva mai vista e in Comune si entra solo per concorso. Mi portò dal suo commercialista per fare una verifica e, con nostro stupore, il tutto si rivelò perfettamente regolare: era una delle prime «collaborazioni coordinate e continuative» figlie del pacchetto Treu del 1996. In pratica, l’ultimo dono del centrosinistra durante un breve interregno; subito dopo ritornò al governo il Cavaliere.

Mi iscrissi al sindacato, prima tessera NIdiLCgil. Col NIdiL* facemmo battaglie e conquistammo diritti per i lavoratori co.co.co. Ottenemmo il congedo di maternità obbligatoria retribuita, il riconoscimento dell’indennizzo in caso di infortunio sul lavoro, richiedemmo la malattia pagata. Ci sembrava folle che un governo di centrosinistra avesse legalizzato contratti capestro come i co.co.co., ma avevamo l’impressione che, con un po’ di impegno e di lotta, i diritti avrebbero potuto essere riconquistati. Non feci a tempo a finire di lottare però, che il Comune di Casalecchio decise di appaltare il servizio in cui lavoravo a una cooperativa e così – sempre grazie a NIdiL – mi trovai a esercitare la mia professione con il Contratto Nazionale Collettivo delle Coop Sociali. Così entrai nella Cgil Funzione Pubblica.

In quegli anni (dal 2000 al 2006) conobbi l’umiliazione di lavorare fianco a fianco alle colleghe dipendenti del Comune, che svolgevano il mio stesso identico lavoro con un terzo di stipendio più di me e il doppio dei diritti… Ma ero ancora ottimista: i concorsi pubblici non mancavano, la cooperativa aveva a cuore la formazione professionale dei suoi educatori e così – mi dicevo – dovevo soltanto attendere l’uscita di un concorso pubblico, il quale non tardò ad arrivare.

Tra il 2004 e il 2005 partecipai a 5 concorsi, vincendone 3. L’incarico che accettai fu quello che tutti all’epoca ritenevamo più sicuro e prestigioso: la pedagogista presso il comune di Bologna.

Stipendio fisso, salario fermo

Ricordo il 2006 come l’anno più bello della mia vita: avevo 29 anni, vivevo sola già da 3 e il cospicuo aumento di stipendio dovuto al passaggio sia di livello che di contratto, assieme alla sicurezza di un lavoro a tempo pieno e indeterminato, potevano consentirmi, finalmente, di mettere su famiglia con il nuovo compagno che avevo conosciuto 6 anni prima. La felicità era a portata di mano, così come lo fu l’arrivo del nostro bambino, nato il 2 ottobre del 2008.

Come sono cambiati, da allora, la mia vita e il mio lavoro? In maniera radicale e sicuramente in peggio.

Dal 2010 il ministro Brunetta ha bloccato tutto per i dipendenti pubblici: dal rinnovo del contratto al turnover del personale cessato. Il lavoro si è appesantito, complessificato e i salari sono rimasti tali quali. Oggi, nell’aprile 2016, io percepisco ancora lo stesso stipendio di quando entrai in Comune dieci anni fa, nel gennaio del 2006. Il settore di cui mi occupo – l’educazione/ istruzione dei bambini più piccoli – è stato poi oggetto di accanimento, per quanto riguarda i tagli e le depauperazioni, dal governo Monti in qua, qualora non fosse bastata l’opera privatizzatrice inaugurata da Berlusconi.

Sono anni che vengono stanziate risorse zero sia nel fondo nazionale per gli asili nido che in quello per la non autosufficienza. Tutto questo, nel mio lavoro, significa cercare ogni giorno di rispondere a bisogni crescenti in un contesto di risorse calanti. Le richieste ai nostri servizi sono oramai le più disparate, per cui nel tentativo di rispondere ai bisogni espressi dal cittadino siamo chiamati a una flessibilità sempre maggiore. Altro che «i fannulloni del pubblico impiego»: le ore settimanali di lavoro non ci bastano a far fronte alle richieste, peraltro sempre più complesse e comportanti il possesso di una professionalità sempre più vasta. E la stessa cosa posso dire della mia esperienza di delegata sindacale RSU. Anni fa firmavo accordi acquisitivi, oggi è già tanto se riesco a tappare delle falle del sistema o a offrire tutela individuale a un lavoratore che si trova nei guai.

Giocarsi il tutto per tutto

Se dovessi dire come mi sento oggi, in poche parole, direi «a giocarmi il tutto per tutto». Se non poniamo argine alla deriva culturale, politica, sociale cui ci hanno condotto oltre 20 anni di politiche neoliberiste credo che ci rimarrà ben poco in cui sperare per noi stessi e ancor meno per il futuro dei nostri figli. Il Jobs act e la Buona scuola rappresentano solo il colpo di grazia inferto a un sistema mandato in sofferenza già da anni. Lo stato sociale, assieme al suo patto di solidarietà tra cittadini, sta per andare definitivamente in frantumi. E con esso si sgretola anche la capacità di rappresentanza del sindacato, sempre più distante dalla base di lavoratori che lo compone, sempre più in affanno nel ricondurre all’unità interessi e bisogni che appaiono oramai diversissimi e disarticolati, quasi inconciliabili.

La sfida di oggi diviene qualcosa di più alto: la capacità di ricollegare ciò che nel quotidiano capita nei luoghi di lavoro alle dinamiche più generali e ai processi politici e sociali in atto a livello nazionale ed europeo. Riavvicinare le persone recuperandole all’interlocuzione col sindacato e con la politica, vincendo quel senso di ineluttabilità che sta portando molti persino a smettere di credere possibile che il loro impegno attivo possa in qualche maniera incidere. Io nonostante tutto non credo ancora che «tanto sia tutto inutile». Chi lotta può perdere, ma perde di sicuro chi a lottare nemmeno ci prova.

Micol Tuzzi
educatrice in un nido di infanzia, Bologna
delegata RSU

(*) NIdiL-Cgil (Nuove Identità di Lavoro) è una categoria sindacale, nata nel 1998, per dare voce e rappresentanza ai lavoratori atipici, a chi lavora senza tutela e senza una rete di protezione sociale.