Il governo del territorio

di Cortese Fulvio

Disciplina giuridicamente complessa

Una materia difficile

Governo del territorio è l’espressione che la Costituzione italiana utilizza per designare uno dei possibili ambiti di competenza legislativa «concorrente» dello Stato e delle Regioni: allo Stato, in particolare, spetta la potestà di definire i principi fondamentali di tale materia, mentre alle Regioni è riconosciuto il potere di sviluppare una disciplina di dettaglio opportunamente differenziata, a seconda delle peculiarità della dimensione di riferimento (art. 117, comma 3, Cost.).

Il fatto che l’ordinamento giuridico italiano si preoccupi di fornire una risposta all’esigenza di governare il territorio non risponde soltanto a una necessità strutturale e tipica di ogni «stato»: per la nostra Costituzione, la proprietà è riconosciuta e garantita dalla legge, la quale, se è chiamata a disciplinarne i modi di acquisto e di godimento, è anche chiamata a stabilirne i limiti, in modo tale da assicurarne la più completa accessibilità e, soprattutto, l’utilità sociale. Tale profilo impone ai legislatori, statale e regionale, di osservare un primario principio di salvaguardia territoriale, alla stregua del quale non sono ammesse modificazioni o mutazioni territoriali che non siano state previamente disciplinate e pianificate.

L’apparente chiarezza di questa distribuzione di competenze è, tuttavia, travolta, sul piano operativo, dalla sussistenza di intrinseche difficoltà.

In primo luogo, il «governo del territorio» è materia che ricomprende sia l’urbanistica sia l’edilizia: le valutazioni che i legislatori, statale e regionale, devono compiere sono in tal senso molteplici e complesse, poiché non si tratta soltanto di definire quali siano i tempi, i modi e gli obiettivi dell’ordinata pianificazione dell’attività di trasformazione territoriale, bensì anche di stabilire quali siano i principi cui si deve conformare l’esercizio, da parte di ciascun proprietario, del diritto di costruire che costituisce parte essenziale del proprio bagaglio giuridico.

In secondo luogo, poi, si tratta di settore che coinvolge inevitabilmente anche l’assetto del paesaggio, di un bene fondamentale che se, per un verso, la stessa Costituzione affida, unitamente al patrimonio storico-artistico della Nazione, alla tutela della Repubblica unitariamente intesa (art. 9 Cost.), per altro verso è prevalentemente riguardato da valutazioni concernenti la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ossia funzioni la cui regolazione spetta esclusivamente allo Stato (art. 117, comma 2, Cost.) e il cui concreto atteggiarsi non è estraneo a vincoli di carattere sopranazionale (internazionale o di diritto europeo). Non è certo, quindi, che Stato e Regioni siano così sicuri dei confini che essi devono reciprocamente osservare.

In terzo luogo, inoltre, non deve trascurarsi la circostanza che se è vero che il potere di gestire questa materia sotto il profilo amministrativo dovrebbe essere attribuito, in via preferenziale, ai Comuni (e così effettivamente è, anche dal punto di vista storico: sono i Comuni che si occupano di adottare l’atto più significativo del governo territoriale, il «vecchio» piano regolatore generale, oggi variamente denominato), è altrettanto vero che una simile allocazione di funzioni può essere derogata, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, laddove l’esercizio unitario di uno specifico compito amministrativo sia meglio svolto da un altro ente territoriale (art. 118, comma 1, Cost.). Pertanto, non solo sono tante le funzioni amministrative di pianificazione territoriale che competono a enti diversi dai Comuni (Regioni e, in parte, Province); sono numerosi anche i casi in cui è direttamente lo Stato ad «attrarre» o ad «assorbire» spazi notevoli di governo, specialmente laddove si attribuisca il potere di svolgere funzioni che necessariamente richiedono una considerazione generale e uniforme del territorio nazionale (è il caso, ad esempio, delle «grandi opere» pubbliche di interesse strategico, la cui localizzazione, evidentemente, influisce in modo determinante sullo spazio di manovra di Regioni, Province e Comuni). Non è un caso, in proposito, che la Corte costituzionale abbia da tempo imposto agli enti pubblici territoriali coinvolti in questo settore l’osservanza di un fondamentale principio di leale collaborazione nell’esercizio delle rispettive prerogative, sia legislative sia di materiale governo.

In quarto luogo, infine, occorre evidenziare il fatto che i complessi rapporti competenziali così descritti sono tanto più aggravati da un mutuo sovrapporsi e rincorrersi di leggi approvate in tempi (anche) molto diversi tra loro, secondo logiche e ispirazioni che sono riconducibili a periodi storici risalenti oppure a iniziative di riforma talvolta radicalmente opposte o inconciliabili. Si rammenti, in proposito, che, allo stato dell’arte, i «principi fondamentali» che lo Stato ha il potere di stabilire non si collocano in un unico atto normativo; essi si trovano realmente sparsi in diverse leggi, la più importante delle quali è stata approvata nel 1942 e rappresenta tuttora l’ossatura sulla quale poggiano tutti gli interventi disciplinari regionali. Difficile stupirsi, quindi, se la vera sede, oggi, della disciplina del governo del territorio (inteso, come si è detto, come sommatoria complessa e irriducibile di urbanistica, edilizia e paesaggio) è il diritto delle Regioni e se, proprio per questo, una vera esperienza di concreto federalismo si è data, il più delle volte, nel presente settore, nel quale i governi territoriali hanno avuto occasione di sperimentare, di volta in volta, modelli organizzativi e gestionali del tutto innovativi e originali.

Pubblico e privato a confronto

Lo snodo più complesso del governo del territorio, però, è costituito dal rapporto che esiste tra il ruolo del potere pubblico e il ruolo dell’autonomia privata.

Il principio di salvaguardia sopra brevemente richiamato impone una presenza pubblica; ma tale presenza è stata storicamente variabile, a seconda del modo con il quale il legislatore ha concepito il regime gestionale delle trasformazioni territoriali, tradizionalmente affidato a un modello di pianificazione gerarchica, da attuarsi in modo privilegiato attraverso le regole dell’azione amministrativa, quindi progressivamente coinvolto da profonde rimeditazioni, specialmente per quanto concerne la possibilità che i privati partecipino in modo fattivo all’attuazione dei principi della pianificazione, risultandone in parte corresponsabili e ottenendo, quale contropartita, una maggiore flessibilità o un’ulteriore possibilità di «concordare» con l’amministrazione i contenuti stessi dei propri progetti edilizi.

Il sistema, in questa prospettiva, ha guadagnato flessibilità ed effettività, prestandosi a soluzioni perequative, a pianificazioni «contrattate», a discipline territoriali maggiormente adeguate alle esigenze delle singole comunità; esso si è spinto anche verso modelli gestionali di tipo societario, che consentono, ad esempio, ai Comuni di attirare capitali privati e di «acquistare» le porzioni di territorio che maggiormente richiedono interventi di riqualificazione o di destinazione «sociale» e che, senza gli opportuni incentivi, rischierebbero di rimanere esclusi da qualsivoglia fenomeno di rinnovamento, di promozione e di crescita.

Ma non si deve sottovalutare, oltre a ciò, la circostanza che simili manifestazioni di flessibilità e di elasticità si prestano sempre meglio a ricevere e a diffondere modelli amministrativi improntati alla partecipazione, alla decisione condivisa, alla collaborazione tra privati proprietari ed enti pubblici, alla pianificazione sinergica di obiettivi di più ampio raggio (quali possono essere, attualmente, gli scopi della «pianificazione strategica», ossia di una politica pubblica di maggiore dimensione, che vuole coinvolgere e coordinare altre politiche pubbliche territoriali – tra le quali anche quella dell’urbanistica – verso risultati di maggiore efficienza, specie in considerazione dell’effetto che scelte o questioni non strettamente locali possono avere sulla reale portata e sul concreto successo di opzioni apparentemente delimitate).

È difficile, al momento, svolgere un bilancio oggettivo della tenuta complessiva di un sistema così articolato, né è possibile traguardare con certezza i lineamenti delle evoluzioni future. Ciò nonostante, il tentativo di recuperare una relazione collaborativa tra pubblici poteri e privati cittadini sembra doversi salutare con grande ottimismo, se non altro per la correlata diffusione, a esso strettamente legata, di una cultura di cittadinanza attiva e di partecipazione, anche al di là dell’interesse economico del singolo costruttore o investitore, e nell’ottica di favorire, con esiti sempre più soddisfacenti, la concezione che, sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale, considera i cittadini come «risorse» di un’amministrazione (nel nostro caso territoriale) materialmente democratica.

Fulvio Cortese, ricercatore, facoltà di giurisprudenza Università di Trento