Scissione o fine dell’occidente?

di Tesini Mario

Europa, America: un lungo cammino assieme

L’interrogativo se esistano due diverse forme di Occidente, non appartiene soltanto al dibattito di questi nostri giorni. Già Tocqueville nella sua Democrazia in America, pubblicata tra 1835 e 1840, a mezzo secolo dalla dichiarazione d’indipendenza e dalla costituzione di Filadelfia (1776 la prima; 1787 la seconda) aveva visto negli americani degli “inglesi trapiantati”, mediatori quindi di una cultura e di tradizioni istituzionali e politiche dalle radici profonde, ma anche, al tempo stesso, i creatori di una nuova, inedita e per di più, come i fatti avrebbero in seguito ampliamente dimostrato, espansiva civiltà.
La risposta che è venuta dagli oltre due secoli che vanno dalla nascita della nazione americana alla fine del ventesimo secolo, è andata chiaramente nel senso della fusione della rispettive storie e culture politiche: il simbolico apporto del marchese di Lafayette alla causa della libertà delle tredici colonie nella seconda metà del Settecento, la già ricordata opera di Tocqueville nel secolo successivo, e in quello appena trascorso l’idealismo politico del presidente Wilson all’indomani del primo conflitto mondiale e poi il comune impegno antitotalitario tra seconda guerra mondiale e la lunga parabola della guerra fredda, sono altrettanti momenti di una saldatura che nel corso del Novecento sembrava – è solo un altro ieri ma ci sembra un altro ieri lontano – divenuta irreversibile.
L’irrompere traumatico dei fatti dell’11 settembre, le reazioni delle opinioni pubbliche non meno che degli Stati a quell’evento, sull’una e l’altra sponda dell’Atlantico, hanno tuttavia rimesso in discussione i termini di tale percezione, oggi sempre più frequentemente discussa e talvolta apertamente negata.

Una risposta articolata

Alla domanda di quali siano i confini dell’Occidente, non esiste, evidentemente, una risposta univoca. Ma se dovessimo azzardarne una di più, rispetto alle tante rinvenibili in una pubblicistica soprattutto in questi ultimi anni dilagante, si potrebbe dire che appartengano all’Occidente i paesi nei cui luoghi di istruzione superiore (a partire ovviamente dalle Università) a fondamento degli studi di politica si trova uno dei classici manuali di Storia delle dottrine politiche.
Non si riflette forse abbastanza su quanto sia importante che la percezione della realtà politica contemporanea sia orientata dalla conoscenza dei grandi momenti che, nel corso di duemilacinquecento anni, hanno segnato la riflessione dell’umanità sui temi della genesi, delle finalità, delle forme organizzative della vita pubblica.
Patrimonio condiviso non solo di conoscenza ma anche di esperienza istituzionale vissuta, sarebbero dunque, per la cultura occidentale, il rapporto tra morale e politica da Platone a Kant; lo studio analitico e comparativo delle istituzioni da Aristotele a Locke a Montesquieu; la consapevolezza dei limiti del potere nel pensiero medioevale cristiano di Agostino e di Tommaso; l’autonomia della politica come definita nelle vivide, dissacratorie formule di Machiavelli; la consapevolezza dei conflitti, ideali ed economico-sociali, da Hegel a Marx; la riflessione di Tocqueville sulla natura e le contraddizioni della democrazia; i tentativi di cogliere ragioni e identità dello Stato moderno: dalla filosofia di Hobbes alla sociologia di Max Weber.
Ma se l’Occidente ritrova la sua composita identità politica nelle pagine del manuale di Storia del pensiero politico, nel “canone” di autori che esso ricomprende, non è sufficiente che tale conoscenza sia confinata alle aule accademiche.
Per un processo di irradiazione, attraverso la stampa, le associazioni (ancora Tocqueville!), attraverso i molteplici luoghi di espressione di un’opinione pubblica non solo diffusa ma anche attiva e partecipe, tale pluralistica visione della politica ha saputo divenire esperienza vissuta: degli individui, delle società, delle istituzioni infine.
Non esistono dunque due diverse e distinte tradizioni occidentali. In termini storici, Occidente – nel senso a noi contemporaneo – significa Europa e Stati Uniti: né gli uni senza l’altra, ma neppure, ovviamente, l’inverso.
Il costituzionalismo americano, non sarebbe pensabile senza il riferimento alla “tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo” come recita il sottotitolo della traduzione italiana dell’importante libro di Russell Kirk, Le radici dell’ordine americano. Gerusalemme, Atene e Roma (concezione etica della vita, filosofia e diritto) sono alla base di una comune secolare tradizione. In Europa come negli Stati Uniti ha influito il percorso della civiltà cristiana, definita e talvolta rigenerata dai suoi interni e spesso tragici conflitti. Da un loro sommario elenco emerge il quadro della formazione e della crisi di una coscienza europea che ad un certo momento avrebbe varcato l’oceano: scisma orientale e contrapposizione tra potestas temporale e spirituale nel Medio Evo, frattura umanistica agli albori dell’età moderna, antagonismo tra cattolicesimo e protestantesimo e a partire dal XVIII secolo tra l’Illuminismo e l’insieme dell’eredità cristiana, il cui esito sarebbe stato la Rivoluzione francese. Da quest’ultima e dalla di poco precedente Rivoluzione americana o – per riprendere un’autorevole tesi storiografica – da un’unica Rivoluzione Atlantica sarebbe scaturito l’Occidente, nel senso a noi più vicino e più consueto del termine: Europa e Stati Uniti, tra loro legati da valori e da riferimenti culturali comuni.
È tale idea ad essere oggi da più parti avversata.

Parigi o Filadelfia?
Verso quale divaricazione tra Europa e America

All’indomani della recente vittoria elettorale di George W. Bush, il noto saggista francese Alain Minc – tutt’altro che uomo di sinistra e a suo tempo influente assertore del cosiddetto “pensiero unico” del liberalismo mondiale – ha parlato della fine di una “certa idea di Occidente” (Corriere della Sera, 5 novembre 2004). Ad “interessi comuni” corrisponderebbero ormai “valori divergenti”. L’America, secondo Minc, non sarebbe più «un paese occidentale come lo intendiamo noi europei». Fino a prefigurare un’inevitabile “divorzio” culturale e filosofico: «Noi resteremo l’Occidente e loro diventeranno un’altra cosa».
In una prospettiva diversa il tono generale di un recente convegno (gli atti sono stati pubblicati nel gennaio 2003) della Fondazione Liberal dal titolo ad effetto Parigi o Filadelfia?, era stato improntato ad una tesi parzialmente analoga. Di segno rovesciato, tuttavia. Ad avere il bel ruolo era stavolta non la “vecchia Europa” ma gli americani che nelle parole di Ferdinando Adornato, autore della relazione introduttiva – anch’essa titolata in modo eloquente: “Dimenticare Parigi” – non avevano mai “praticato l’assioma illuministico francese ‘uomo buono-società cattiva'”, e proprio per questo erano riusciti a fondare su basi solide “nuovi diritti di libertà e di cittadinanza”.
Ed anche nella cultura britannica, normalmente considerata la più affine al mondo americano, troviamo posizioni riconducibili alla tesi del progressivo distacco. John Gray, professore di Teoria politica ad Oxford, non aveva atteso la cesura dell’11 settembre per prevedere che “ora che gli imperativi del periodo della Guerra fredda sono passati, i paesi europei e gli Stati Uniti andranno sempre più divaricandosi, non soltanto strategicamente ed economicamente, ma anche culturalmente, così che le loro differenze culturali e politiche, diverranno maggiormente, e non meno, decisive”.

Se le due sponde si allontanano.

È possibile che le cose vadano effettivamente in tale direzione. Ma allora – è quanto ci sembra di dover sostenere in conclusione – non sarà la nascita di due diverse e alternative forme di Occidente, quanto piuttosto la fine dell’Occidente come entità figlia della Rivoluzione atlantica e dei due secoli successivi di profonda, e sempre più reciproca influenza. Un diverso tramonto dell’Occidente rispetto a quello preconizzato da Spengler nel suo grandioso e cupo libro, scritto nell’orizzonte della finis Europae – di una certa Europa – che pareva, ed era, l’epilogo del primo conflitto mondiale.
Insomma, si può convenire con André Glucksmann, quando scrive nel suo recente libro Occidente contro Occidente, che la questione nei termini “Europa contro America” significa porsi sul terreno delle “entità immaginarie”. È legittimo chiedersi “se il XXI secolo subirà l’eclissi, la scomparsa [.] di ciò che fu festeggiato o maledetto col nome di Occidente”. E del resto la stessa alterazione demografica e antropologica in atto negli Stati Uniti, per via soprattutto dell’immigrazione ispanica, pone indubbi problemi di identità: Who are we?, “Chi siamo noi?” è il problematico titolo dell’ultimo libro di Samuel Huntington, il noto teorico dello scontro di civiltà. La fine di quell’equilibrio di valori ed esperienze definiti fino ad ora come occidentali non rappresenterebbe comunque una divaricazione e la nascita di due mondi diversi e contrapposti, quanto appunto la scomparsa di una tradizione intellettuale e politica.
E mentre nuovi problemi si pongono a partire dall’articolazione del mondo dopo il 1989 e dopo l’11 settembre (appartiene la Russia all’Occidente? Eterna, ricorrente, forse non risolvibile questione.) è opportuno chiedersi se le posizioni che preconizzano l’allontanamento di Europa e Stati Uniti nella presente congiuntura mondiale, siano oltre che legittime – come certamente sono – anche politicamente opportune.
Se sia cioè da auspicarsi che venga alimentato (dopo che da tante parti diverse e con diversi intendimenti è stato in questi anni innescato) il meccanismo che la sociologia e la psicologia contemporanee hanno definito “della profezia autoavverantesi”.
Insomma, a evocare, su entrambe le sponde, la realtà di un “Atlantico più largo”, si corre il rischio di trovarselo davvero. Con quali conseguenze, per le sorti del fragile equilibrio mondiale, è lecito, mi sembra, temere.