Uno studente nella rosa dei venti

di Conte Matteo

La crisi della scuola è un fatto ormai universalmente riconosciuto. Ma sono diversi i motivi addotti per spiegarla o le declinazioni che se ne fanno per tentare di risolverla, poiché l’entità, la portata e persino la composizione della «crisi» variano a seconda dell’ideologia, dell’appartenenza professionale e culturale di chi la esamina. Per questo le considerazioni che seguono sono frutto di un percorso formativo personale, che cerca di evidenziare quali dovrebbero essere le funzioni della scuola e perché esse vengono disattese.

Compiti

Lo scopo della scuola dovrebbe essere la formazione culturale e personale dei futuri membri di una società attiva, come ebbe a sostenere Don Bosco, che non si prodigò certo in lodi per lo stato unitario e l’insegnamento dovrebbe tendere prima di tutto all’educazione del buon cittadino. Ci si educa alla cittadinanza attraverso la cultura, primo collante di un popolo, che dovrebbe diventare lo strumento, nelle mani di ciascuno, atto a rendere comprensibili i meccanismi che regolano il mondo e talvolta per cambiarli, qualora si dimostrassero manchevoli. Senza cultura uno studente si troverebbe, come di fatto accade, proiettato in un’attualità che non capisce, a fare i conti con un passato che non conosce, su cui si fonda un futuro che lo spaventa. Non è un compito facile costruirsi un proprio bagaglio culturale, pertanto non può essere unicamente la scuola a fornirlo, sta alla sensibilità di ciascuno decidere se e come espanderlo; quello che il sistema scolastico dovrebbe fare è assicurasi di stimolare la curiosità di chi la frequenta e avviarlo alla conoscenza.

Incrostazioni

Sembra invece che la scuola sia intesa come l’unico luogo in cui sia possibile alimentare e accrescere il sapere, e dunque in obbligo di fornire una serie di nozioni irrinunciabili, trasformando così gli studenti in uccelli ammaestrati a ripetere nient’altro che concetti vuoti di senso. Per questo motivo si sono creati dei miti totalmente scollati da quello che è il reale bisogno di chi studia e del tutto intoccabili, e non si contano i Caifà pronti a strapparsi le vestiàqualora si ventilasse la proposta di ridimensionare e rinnovare le priorità del sistema. Ad esempio, si percepisce una certa arroganza nel ragionamento secondo il quale nessuno sentirebbe il desiderio di leggere i «Promessi Sposi» spontaneamente (magari soltanto dopo aver superati i cinquant’anni di età) e dunque occorre al caso seviziare orde di quindicenni, che assoceranno per tutta la vita la lettura del Romanzo a un sermone paternalistico in cui non si riconoscono. Si assume come postulato che gli studenti, una volta usciti, non potranno e non vorranno imparare certe cose e perciò li si forza su programmi obsoleti; non è forse questa un’ammissione di fallimento da parte del sistema?

Sviste e proposte

I miglioramenti che si potrebbero attuare nell’immediato sono numerosi. Per quello che riguarda la letteratura sarebbe ora di uscire da un nazionalismo culturale che costringe a studiare l’Ottocento, secolo del romanzo moderno, e ignora completamente Balzac, Dostoevskij, Tolstoj, Melville che italiani non sono. Quante ore si passano ad analizzare i versi di Leopardi nell’apatia generale, e poi si resta basiti se due italiani su tre non leggono nemmeno un libro all’anno? Se studiando l’avvento del romanzo si leggesse «Il conte di Montecristo» invece delle «Ultime lettere di Jacopo Ortis», non si studierebbe quella letteratura a cui si riferiva Croce, ma probabilmente le librerie sarebbero più affollate il sabato pomeriggio. Sul fronte autoctono, poi, le assenze ingiustificate non si contano; perché nelle antologie non c’è spazio, o ce ne è poco, per Calvino, Buzzati e soprattutto Pasolini? Fu proprio quest’ultimo, nelle «Lettere Luterane» a proporre la più innovativa delle migliorie da apportare alla scuola: tante letture liberamente commentate. Solo così si potrebbe scardinare quella concezione penitenziale e penitenziaria della letteratura così tipicamente italiana che valuta i capolavori in base a quanto ha sofferto l’autore a scriverli e i lettori a sorbirseli.

A parte la Cina, dove è finito Corto?

Per quello che riguarda la storia, sarebbe ora di rinunciare a un po’ di eurocentrismo per capire meglio le origini e il passato di culture con cui ci si trova a fare i conti nell’attualità. La Cina in particolare e l’Asia in generale sono pressoché introvabili nei manuali di storia, salvo quando si tratta di colonialismo, mentre l’attualità recente viene così fedelmente riassunta nella frase di Napoleone: «Lasciate dormire la Cina, perché al suo risveglio il mondo tremerà».

Infine c’è una materia che non solo presenta delle lacune, ma manca del tutto dai programmi: l’educazione civica. Con questo non si intende la spiegazione dei meccanismi che regolano lo Stato o altri tecnicismi amministrativi, bensì la lettura di testi edificanti. Un inizio potrebbe essere lo studio dei primi dodici articoli della Carta Costituzionale per poi ricollegarsi a temi più generali; sarebbe possibile, per esempio, spiegare e insegnare il pacifismo integrando l’articolo 11 con i discorsi di Gandhi e magari aggiungendo il «Trattato sulla tolleranza» di Voltaire. Il materiale a disposizione abbonda anche sul versante italiano, come gli articoli e i libri di Tiziano Terzani (altro illustre desaparecido dal panorama culturale scolastico e non solo).

Indubbiamente tutte queste modeste proposte si basano sul presupposto che vi sia un autentico desiderio da parte delle istituzioni di realizzare una scuola funzionante. Ma così non è, perché poi ci sarebbero in casa nostra cittadini attenti e vigili sull’operato di chi amministra la cosa pubblica; come puntualizzò a suo tempo Che Guevara un popolo che non sa né leggere né scrivere è un popolo facile da governare. Tuttavia anche se il sistema fosse destinato a non cambiare mai, non si può non avere fiducia nei singoli docenti e sulla loro capacità di incidere positivamente sul futuro dei loro alunni; potrebbe sembrare una speranza vana o quantomeno puntata al ribasso, ma, come ricordò Bruno Tinti, si deve fare tesoro di una grande lezione che viene dai fumetti di Hugo Pratt: Corto Maltese, che non ama la vita tranquilla, è finito in compagnia di un rivoluzionario dancalo, che è un omino piccolo ed esile, vestito con un gonnellino e armato di un vecchio fucile Enfield; ha anche una capigliatura afro e una faccia fiera. Nel susseguirsi degli eventi i due finiscono asseragliati in una terrazzina, in cima a un minareto, sotto c’è una folla di soldati dervisci super armati con mitragliatrici, fucili moderni e fermamente intenzionati ad ammazzarli. Corto ha un sigarillo in bocca e mormora: «mmmhhh, la faccenda si mette male. Certo che morire per niente…» e allora il compagno gli risponde: «No Corto, non per niente; la rivoluzione può cominciare anche su un minareto».

Matteo Conte, diplomato presso il liceo scientifico «Rogazionisti» di Padova nell’A.S. 2010/2011, studente presso la facoltà di giurisprudenza università di Trento