Diversità di genere: il femminile

di Peyrot Bruna

Inabissarsi per risorgere

Diversità, nella lingua italiana significa quel qualcosa che distingue, che rende unici, che permette di essere riconosciuti da segnalazioni immediate. La diversità di genere riguarda la grande divisione dell’umanità in maschile e femminile. Solo dentro questi due grandi universi possiamo collocare la presenza di donne e uomini. Il maschile e il femminile hanno diversi modi e diversi simboli per manifestarsi. Ogni cultura ne ha un vasto catalogo che sarebbe interessante comparare: pensiamo alle espressioni di appartenenza alla terra, elemento tipicamente legato alla creatività femminile, oppure al fuoco, elemento a sua volta tipicamente maschile, lo Ying e lo Yang delle tradizioni orientali, il sole e la luna e così via.

I territori del maschile
e del femminile

Fra i tanti approcci al maschile e al femminile, mi sembra interessante riprendere l’esperienza della psicanalisi e dell’antropologia, spesso scienze umane confinanti, che attraverso ricerche e comparazioni hanno evidenziato, mi sembra, almeno due aspetti importanti per il nostro dibattito.
Il primo fatto è che essere donna o uomo non è solo un fatto genetico, legato alla differenza sessuale, anche se questa incide sull’evoluzione storica. Non è infatti indifferente che la donna, generatrice di vita abbia bisogno di riguardo nel periodo della gravidanza, di essere “protetta” mentre contribuisce a incrementare la catena generazionale. Né è indifferente che l’uomo si sia dedicato alla caccia per recuperare risorse nutritive per sé e la prole che la donna riproduceva. Tuttavia, non si tratta solo di questo.
Psicanalisti e antropologi, o meglio, soprattutto psicanaliste e antropologhe attente alla diversità di genere, hanno evidenziato come il maschile e il femminile siano appartenenti alla persona, siano dimensioni dell’identità e del pensare umano. Ancora più nello specifico, si può dire che non si è in presenza di un territorio separato di competenze spettanti ora al pensiero femminile ora a quello maschile, oppure in una spartizione dei contenuti psichici in cui, secondo lo stereotipo classico pensiero e spirito siano preponderanti nell’uomo e pulsioni, emozioni e sentimento nella donna.
I complessi archetipi maschile e femminile, in altre parole, non si spartiscono a metà i contenuti dell’attività psichica, ma sono davvero due modi differenti di pensare e di “sentire” la realtà interiore ed esterna. La cultura occidentale, e la quasi totalità delle culture del pianeta, ha però innestato su queste due dimensioni un sistema di valore-disvalore che ha emarginato il femminile nell’oscuro e ha fatto sì che ciò che vive nella coscienza della donna sia stato relegato nell’inconscio dell’uomo e viceversa. Per esempio mentre si parla comunemente dei sentimenti delle donne e le donne stesse elaborano questa loro dimensione di ricettività profonda che investiga le relazioni interpersonali, non esiste un corrispettivo al maschile che resta legato invece a interpretare, per esempio, l’attaccamento alla professione, le capacità progettuali, le abilità tecniche ecc.
Non si tratta tuttavia, in questo contesto, a nostro avviso, di dimostrare “anche” la razionalità del pensiero femminile, quanto piuttosto di rivendicarne l’ugual valore in una differente logica.

Due modi di pensare e di sentire

La cultura occidentale ha valorizzato, come si sa, soltanto il territorio maschile basato sul logos che è ragione, conoscenza e sapere allo stesso tempo che impone un pensare logico-deduttivo: da questo consegue quello, prima di questo c’era quello, premesso questo succede di conseguenza quest’altro. Procedendo, il logos separa la realtà in parti, potremmo dire, sempre più piccole e specializzate lasciando indietro la musica di altre possibili composizioni, basate per esempio sull’analogia o la contemporaneità, un po’ come nei sogni in cui tutto è possibile.
Il pensiero femminile invece non si sofferma troppo sui particolari per descriverli. Semmai essi diventano tracce e rimandi verso qualcos’altro: un sistema di relazioni che cresce a spirale e nel suo vortice riassorbe l’oggetto da conoscere. Il pensiero femminile «non separa ma unisce e quindi non cataloga ma crea analogie; non è veloce né sempre preciso perché è attento alle variabili del percorso mentale e sembra quindi disordinato e distratto, ma può arrivare a grandi profondità proprio perché è paziente e non cerca le scorciatoie verso l’obiettivo, ma si addentra in meandri spesso oscuri dove pensieri, idée, ricordi e suggestioni si intrecciano fino a tornare alla luce con un nuovo sapere. Si tratta di un processo mentale che procede attraverso il tenere insieme invece che attraverso il separare» (Marina Valcarenghi, L’aggressività femminile, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 12).
Il pensiero femminile, in ultima analisi, prende con (in) sé e poi trasforma dal di dentro, nel buio di se stesse e poi restituisce alla luce proprio come un vero parto. Se il sole, accecando, scandaglia ogni angolo, la Luna, restituisce, con le ombre contorni sfumati e diffusi. Se il sole, come una lente o un laser, colpisce la “cosa” da sapere, la luna la “prende” nel suo languore bianco e se ne lascia pervadere.
Entrambi i tipi di pensiero, maschile e femminile, sono necessari l’uno all’altro. Sono complementari e si possono perdere l’uno senza l’altro. Se il maschile basta a se stesso si inaridisce in astruse questioni logiche, spesso avulse dalla realtà. Se il femminile basta a se stesso può avvilupparsi su se stesso, in un cerchio-specchio senza fine.

All’origine dell’emarginazione femminile

Molte domande sorgono a questo punto: constatata la differenza dei modi di pensare maschile e femminile che si fa? Si opera in vista della loro interdipendenza, e come? Del loro incontro intersoggettivo, e come? Del loro reciproco dialogare e mescolarsi, e come? Dietro ognuna di queste domande possiamo immaginare, e realizzare, un percorso. Ma dietro ancora a questo slancio nel futuro, dobbiamo porci un’ultima questione per andare alla radice del problema: perché è avvenuto che il pensiero femminile, proprio ad almeno alla metà dell’umanità è stato relegato al non-pensiero?
Parlare della subalternità storica delle donne significa affrontare l’origine della vita stessa, così come è narrata nei grandi libri della Sapienza antica: la Bibbia, il Corano, i miti greci, la Bhagavadgì­ta… In ognuno di essi si consegna alla memoria dell’umanità un’immagine che interpreta la relazione fra uomo e donna, o meglio, fra il maschile e il femminile, di cui l’essere uomo o donna sono la coniugazione – non l’unica – principale. Se esaminiamo I personaggi femminili dei miti greci (Jean Shinoda Bolen, Las diosas de cada mujer. Una nueva psicologì­a femenina, Barcelona, Kairós,1993), ognuno dei quali interpreta un possibile stato della femminilità, oppure la storia di Inanna che discese nel regno dei morti fino a farsi annullare per soccorrere il dolore della sorella per la perdita del compagno, o ancora il rimbalzo femminile fra Lilith, prima donna creata da Dio ed Eva, la donna gradita ad Adamo, vediamo che tutte queste figure femminili sembrano accettare una sconfitta prima di tornare in vita, si lasciano, in qualche modo, ridurre al silenzio.
Esse poi si ritrovano nella stessa storia dell’umanità, un percorso che vede costantemente emarginare la loro passione in movimenti di donne concrete, come le sacerdotesse che amministravano antichi riti dell’area mediterranea, dalle profetesse alle baccanti, in cui l’istintualità, l’eccesso, la forza femminile apparivano tutte insieme in periodi precisi dell’anno, come se fosse necessario circoscrivere in modo precisissimo lo spazio per questa eversione del femminile.
Sembra che questi antichi riti così come i mitologemi di Inanna, Eva, Lilith e le dee greche, rimandino a un atavico e rimosso scontro fra uomini e donne – maschile e femminile? – oltre la memoria storica collettiva possibile, alla fine del quale con il consenso delle stesse donne, perché altrimenti non si spiegherebbe la profonda interiorizzazione del “bisogno” di cedere alla sottomissione del maschile (come tanta letteratura psicanalitica documenta) o meglio, al considerarlo così scontatamente naturale per tanti secoli, alla fine di quello scontro, dicevamo, si è imposta l’egemonia maschile. Forse per catastrofi naturali, forse per garantire la sopravvivenza della specie, forse per chissà quali altre ragioni, le donne hanno accettato, come Inanna o come Demetra di inabissarsi per risorgere.
Su questo, diciamo così, possibile mitico scontro, si è innescato poi un processo storico di emarginazione periodica nella storia umana di tutto ciò che poteva offrire autonomia alle persone, uomini e donne, e che in modo particolare le donne incarnavano: forme di medicina alternativa e autogestione spirituale, fisica e politica che compromettevano il potere maschile di re e papi. Secondo Giorgio Galli questo sacrificio delle potenzialità femminili, dall’antica Grecia alla caccia alle streghe, dai misteri orfici alla nascita dello stato moderno, si è reso necessario per conservare I poteri istituzionali (Giorgio Galli, Occidente misterioso, Milano, Rizzoli, 1987), compresa la stessa nascita della democrazia greca che per funzionare doveva “dimenticare” la sommossa femminile delle origini e pertanto doveva essere confinata al mondo mitico. Quello della storia poteva accogliere solo le gesta degli eroi maschili.