Abitatori dello spazio e abitatori del presente. Europa, America

di Barcellona Pietro

[Abbiamo raccolto le pagine che seguono dal libro di Pietro Barcellona “Il suicidio dell’Europa” ancora in fase di stampa. La formulazione, la disposizione del testo e dei paragrafi sono stati definiti dalla redazione di Madrugada. La discontinuità e la frammentarietà eventuali dell’articolo sono dunque imputabili al redattore, che ha estrapolato l’elaborato in questione dal capitolo primo del libro citato, in cui andrebbe doverosamente ricollocato. Ci sembra comunque che le pagine seguenti aiutino ad illustrare il monografico “Un Occidente, due Occidenti”].

La domanda sull’identità dell’Europa non può ridursi al «non possiamo non essere americani», slogan in voga dopo l’11 settembre. Personalmente, ho amato moltissimo gli Stati Uniti; ricordo da ragazzino, all’indomani della caduta del regime fascista, le letture dei libri americani tradotti nelle collane Einaudi, dirette da Calvino, Pavese e Vittorini. Era la scoperta di un nuovo mondo, l’incontro con l’America di Hemingway, l’America della nuova frontiera. Ma ciò rappresenta sola una parte dell’America. Oggi ne esiste un’altra: l’America del blocco dominante, della borghesia globale, militarista, intransigente e fondamentalista.
Se, dunque, il discorso non può limitarsi semplicemente al «non possiamo non essere americani» allora è necessario porsi il problema dell’esistenza di un’identità europea.
Ma può esistere un’identità europea senza nessun rapporto con il passato? Può esistere un cervello europeo senza una rilettura dell’intera tradizione europea? Uno studio recente sostiene la tesi che il modello dominante americano – basato sul dispiegamento della potenza della tecnica che si spinge fino a dominare e a manipolare la vita – sia una proiezione dell’uomo rinascimentale. In altri termini, si tratterebbe di una parte dell’Europa che si realizza nella sua vocazione onnipotente. In questo libro l’autore si chiede: la tradizione rinascimentale esaurisce l’identità europea fino a compiere il destino del trionfo tecnologico che si realizza negli Stati Uniti? Oppure il Rinascimento rappresenta un momento della storia europea, ma non il solo con cui possiamo identificarla? Anche perché il Rinascimento è stato preceduto dal Medioevo, non più considerato da nessuno studioso di storia medievale come un’epoca di barbarie e di pura negatività; si tratta invece di un’epoca in cui, per esempio, sono rintracciabili i prodromi dell’idea moderna d’individuo e della sua libertà, risalente alla riforma del diritto canonico di Gregorio Magno.

Apertura e fondamento

L’Europa abita uno spazio condiviso, aperto a una conflittualità, che può diventare guerra civile ma anche polemos democratico e, dunque, spazio e apertura di un dialogo.
Il processo sembra caratterizzato nella filosofia europea da una sempre più acuta consapevolezza della mancanza di fondamento. Più interroga le sue culture, più l’Europa verifica l’assenza di fondamenti. Tale assenza di fondamenti, a prima vista considerata negativa, può esser letta come un’assunzione continua di responsabilità verso il proprio destino, come la risorsa che consente di costruire un’altra ipotesi di governo degli uomini, di istituzioni creative, di spazi di libertà e democrazia.
Lo sfondamento del fondamento maturato dall’Europa nella sua riflessione filosofica e nella sua vicenda storica potrebbe assegnarle il ruolo – rispetto al fondamentalismo americano, alla chiusura intransigente verso le altre culture e all’idea di civilizzazione tutta ridotta alla tecnicizzazione – di un’apertura alle potenzialità di un passato che interroga un futuro e che vuole progettarlo in modo plurale.
Tale idea di apertura – che non si basa sull’esercizio dei diritti individuali come nella tradizione americana, dove l’individuo preesiste a qualsiasi comunità, anzi istituisce l’ordinamento giuridico attraverso il contratto sociale – può diventare l’idea di una democrazia radicale, il cui titolare vero sia il popolo, non declinato in termini di populismo volgare, ma come gruppo umano, come comunità insediata, come territorio abitato.

Le radici di un conflitto

Nei giorni più acuti della guerra dei Balcani, Colombo, recensendo un saggio di Virno sul «Tempo», insieme a un volume sulla filosofia pragmatica di matrice anglosassone, osservava con molta acutezza che forse il conflitto fra Europa e America può essere ricondotto al conflitto fra due diversi modi di abitare la terra. Gli abitatori della temporalità senza passato, del tempo come “presenza” (direbbe Severino) non hanno radici (fondamenti), né tradizioni, né memorie, vivono nel «qui e ora» dove è possibile celebrare la «libertà» da ogni vincolo e da ogni peso. Si incontrano nel cyberspazio come gli astronauti di una continua navigazione nel «vuoto cosmico».
Gli abitanti dello spazio (Ortung) sono, invece, legati ai «luoghi», ai territori, che assumono le forme dei paesaggi urbani e delle campagne coltivate, dove sono presenti i «monumenti» della nostra attività sul pianeta e sono naturalmente portati al «ricordo» di quanto è avvenuto e al «racconto» che lo ha tramandato.
La tecnologia informatica, vera rivoluzione del prossimo millennio, rende questo conflitto drammatico, perché in queste due forme dell’abitare sono «incarnate» non solo due visioni della vita, ma anche due potenze originarie delle dinamiche profonde della psiche: la passione per il potere assoluto, per lo scioglimento da ogni vincolo di dipendenza (la fantasia dell’auto-Å“referenza all’opera nella clonazione); e la passione per il «legame», per la «generazione», per l’alleanza fra cielo e terra, fra uomo e donna, fra i due alberi del giardino dell’Eden (il fico e l’ulivo) da cui prende le mosse la progenie degli uomini.
In un’intervista di qualche anno fa, apparsa su Liberal, commentando il rapporto fra comunisti e America, sottolineavo che l’America si costituisce come autorappresentazione di nuova società dopo il genocidio degli Indiani, che rappresenta simbolicamente la distruzione degli «antenati» e la fine della memoria storica.
Ridurre tutta la storia moderna al paradigma del conflitto fra capitale e lavoro significa cadere – a mio avviso – nella trappola del «riduzionismo» della modernità: la riduzione dell’uomo a «fatto economico». Non vedere che anche il conflitto fra l’empirismo pragmatico anglosassone, che si autorappresenta nella società di mercato, e il trascendentalismo della grande filosofia tedesca, che si autorappresenta nello Stato (etico), è un episodio dello scontro di culture e tradizioni, che si viene strutturando nella Modernità: lo scontro fra la cultura predatoria dei mercanti e la cultura del legame sociale dei gruppi radicati nel territorio continentale e nella tradizione euro-Å“mediterranea.

La coscienza europea fra libertà e tecnica

In questa vicenda si coglie la radicalità della contraddizione fra bisogno di durata, di eternità, di certezze, ed ebbrezza della libertà di essere in qualche misura i veri legislatori del mondo in cui viviamo. La vertigine e l’ebbrezza del divenire travolgono il desiderio di ogni estatico sostare presso l’immobilità dell’Eterno in una simbiotica fusione con l’origine di ogni “apparire”. Un dilemma esistenziale prima che filosofico.
Il programma moderno di un uomo che si fa legislatore di se stesso, di una regola del gioco che tende a fondare l’auto-composizione del conflitto e l’auto-organizzazione della società è possibile solo se si assume che l’uomo è il signore del tempo e il signore della storia. Nel tempo si può realizzare la storia e la libertà perché nel tempo le cose accadono e possono essere create e distrutte. È questa oscillazione che istituisce lo spazio della “creazione” dell’ordine e della libertà dell’azione.
La “decisione” di abitare il tempo e di istituire la libertà dell’azione non recide tuttavia i legami col mondo, ma introduce l’uomo in un dualismo originario, in una contraddizione costitutiva. all’ordine necessario della “catena vivente”.
È nello spazio di questo dualismo incomponibile che la civiltà greca ha inventato le forme della politica, della filosofia e della tragedia che sono alle radici della coscienza europea.
La politica va dunque intesa come uno spazio inventato dai Greci in cui, domandandosi se le leggi di Atene fossero giuste o dovessero essere cambiate, i cittadini mettevano in campo lo stare insieme non soltanto come la sorgente delle leggi ma più profondamente come legittimazione di un principio normativo. Il regime della politica, inventato dai Greci insieme alla città, va interpretato come l’esperienza del trovarsi insieme sullo stesso piano in uno spazio comune, dove poter produrre l’evento che ci illumina sul senso della nostra destinazione. Il regime della politica si lega così a quell’impresa straordinaria effettuata dai Greci, che consisteva nel separare la verità e l’opinione, senza però rinunciare al problema che la verità pone a ciascuno, costringendolo a interrogarsi radicalmente sul senso della vita. La politica e la città sono il luogo in cui il regime della “doxa”, dell’opinione, produce il “polemos”, cioè il conflitto, il quale poi impedisce o attenua il rischio della guerra mortale.
Questo spazio pubblico creato dai Greci e questa visione del regime della politica non implicano affatto la negazione della verità ultima. Ma noi viviamo nel mondo dell’opinione. In questo senso, a mio avviso, la sofistica deve essere considerata una grande scuola democratica e nell’Antigone non va vista la contrapposizione gerarchica tra due principi di giustizia, l’uno legato alla natura e l’altro al diritto positivo, ma l’espressione di due assoluti unilaterali. In effetti Creonte e Antigone si mettono tutti e due fuori dalla polis e proprio questa è la loro tragedia. Al contrario, la polis contiene il conflitto e non lo espelle. Facendo prevalere in modo unilaterale solo una posizione, si distrugge lo spazio della politica.
In questo contesto si incontra anche il problema della tecnica. Infatti è nell’antica Grecia che per la prima volta si afferma il principio della manipolazione delle cose. La “cosa greca” – come la chiama Severino – è una cosa che il greco pensa venire dal nulla e che considera anche destinata a tornare al nulla. Proprio perché priva di stabilità, può essere manipolata a volontà dall’intervento umano. Ma questa trasformabilità rende tutte le cose intrinsecamente sottoposte a un finire. L’essere mortale dei mortali è appunto la base dell’angoscia. Venire dal nulla e tornare al nulla evoca una “nientità” che produce via via un allontanamento dalla verità, cioè dall’eternità incontrovertibile. Comincia così a svilupparsi una volontà di potenza che vuole dominare, che vuole controllare, e questa volontà di potenza assume via via le forme della tecnica. Sennonché la tecnica fino all’avvento della modernità è stata “trattenuta” da valori che le si contrapponevano e in qualche misura ne definivano gli spazi. Le grandi religioni, i grandi movimenti di popolo contribuivano a diffondere l’idea che l’uomo ha un limite, che l’infinito non può essere posseduto, che qualcosa non appartiene alla finitezza umana.
Nella modernità a mio parere prende corpo il miraggio estremo dell’onnipotenza, le cui radici Severino individua nella visione dei Greci, cioè in quell’alienazione originaria attraverso cui l’uomo si svincola dalla terra, si pensa come il padrone della terra e non più come parte di una totalità. Nella modernità si scatena l’idea che la volontà di potenza debba dominare tutto. La tecnica è la massima volontà di potenza.

Pietro Barcellona
docente all’Università di Catania