De André e le zone d’ombra

di Monini Francesco

Prima di tutto, prima di tutti, Fabrizio De André. Con lui, l’hanno scritto in tanti e dappertutto, se ne va molto più di un cantautore, ma un Poeta, un Grande Artista (con tutte le maiuscole d’obbligo). È stato – anche questo è stato scritto e riscritto nei necrologi, detto e ridetto nelle testimonianze di amici e colleghi – il cantore dei diversi, degli ultimi, dei deboli, degli esclusi, degli emarginati.
Tutto vero, tutto giusto. Ma perché allora questo amaro in bocca?
Un po’ perché è vero che la morte livella tutto e tutti (ricordate la famosa poesia di Totò?), ma la morte “pubblica” di un uomo “pubblico” porta anche, immancabilmente, alla celebrazione e alla imbalsamazione. Dove non è lo Stato ad imbalsamare (dagli antichi faraoni a Lenin), ci pensa la società della comunicazione di massa e dei miti a buon mercato.
E non si scappa: anche se De André ha voluto sempre vivere lontano dal potere e dai poteri, il suo destino post mortem sarà comunque quello di essere collocato su un altare, letteralmente “consumato” dalla laica venerazione dei cittadini-consumatori.
Negli anni Sessanta le canzoni di De André erano un bel pugno allo stomaco all’Italia del boom economico. Mettevano alla berlina la doppia morale dei benpensanti. Davano una voce e un volto ad un'”altra Italia”, quella di chi non ce la faceva a tenere il passo. Erano, come si diceva, “canzoni di rottura”. E De André ha continuato a “rompere” fino alla fine. Ora invece diventerà un “classico”, un “evergreen”, la “colonna sonora” di un’Italia che c’era (forse) ma adesso non c’è più.
Allora, ricordando De André e la sua grande arte, ascoltando o strimpellando alla chitarra le sue canzoni, sarebbe bene evitare la lacrimuccia. Meglio conservare un po’ di lucidità e anche un po’ di rabbia. Perché, nell’Italia che si avvia al Duemila, gli ultimi sono rimasti ultimi.
E i benpensanti? Nemmeno quelli sono spariti, ma oggi sono più accorti ed intelligenti, talmente bravi nell’arte dei distinguo, che è diventato difficile riconoscerli. Una mattina qualsiasi potrebbe capitarci una bella sorpresa: trovare dentro al bagno un benpensante che ci guarda diritto negli occhi dallo specchio sopra il lavandino.


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Si fa presto a dire “ultimi”. I poveri, gli ultimi, gli esclusi si dividono in tante categorie. Nella nostra testa ovviamente.
Intanto ci sono “quelli che non hanno colpa” e “quelli che se la sono andati a cercare”. Sì, insomma, sono messi male, ma in fin dei conti un po’ di colpa ce l’hanno anche loro. Non potevano pensarci prima?
Ci sono “gli ultimi senza vizi” e “gli ultimi con il vizio”. Il vizio di bere, di bucarsi, di prostituirsi, di rubare… Mi dispiace per loro, ma se vogliono una mano da me, devono prima abbandonare la cattiva strada; per il loro bene ovviamente. Invece, gli dai mille lire e loro si comprano una siringa! Tanto vale lasciarli cuocere nel loro brodo.
Ci sono “quelli che non ce la fanno”, ma anche “quelli che non hanno voglia di lavorare”. Perché, come si dice: se uno vuole, il lavoro lo trova. Non possiamo mica finanziare gli scansafatiche!
Ci sono “quelli che chiedono per piacere e dopo dicono grazie”, ma anche “quelli che hanno il coraggio di pretendere”. Ci vuole una bella faccia tosta!
E l’ultimo distinguo, quello che occupa la scena e l’occuperà nei prossimi anni e decenni. Ci sono i “nostri poveri” e quelli di cui non possiamo proprio farci carico. Che c’entriamo noi con albanesi, kurdi e africani? Certo, ci fanno anche pena, ma dobbiamo prima pensare ai poveri di casa nostra. Vogliono lavorare? Prima diamo da lavorare ai nostri figli. Vogliono una casa? Ma se non l’hanno ancora data ai nostri terremotati!?!
Razzista io? Ma mi faccia il piacere! Io non sono razzista, cerco solo di far funzionare il cervello.

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Milano: più o meno un omicidio al giorno.
Allarme criminalità. Allarme immigrazione. Allarme nomadi.
A gennaio, il Polo organizza un corteo di protesta. Migliaia di persone, sindaco compreso, dietro uno slogan brutto brutto: “Tolleranza zero”.
A febbraio, un altro corteo, questa volta organizzato dai sindacati. Parole d’ordine: “Sicurezza, Solidarietà”. Anche qui migliaia di persone, immigrati compresi. E il sindaco questa volta non si fa vedere.
Ma non è vero – non ci credo – che a gennaio hanno sfilato i razzisti e a febbraio gli antirazzisti. Se così fosse, Milano (e tutta l’Italia) sarebbe pronta per la guerra civile. Invece abbiamo ancora tempo per rispondere alla paura che corre per le strade della nostra città e ci insegue fino in camera da letto. Possiamo e dobbiamo rispondere alla paura. “Tolleranza zero” non è però una risposta, è l’ammissione di una sconfitta.

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Un negro può lavarsi molto, ma è difficile che diventi bianco. Eppure qualcuno ci prova ugualmente.
Alcuni negri, molto famosi e molto educati, sono diventati “quasi bianchi”. È il caso di Pelè, di O.J. Simpson o di Jordan, il più grande giocatore di basket della storia, che ha annunciato il suo ritiro tra la disperazione generale.
Ma un negro, anche se si lava molto, non può diventare bianco.
Per pareggiare il conto con i “negri bianchi” campioni di mimetismo, per rimettere le cose al loro posto, vale la tristissima storia di Mike Tyson. Tyson la belva, il violentatore, il delinquente, il masticatore di orecchie. Per lui non ci può essere nessuna redenzione: così hanno deciso giudici, giornali e televisioni. Tyson funziona – rende – solo se rimane una belva rabbiosa, un animale che prima o poi dovrà essere abbattuto.
Negro-bianco e negro-scimmia. Il sogno di Martin Luter King è molto lontano dall’alba.

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A Cusani, dopo un bel po’ di carcere, è stata concessa la semilibertà. Continuerà a lavorare per un’associazione che difende i diritti dei carcerati. Lo hanno intervistato.
– Ma cosa pensa, quando vede tutti gli altri inquisiti che non hanno fatto nemmeno un giorno di carcere?
– Niente, questo non toglie nulla ai miei errori. Ho sbagliato ed è giusto che paghi.
– E di Di Pietro, cosa ha pensato in carcere del suo accusatore e persecutore che ha fatto tanta strada in politica?
– Non ci ho proprio pensato. Ci sono molte cose che mi interessano, ci sono tantissime cose più importanti che devo fare.
Buona fortuna, Cusani.

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I jeans, la sentenza parla chiaro, è meglio non metterseli. Se vi salta addosso un uomo e vi violenta, non troverete nessuno che crederà alla vostra storia.
Niente minigonne e magliette scollate. Perché allora vuol dire che ve la siete andate a cercare.
Meglio non uscire dopo il tramonto. Si sa… l’uomo è cacciatore.
Tutto sommato meglio starsene chiuse in casa. In fondo, da che mondo e mondo, il posto della donna è quello.
Se fate le brave, magari vi facciamo un Presidente della Repubblica donna. Contente?

Francesco Monini
direttore responsabile
di Madrugada.
Vive a Ferrara.
Lavora in una cooperativa libraria