Luci fendenti

di Camata Alberto

Scrivo dopo la due giorni che abbiamo organizzato come Macondo sul tema “Scomode figlie di Eva, uno sguardo diverso. Parola, Spiritualità, Politica, Libertà: femminile plurale?”, abbiamo avuto modo di lasciarci guidare nei quattro momenti dell’incontro (come scritto nel titolo: Parola, Spiritualità, Politica e Libertà) da quattro donne che con la loro semplicità, tenerezza, chiarezza e determinazione ci hanno aperto delle fenditure nella coscienza e non potrà più essere quella di quando ci siamo presentati all’incontro.
Riflettendoci ora, rivedendo i loro volti che non hanno niente dell’eroico hollywoodiano, ci hanno dimostrato quello che deve guidare ognuno di noi che aspira a un mondo migliore: la passione per la comunità.

Il primo giorno Silvia Zanconato e Antonella Anghinoni ci hanno offerto i loro studi e la loro ricerca per introdurci in questa scomodità. Silvia ci ha ricordato che il racconto mitico (in questo caso il racconto biblico) è il fondamento di una società. Il mondo occidentale ha le sue radici nella Bibbia che lo si voglia oppure no, e con questo racconto dobbiamo fare i conti per capire in che società viviamo.

Il libro Genesi, che narra la creazione del mondo, spiega che Dio creò Adam (che andrebbe tradotto con umanità), nome che in breve è stato tradotto con uomo, non come sinonimo di essere umano, ma come maschio. Il maschio si sentiva solo, così Dio voleva dargli un aiuto e plasmò gli animali affinché desse loro un nome, ma “non trovò un aiuto che gli fosse simile”. Poi dalla costola Diò plasmò l’essere che Adam attendeva e Adam stesso la chiamò donna. Questo primo tentativo di porre ordine raccontato in Genesi si è poi riflettuto nella società, è il maschio ad aver dato un ordine al mondo, è lui ad aver dato il nome a tutto, anche alla donna. Quindi la donna non è riuscita ad autodeterminarsi, tanto che nell’assemblea è scaturita la riflessione se il suono a cui rispondiamo è il nostro nome (imposto da altri) o è il suono con cui ci vogliamo sentir chiamare. Riflessione questa scaturita dal racconto che Silvia ci ha proposto di Ursula Le Guin “She Unnames them”, dove si racconta come gli animali hanno reagito alla nomina dei loro nomi a opera di Adamo, mentre nella seconda parte del racconto Eva racconta che cosa c’è in un nome: è un modo per controllare e classificare gli altri. Eva allora decide di restituire i nomi, ovvero rifiuta le relazioni di potere che le nomine hanno generato. Pone uo sguardo sul mondo dove tutto dev’essere riconsiderato in una nuova prospettiva; rifiutando il nome, Eva sta scegliendo la sua vita.

Antonella Anghinoni ci ha offerto le peripezie di quattro donne coraggiose, ma ultime tra gli ultimi: vedove o prostitute. Tamar, Rachab, Rut e Betsabea ci hanno fornito una chiave di lettura comune: nella loro diversità, nella drammaticità della loro vita hanno un filo rosso che le lega: hanno sostituito l’io con il noi. Le loro esistenze sono state un servizio per salvare gli altri. Donne scaltre, determinate, ironiche che non hanno esitato a mettere a rischio la loro vita per la salvezza degli altri: erano disposte a dare la vita per salvare vite.
Avremmo potuto chiudere la fenditura che Silvia e Antonella ci avevano aperto nella coscienza per portare nuova luce rifugiandoci nell’idea che ci sono stati proposti dei racconti, figure mitiche, (seppur volutamente tenute ai margini dalla narrazione maschilista) ma come gli eroi, hanno vite che non possono essere imitate.

Peccato che poi abbiamo incontrato Mariangela Di Gangi e Gulala Salih e le scuse per fuggire alla responsabilità si sono dimostrate false.
Mariangela dal quartiere Zen di Palermo ci ha portato la sua presunzione iniziale di sapere che cosa serviva alla gente che vi viveva (è l’errore che facciamo tutti, sappiamo perfettamente che cosa serve agli altri, in verità non sappiamo neppure quello che serve a noi per essere felici), di dover buttare preconcetti e schemi e diventare allieva delle vite altrui. Così come Gulala che ci ha riportato le ferite della gente curda e la schiena diritta della lotta partigiana che ormai i media non ci raccontano più, quasi che i drammi altrui debbano essere vissuti solo a livello emozionale e non sentirli nelle viscere. Ebbene queste due donne, con la loro appassionata e asciutta narrazione, non hanno mai nominato loro stesse, loro erano solo voce di un popolo, loro erano sparite per lasciare posto alle ragazzine del quartiere Zen o alle migliaia di persone gasate o annientate e a coloro che stanno lottando per la dignità, per la vita. Ecco che la forza biblica delle quattro donne dimenticate nel testo si son fatte presenza, la presenza che accomuna le scomode figlie di Eva e quel grido vibrante che non ci deve far dormire finché non ci sarà giustizia: Jin Jiyan Azadi (donna vita libertà).

Alberto Camata

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