La vita da qualche parte continua

di Filippa Marcella

Donne che scrivono e vivono la vita nella guerra

Donne nel turbinio della guerra, nella quotidianità di un conflitto senza vie d’uscita, nella persecuzione e nell’annientamento. Donne che vivono oltre i limiti, in una situazione di confine e di erramento, donne che operano forme di resistenza esistenziale a ogni forma di ferocia, distruzione e di morte. Prima di tutto resistono dentro se stesse.
Nel corso del Novecento, definito da alcuni secolo breve, e da altri narrato in un lungo e infinito susseguirsi di negatività e violenza, donne di differenti appartenenze sociali, di varie etnie, figure non sempre riconducibili ad un’unica identità politica, ideologica, religiosa, di pensiero, hanno realizzato con la loro vita, semplicemente con il loro modo di vivere giorno dopo giorno, e in altri casi con la scrittura – principale forma di comunicazione con il sé e con il mondo -, forme di resistenza non riconducibili alle tradizionali categorie interpretative di lotta, ribellione, opposizione, nuove e antiche allo stesso tempo, uniche e fortemente caratterizzate dalla soggettività consapevole e da una pratica essenzialmente individuale.

Un lungo elenco

Impossibile nominarle tutte. Si chiamano Etty Hillesum, Margarete Buber-Neumann, Maria Zambrano, Hannah Arendt, Milena Jesenská, per citarne alcune. Molte altre sono rimaste del tutto sconosciute. Compito nostro disseppellirle dall’oblio. Donne in carne ossa, con le loro ambivalenze, contraddizioni, paure, che taluni hanno voluto “santificare”, operando per renderle irraggiungibili, stellarmente distanti e vissute in un certo senso fuori dalla storia, i cui modelli di vita e le loro riflessioni sembrerebbero assumere una totale alterità da noi, oggi hic et nunc, pertanto riferimenti non praticabili ed esempi totalmente irreali. Parallelamente altri, in particolare negli ultimi tempi, e anche nel nostro paese, stanno cercando di ascrivere alcune di esse in rigide appartenenze o scuole di pensiero, strumentalizzando le loro riflessioni e le loro vite. Donne nomadi, erranti, di confine, che hanno spostato confini reali e simbolici, vissute oltre i limiti che la società ha loro imposto, attanagliate in taluni casi dalla povertà. Alcune di esse sono state riconosciute e apprezzate solo dopo la loro morte.

Milena di Praga

Vorrei offrire qualche spunto di riflessione, accennando ad alcune peculiarità di una donna sconosciuta ai più oggi, e se conosciuta nominata solamente come la “fidanzata” di Kafka. Si chiamava Milena Jesenská (1896-1944), le sue compagne nel lager femminile di Ravensbruck, la conoscevano semplicemente come Milena di Praga.
È da poco uscito un interessante epistolario (Milena di Praga. Lettere di Milena Jesenská. 1912-1940, a cura di Claudio Canal, Città Aperta Edizioni, Troina, 2002), che ce la restituisce in tutta la sua complessità, facendo emergere una donna di rara e lucida intelligenza, dall’identità complessa, difficile, appassionata, o meglio passionale come ella stessa ama definirsi, capace di distinguere i doveri e le onestà, anche se questi la fanno sorridere; drammatica, generosa, sempre alla ricerca di sé e del senso da dare alla propria esistenza, che allo stesso tempo riconosce di aver vissuto con leggerezza. Dirà a un’amica: «Se ripenso a quell’epoca mi sembra di aver solo danzato».
Un percorso di vita di una donna che osa provocare il mondo e la società in cui vive, rompendo spazi e luoghi simbolici, esternando atteggiamenti di rottura, portati avanti con solitudine e fierezza. Come quando nella Praga occupata dai nazisti, nel freddo inverno del 1940, cammina avvolta da un cappotto grigio, scegliendo di portare al braccio la stella gialla di David, marchio infamante che ancora una volta gli ebrei sono costretti a esibire, pur non essendo ebrea, per estremo gesto di solidarietà verso chi è perseguitato. Per aver aiutato ebrei e oppositori al regime, sarà incarcerata e poi internata nel lager femminile di Ravensbruck, dove morirà pochi mesi prima della liberazione del campo.
L’amica incontrata nel lager, Margarete Buber-Neumann, che sopravvivrà alla tragedia, e sarà una sorta di sua esecutrice testamentaria, ce la racconta in un bel libro, pubblicato in Italia nel 1986 (Milena, l’amica di Kafka, Adelphi, Milano,1986), mentre racconta la loro intensa amicizia, la cui forza supera il tempo e lo spazio. «Ci conoscevamo da pochi giorni soltanto. Ma che senso ha parlare di giorni, quando il tempo non si divide più in ore e minuti, ma è scandito dai battiti del cuore?». Nel lager, luogo simbolo dell’annientamento, Milena porta luce e vita, che irradia intorno a sé. Sul tavolo dell’ufficio del campo, dove lavora, c’è «sempre un fiore infilato in un qualsiasi recipiente che potesse somigliare a un vaso, e una scatoletta di cartone conteneva un bottone di vetro sfaccettato. Quando splendeva il sole vi apparivano magicamente i colori più belli dell’arcobaleno».

Un pozzo profondo,
un fuoco vivo

Milena, nel corso della sua esistenza si prodiga per salvare gli altri, e salvando gli altri forse salva se stessa, o proprio salvandoli si perde. Milena è una sorta di profondo pozzo, alla cui acqua tanti si sono dissetati, ma è anche come ha scritto Kafka, in una famosa lettera, «un fuoco vivo come non ne ho mai visti». L’acqua e il fuoco, due elementi primordiali, si combinano nel suo essere, e nel modo di vivere i rapporti con il mondo esterno e le relazioni affettive e d’amore. Sempre Margarete, l’amica che l’ha accompagnata nel suo passaggio finale, la descrive come una donna che coniuga in sé «tenerezza femminile (che) si univa a un’energia volitiva, tipicamente maschile. Pudicizia e irruenza convivevano nella sua personalità». Una donna che unisce e coniuga il maschile con il femminile, due forze potenti, opposte e contrarie.
Milena è anche una donna che ci ha lasciato straordinari reportage di una estrema lucidità sulla guerra, su Praga occupata dai nazisti, sull’Europa in fiamme, anticipando in alcuni illuminanti articoli, presagi e intuizioni sul suo futuro e sul futuro della Cecoslovacchia. La fine incombe, gli spazi fisici si restringono vieppiù, e Milena alterna momenti di pessimismo, «qui viviamo in una trappola per topi», ad altri di speranza e di immenso amore per la vita. «E intanto Praga è così splendida, tutto in fiore, le acacie, i gelsomini, i lilla. (…) La vita da qualche parte continua». Un’altra donna, in un’altra città, la giovane ebrea Etty Hillesum di Amsterdam, negli stessi tempi scriveva e riconosceva il profumo intenso di un gelsomino appena fiorito sul davanzale della sua piccola casa. Mentre la tragedia incombeva con tutta la sua forza negativa.
Qualche tempo dopo, nell’infermeria del lager, attraversata dall’acuto dolore dopo l’asportazione di un rene, Milena Jesenská reciterà ad alta voce: «Padre nostro che sei nei cieli».