Anima di terzino, cuore di cavaliere

di Cardini Egidio

Maglia nerazzurra numero 3
La figurina di Facchetti non la scambiavo mai. La tenevo tra le doppie perché mi sembrava che alcuni giocatori dell’Inter non dovessero diventare merce di scambio. Di quell’immagine ricordo ogni dettaglio: la maglia nerazzurra a strisce larghe, i pantaloncini neri, i calzettoni neri bordati di azzurro, le scarpe nere e quella pettinatura così tanto simile a uno schiaffo perfetto e così ordinata.
Chi ha la riga di lato rivela un ordine formale che, a volte, nasconde una sostanza di semplicità ordinaria e un desiderio di pulizia. Si tratta di uomini a cui non piace trasgredire, ma godere di una vita ordinata, orientata e misurata.
Io restavo sempre estasiato dal fatto più innaturale che potesse esistere nel calcio romantico di allora. Quando Facchetti colpiva di testa, non si spettinava mai, ma conservava una composta integrità esteriore e un preciso aspetto formale. Mai la maglia fuori dai calzoncini, mai troppo infangato, mai i calzettoni abbassati. Correva con la divisa a posto e si fiondava nel campo avverso come il vento.
Poi quel numero 3 così antico, tipico delle maglie degli Anni Sessanta e Settanta, disegnato in quelle forme così ordinarie, precise e dettagliate.
Di lui ricordo distintamente la fotografia di un gol in Inter-Juventus 4-0 del 1966, dove Giacinto scaraventava un pallone portentoso alle spalle del portiere avversario con una veemenza cavalleresca. Pareva Goffredo di Buglione alle Crociate.

Nati in paesi di ferrovia
Da ragazzo Giacinto pedalava verso la stazione di Treviglio, dove prendeva il treno per Milano, andando ad allenarsi, e io me lo immagino ancora adesso sotto la pioggia che cola a rivoli densi, dentro la nebbia che taglia le ossa, sotto il sole cocente che brucia la pelle, contro il vento dispettoso della primavera che scompiglia i capelli.
Noi, che siamo nati in paesi di ferrovia, siamo sempre andati alla stazione in bicicletta e ci siamo spesso infilati in quei depositi grigi, dai ganci sporgenti e dalle piccole tettoie per non bagnare la sella. La bicicletta appesa e poi via, dentro la stazione, con il tic-tac del pendolo vicino al tabellone degli orari e con il tatam-tatam dei treni accelerati in arrivo.
Giacinto entrava in campo come se stesse ancora pedalando, con l’ansia di non perdere il treno che arrivava, con il cipiglio del bersagliere in bicicletta verso la battaglia e con l’energia di chi ha imparato a correre spensierato tra i papaveri e i girasoli.
«Facchetti, rete!». Rete, diceva Nicolò Carosio, e non «goal», perché era figlio di quell’epoca fascista, che aveva italianizzato ogni nome straniero. Non «left back», ma terzino sinistro. Terzino sinistro come Giacinto.
I terzini sono sempre stati l’anima nascosta del calcio, forse perché costretti a giocare angolati, timidamente dimenticati su un lato, pericolosamente a contatto con il pubblico. È più facile dire «pirla» a un terzino che a un grande centrocampista, forse perché i terzini menano come nessuno e, alla fine, sono lì a due passi dalla rete di protezione, pronti a sentirsi dire ogni cosa.
Giacinto non lo ha mai insultato nessuno. Spuntava dalle retrovie e poi legnava secco in porta. Esultava con garbo e tornava indietro, aggiustandosi quella fascia da capitano che gli stringeva il braccio. Non si è mai tolto la maglia né hai mai strappato bandierine in quelle forme di esultanza idiota e recitata.

Cavaliere limpido e solitario
Nel 1978 lo hanno portato al Campionato Mondiale in Argentina come capitano non giocatore, poiché si era infortunato poco prima. Non si è mai visto nel calcio un capitano che non giocasse, però Giacinto ormai era un’icona indistruttibile e il cuore friulano di Enzo Bearzot non ha avuto il coraggio di dimenticarlo.
Nella stagione dei fuochi d’artificio berlusconiani e in quella delle manovre oscure e oltraggiose del moggismo, Giacinto appariva ogni volta come un Giuseppe Garibaldi a Caprera, raggomitolato e rinchiuso nella sua statura irraggiungibile e nel suo spirito nobile e sottilmente irriso dai potenti.
Parlava con quel leggero accento della Bassa Bergamasca, dove non si usa quel dialetto duro e caprino delle Valli e dove si bestemmia poco. Era il bergamasco soave di Treviglio, che i milanesi sentono quasi sorella, perché vicina di casa, pochi centinaia di metri dopo l’Adda.
Nessuno ha mai sentito Giacinto alzare la voce, nemmeno quando Moggi diceva che «bisogna squalificare Facchetti per le sue manovre che, in pratica, rivelerò».
Mai una contrapposizione di uomini è stata più vivace e significativa di questa. Troppo facile per noi vedere il cuore nobile di Giacinto e l’anima grifagna di Luciano, individuando nel primo il cavaliere limpido e solitario di uno sport ostinatamente corretto e nel secondo il vile soldato di retrovia di un mondo rozzo, volgare, cialtrone ed espressivo dei sommovimenti della pancia. Il meglio contro il peggio: davvero troppo facile per tutti noi.
Giacinto nella vita è sempre stato un uomo di poche e scontate parole, ma di una linearità assoluta e a prova di male.
«Facchetti, che cosa ne pensa di tutte queste vicende del calcio italiano di oggi?» – «Ne penso male, ovviamente».
È ovvio che corrompere, intimidire e imbrogliare sia male. A Treviglio, terra di bergamaschi gentili, questo è sempre stato ovvio.

Con lo scudetto sul petto
Io ho sempre amato e apprezzato Giacinto perché non è mai stato un eroe, un condottiero, un leone, un trascinatore, un «leader».
Semplicemente Giacinto era un uomo onesto, diritto, chiaro, sincero, forte, uno di quelli che fa le cose in silenzio, che esegue con tenacia il suo dovere e che non si offende mai, che alla mattina si alza presto e che alla sera va a dormire stanco, ma sereno e tranquillo, che fa «goal» perché è il suo mestiere, che dirige una società di calcio perché è il suo mestiere, che educa i figli perché loro sono la sua vita, che ama la moglie perché lei rappresenta il suo mondo più intimo e profondo, che va diritto perché curvare non ha senso, che guarda verso il sole perché le tenebre non sono fatte per essere guardate.
Qualche giorno prima di morire, Giacinto ha visto in televisione l’Inter giocare finalmente con lo scudetto sul petto, vinto dopo averlo cavato dal fango e dalla merda con le mani, e forse gli sarà venuto in mente il giorno in cui Helenio Herrera, vedendolo per la prima volta, ha dichiarato trionfante: «Muy bueno, questo Cipelletti».
«Mister, forse voleva dire Facchetti». «Es lo mismo» – «È lo stesso» – ha risposto orgoglioso il Mago. Giacinto non si è mai offeso.
Ora posso confessarlo. Giacinto è sempre stato il mio preferito e ha incarnato l’ideale in cui molti tifosi si sono sempre identificati. Sono orgoglioso di avere amato un campione chiaro come il sole e pulito come il cuore, uno che non ha mai fatto doping, uno che non ha mai avuto donne oltre la sua, uno che ha sempre attaccato la bicicletta al gancio dentro il deposito della stazione.

Hai appeso la bicicletta
Ciao, Giacinto. Mi mancherai. Sono stato al tuo funerale e non sono riuscito a entrare né a vederti, ma pazienza.
La gente di Inter-Liverpool 3-0 c’era tutta e sudava con i nipotini che, in braccio ai nonni, avevano la nostra maglia: la tua, la mia, la loro.
«Es lo mismo, porque Facchetti es un seguro campeón» – avrebbe detto il Mago.
Mi basterà sapere che, alla fine, tu hai fatto per l’ultima volta il gesto che ti è sempre stato più naturale prima di andare a fare il tuo dovere di terzino sinistro.
Hai appeso la bicicletta.
Ciao, Giacinto. Anima di terzino, cuore di cavaliere.