Piccoli spaventati guerrieri

di Realdi Giovanni

Una lucina rossa sul cruscotto

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La situazione è normale: qualcuno è ancora fuori dall’aula, cincischia e dà l’ultimo tiro alla sigaretta in terrazza, altri circondano un banco in ultima fila, seduti attorno, le schiene scoperte e il biancorossonero degli slip che saluta. Forse l’unico problema dei jeans a vita bassa è il colore delle mutande.
Chiacchierano, le voci basse, i pettegolezzi, qualche risata.
La situazione è normale: ora sono tutti in classe e mi aspettano. C’è il dibattito sulla libertà nell’Illuminismo da portare avanti, con i contributi di Kant, di Condillac, di Rousseau. Ci sono le fotocopie da consegnare, le pagine sul testo da controllare, gli ultimi concetti da riprendere.
La situazione è davvero normale? Guardali – mi dico – fermati e guardali. Ascoltali. Ogni volta che segno gli assenti di questa classe sul mio registro mi accorgo della spia accesa. Come sul cruscotto: c’è una lucina rossa che insiste e non sai mai se è un guasto effettivo o se è solo un contatto. Ma il guasto c’è, in questa quinta: è lui, assente dall’inizio dell’anno. Si è ammalato più di un anno fa e come un anno fa anche adesso sono io il supplente dei suoi compagni. La serie di a segnate in corrispondenza del suo nome non sono un vuoto, non sono buchi, come quelle sporadiche assenze da influenza, da motivi di famiglia, da sabato di sole. Sono il rintocco di un orologio dal silenzio di un letto, il ritmo della sua malattia – La Malattia – e sono come un martello nella testa dei suoi compagni di classe.
Il suo posto vuoto ci ricorda perché è vuoto, ci ricorda di andarlo a trovare a casa, o in oncologia pediatrica, se è periodo di chemio o di qualche day-hospital. Ci ricorda di come sia stata difficile l’estate, di come ognuno ha fatto le sue vacanze e lui no, di come poter affrontare i suoi genitori. Ogni volta: quali parole diremo? Diranno?
Guardali, ascoltali – mi ripeto. La spia sul cruscotto è accesa e tutti la vedono: la collega di italiano, limpida, mi confida che anche nei temi la classe è cambiata. Avverte nelle composizioni la crisi che stanno vivendo: diventano grandi tutto in un momento, mi dice con occhi attenti di madre.
La Signora vestita di nulla, la chiamava Gozzano: protende su tutto le dita e tutto che tocca trasforma. Il pensiero che il compagno possa anche smettere di lottare è qualcosa che tra i ragazzi si palpa, che acuisce i conflitti, che rende radicali emozioni altrimenti quotidiane, che fa alzare la voce per poco. È nascosta sul retro di ogni parola: ma di morte non si può parlare. Non ci è stato insegnato.
Possiamo allora forse cominciare a parlare di paura, di paura e di speranza insieme, possiamo davvero ritrovarci e combattere, mentre aspettiamo che lui torni da Marsiglia, dove un chirurgo tenta il tutto per tutto.

Poi, attraverso il campo di papaveri, arrivavano saltando i miei tre gatti, sembravano delfini tra le onde. Roccia, il gatto vecchio, mi diceva: non ti preoccupare, non è colpa tua, non è colpa tua, guarirai. E poi c’ero ancora io che camminavo sulla riva del mare. E tenevo in mano i miei vecchi soldatini, quei due che ho nel cassetto. Mi dicevano: perché vuoi arrenderti? Eppure tanti anni fa, quando giocavamo insieme e tu facevi l’indiano con la treccia, non avevamo paura di nulla, ricordi? Ma i soldatini bruciavano come fossero arroventati, e mi caddero dalle mani. Non ce la faccio più, dicevo, non riesco più a lottare. Vorrei solo dormire. Poi sentii qualcosa, come il rumore di una grande onda…
[Stefano Benni, Elianto]