Luoghi d’incontro o spazi per vendere?

di Chieregatti Arrigo

Il negozio totale

Noi siamo diventati bravi ad indicare le prospettive future su cui dovremmo costruire la vita di quelli che verranno dopo di noi. Probabilmente non conosciamo altrettanto bene la situazione di partenza, la vita che conduciamo, quali disastri abbiamo provocato, mentre il futuro sarà condizionato dalle scelte che stiamo facendo.

Stanno venendo meno le memorie e i legami che erano legati ai territori in cui siamo nati, non ci sono più legami a luoghi diversi perché tendiamo ad aggregarci a quelli che ci assomigliano. Ormai le regole della competizione toccano e condizionano anche i luoghi del nostro vivere: le città sono ormai un elenco di o pere, più o meno artistiche, i palazzi sono sempre più vuoti e questo è il segno che le nostre città sono ammalate. Se sono ammalate le città, sono ammalati i luoghi d’incontro e soprattutto le persone che dovrebbero incontrarsi.

La città così concepita è l’origine della violenza, dell’intolleranza razziale, perché in essa prevale il dominio dell’economico. Ormai la città è il luogo del negozio dove tutto viene venduto e acquistato, o messo all’asta. Non è più il luogo della concentrazione e della civilizzazione dell’individuo, o della comunità. Nei nostri paesi e ancor più nelle nostre città sono stati tolti i luoghi d’incontro e siamo obbligati ad incontrarci in luoghi anonimi, anche se ben attrezzati e forniti, disponibili sempre, a volte giorno e notte, a vendere.

I luoghi, i simboli, le rappresentazioni della convivenza umana sono state sostituite da immagini e simboli virtuali, che vediamo nelle immagini della televisione e degli spot pubblicitari. Al centro di questi simboli virtuali non esiste più la persona umana, ma l’opera dell’uomo, che viene condizionato da essa (la tecnologia), ormai senza di essa ci sentiamo perduti, non abbiamo ormai più la capacità di confrontarci tra noie abbiamo bisogno della sua mediazione.

Abbattere muri,
aprire varchi all’altro

Per questo è necessario riscoprire un modo nuovo di stare insieme. I nostri diritti sono stati identificati con ciò che possediamo, con ciò che abbiamo rinchiuso nei nostri confini, con quello che abbiamo conquistato. Mentre non valutiamo i doveri, che dovrebbero essere il segno della nostra appartenenza. Ogni esclusione del diverso, ogni allontanamento di estranei, se è necessario anche con la forza, è la dimostrazione per noi che non è opportuno e non è giusto aprire la porta a tutti. Quando invece accetteremo di aprire i nostri confini, stabiliti arbitrariamente da noi e che riteniamo fondamentali per conservare quello che abbiamo conquistato, potremo uscire dal nostro spazio virtuale, e affrontare un nuovo ecumenismo, e formulare un progetto nuovo di riconoscimento di noi stessi e degli altri. È necessario accettare una nuova solidarietà tra popoli, tra individui e creare nuovi luoghi d’incontro, un nuovo senso della città, della vita, di una vera nuova vita. I cambiamenti a cui siamo ormai obbligati non avverranno però a tavolino, ma accettando le indicazioni concrete della vita.

Nuovi valori e nuove speranze per vivere

Il nuovo senso del vivere per il momento non potrà partire da coloro che sono sfruttati, che sono impegnati a trovare un po’ di cibo per non morire, ma da coloro che scoprono una logica di vita al di là dell’economico, da coloro che accettano di sfidare i dogmatismi e i separatismi e che hanno coscienza dello sfaldamento della socialità. È necessario imparare la cultura dell’ospitalità, della cura, della tenerezza. Solamente la cultura che rifiuta lo sfruttamento, il consumismo, la competizione può essere alla base di nuovi luoghi di incontro.

La concorrenza tra umani dovrà essere su l’aria pulita, sulla mancanza di violenza, sulla pratica della solidarietà, sulla tolleranza, sul rispetto dell’altro. Questa sarebbe una nuova rivoluzione, che potrebbe portare nuovi valori e nuove speranze. Non tutti però sono interessati a creare nuovi luoghi di incontro e sono gli speculatori, i faccendieri, le istituzioni chiuse, i politici, perché sono preoccupati dell’efficienza e a raccogliere consensi per il proprio potere, come anche non sono interessati coloro che sono pagati per mantenere le istituzioni come sono, e i servizi pagati dal denaro di tutti, ma a servizio dei ricchi.

Da non demandare al determinismo della tecnologia

La vita di una comunità, della città e di ogni convivenza è in funzione dell’incontro delle persone e non può essere privatizzata, perché è luogo di incontro per tutti. Non può essere privatizzata l’aria, o l’acqua, non può essere rinchiusa la terra perché tutti debbono essere coinvolti nel determinare l’uso dello spazio e del tempo della loro convivenza, i luoghi comuni non possono essere condizionati agli interessi di alcuni, gli spazi dell’incontro non possono essere svenduti, cioè prostituiti agli interessi del mercato e delle persone ricche. Così deve essere anche per la scuola, gli ospedali, le piazze e le strade, i palazzi pubblici.

Si è fatta strada la persuasione che i problemi possono aver una risposta dalla tecnica, che dovrebbe semplificare i problemi e dare maggiore spazio alla comunicazione e all’incontro. Se però viene affidata alla tecnica la responsabilità dell’incontro, ne consegue che diminuisce la responsabilità degli individui proprio riguardo alla comunicazione. Affidare alla tecnica i nostri problemi significa togliere l’apporto creativo all’esperienza umana, significa rinunciare al progetto di cambiamento, di avventura e di impegno personale e comunitario, significa ridurre l’ignoto a quello che già si conosce, ridurre il futuro al passato, il dicibile al già detto, e così viene sminuito o addirittura annullato l’incontro che si basa sulla meraviglia dell’imprevisto e lo stupore dell’ignoto.

L’imprevisto dell’umano

Tutto questo sembra inevitabile, ormai segnato per sempre, e ci viene presentato come l’unico modo possibile per vivere. È necessario invece uscire da una concezione deterministica della vita, mentre abbiamo assunto il determinismo come un dato di fatto dalla frequentazione quasi assoluta della tecnologia, in cui tutto è predeterminato.

Il reale, e soprattutto l’incontro è costruito sull’improvviso, perché i fenomeni della vita non sono preconfezionati, e gli eventi non sono in massima parte prevedibili.

Il mondo che ci appare in maniera sempre più esplicita è ormai il mondo dell’immagine, dello spettacolo, in cui prevale l’apparire piuttosto che l’essere. Lo spettacolo è il modo per avere successo e tutti vogliono parteciparvi a qualunque prezzo, fosse anche la propria solitudine o l’annientamento dell’altro. La conversazione, su cui si fonda l’incontro, non è figlia dell’immagine, ma della conoscenza reciproca e della partecipazione tra le persone. Partecipare è la parola d’ordine per la politica, per l’amministrazione degli enti pubblici, per la scuola. Ma come è possibile partecipare? Spesso è solo un pianto davanti alle telecamere, oppure un lamento per la morte di un figlio, oppure semplici comparse per richiamare intrighi sessuali, omicidi o guerre. Spesso siamo ridotti a individui che non hanno la possibilità e voglia di incontrarsi: non ci viene data l’occasione e ci viene tolta a voglia di farlo.

L’indirizzo di pensiero e di pratica è spesso una pura imitazione di ciò che è già avvenuto, di ciò che è già stato vissuto, è una ripetizione monotona senza possibilità di creare novità. Si sta sempre più escludendo il legame sociale: tutto deve essere razionale, programmato, e nulla deve essere lasciato all’imprevisto.

«Non si tratta di impegnarsi per risolvere il problema della fame: ognuno ha fame di ciò di cui vuole aver fame. La fame di libertà è ben diversa dalla fame di arte, di cibo, perché nulla è definito una volta per tutte» (Pietro Barcellona). E l’incontro è la fame dell’altro, ma non quello programmato, preconfezionato come in teatro, ma quello che la vita momento per momento ci mette davanti. Si tratta di educarci all’imprevisto dell’incontro e non a sceglierlo secondo i nostri preconcetti, perché incontrarsi significa imparare dall’altro, e non ammaestrarlo al nostro pensiero.

Dobbiamo imparare di nuovo a creare, cioè a produrre senso, il che va ben oltre ai limiti creati dall’uomo e dalla donna. Si tratta di produrre una rappresentazione della vita che vada aldilà di ogni programmazione, e allora avremo il motivo per poterci incontrare: non ci si può incontrare per sentire le stesse cose, per ripetere le stesse parole, per assaporare la stessa noia di sempre.

Non si tratta di scegliere tra due modelli d’incontro vedendo quale sia il migliore, ma di prendere spunto da tutti i modelli, che conosciamo e inventarne uno nuovo, e allora avremo l’occasione di incontrarci per discutere, migliorare, programmare la novità di vita e il nostro futuro. Non ci s’incontra più, perché non c’è più motivo d’incontrarci.

Pensiero unico, emarginazione delle culture

Il nostro mondo sembra avviato ad una convivenza in cui il danaro, l’economia sia la responsabile della nostra evoluzione e del nostro progresso. Tutto sembra dipendere dal denaro. E allora solamente alcuni possono parlare e possono avere motivo di incontrarsi. La nostra conversazione sembra essere ormai affidata ai sistemi scientifici dell’economia e dello sviluppo tecnologico, cioè agli specialisti. E allora la maggioranza degli uomini e delle donne non avranno nulla da dirsi, nulla su cui incontrarsi.

Anche questo significa globalizzazione, anche questo è pensiero unico, che vuole annullare qualsiasi identità di classe, di genere, d’appartenenza, di cultura. La globalizzazione dell’informazione vuole determinare l’emarginazione delle culture, attraverso il processo simile a quello del commercio e dell’industria, dove il più debole e il più piccolo deve lasciare spazio e tempo al più forte e al più grande. «Non meravigliatevi di questo, non sarà possibile contrastarlo – diceva un grande maestro di antropologia culturale ai suoi studenti – è stato sempre così ed è inevitabile che questo accada anche oggi: i piccoli dovranno soccombere e dovranno lasciare spazio a culture più significative».

Ricostruire i luoghi pubblici per l’incontro

La globalizzazione così concepita sarà il modo per portare a compimento il tentativo, speriamo che vengano limitati i danni, di processo di occidentalizzazione del mondo: distruzione dei legami tra gli individui, tra i popoli, distruzione dei vincoli di appartenenza ai luoghi, al lavoro, al tempo dei padri, delle madri e dei figli.

Tutto viene ridotto a legge di mercato: soppressione dei luoghi pubblici per l’incontro delle persone e trasformarli in luogo di commercio, l’esperienza privata diventa spettacolo, diventa merce, valore economico; l’ambiente diventa luogo di investimento, di profitto, e le città sono ormai luoghi di traffico e di banche mentre le persone sono obbligate ad andare lontano, in luoghi anonimi, che non conoscono, e ai quali non apparterranno mai, le strade saranno proibite all’incontro, che sarà relegato al privato in luoghi chiusi e riservati.

Lo spazio d’incontro dovrà essere costruito in modo tale che sia accessibile a tutti, in cui il tempo dovrebbe essere ritmato sul tempo di tutti. Rischiamo invece di costruire spazi privati, rinchiusi, protetti con difese anche delle armi e mantenerci blindati negli spazi che consideriamo nostro territorio esclusivo.

Si sta distruggendo ogni luogo comune, vengono pensati luoghi e mondi separati dove i potenti possono tranquillamente dialogare tra loro, dove lo spazio fisico viene di fatto annullato per lasciare il posto a quelli virtuali, nei quali ci si dovrebbe incontrare in rete.

Dove non c’è fisicità non c’è incontro, perché non siamo angeli, ma persone umane. Quando viene negato il luogo e il tempo dell’incontro, quello che avviene non è umano, ma solamente diabolico, perché invece di unire vuole solamente dividere.