Lavoro amaro e giustizia a due facce

di Monini Francesco

Riso amaro

Ho visto al MAST di Bologna una mostra piccola e straordinaria: Un racconto di 50 anni di lavoro in Italia nei disegni di Altan. Una piccola mostra – basta una sala a contenerla tutta – perché Francesco Tullio Altan disegna le sue opere, le vignette destinate ai quotidiani, su semplici fogli A4, usando la penna o la china.
Tutti ricordiamo almeno una delle sue vignette in bianco e nero: quando prendono il colore perdono un po’ di forza e di poesia. Una mostra straordinaria, perché il grande disegnatore ci racconta e commenta l’Italia degli ultimi cinquant’anni, i potenti e i dimenticati (gli operai, le donne, i pensionati), con un umorismo profondo e dolente, una satira icastica e spiazzante, tanto da poter meritare un posto nella “Antologia dell’Humor Nero” di André Breton.
Maledetto Altan. Invece di farti ridere, ti lascia un sorriso amaro. E probabilmente ha ragione, in Italia, in fabbrica in piazza e soprattutto in politica, non c’è molto da ridere.
L’operaio antieroe Cipputi è il personaggio più iconico di Altan, il più famoso, continuamente citato. Anche se dalla sua penna sono usciti tanti altri personaggi, anche se Altan si è cimentato in storie lunghe e in rivisitazioni storiche (magnifiche quelle su Cristoforo Colombo e su Francesco d’Assisi), si torna sempre a Cipputi, il suo “marchio di fabbrica”.
E Cipputi è sempre ritratto dentro alla fabbrica, in tuta da operaio. Pronuncia le sue sentenze, i suoi giudizi lapidari, mentre armeggia con una chiave inglese sopra un macchinario.

Dov’è finito Cipputi?

Nell’Italia del XXI secolo, sui giornali, in televisione e in Parlamento, Cipputi sembra scomparso. Lo stesso Altan ha smesso di disegnarlo alla fine degli anni Novanta. Siamo così immersi, con tutta la fatica del caso, nella terza rivoluzione industriale, dominati dalla grande finanza, attratti e spaventati dai nuovi sviluppi dell’intelligenza artificiale, che non riusciamo a vedere altro.
O piuttosto non ce lo fanno proprio vedere: quando è nato, il quotidiano la Repubblica titolava una sezione “Sindacato e Lavoro”, poi ha cambiato di nome: “Economia e Finanza”.
Eppure in Italia i Cipputi sono ancora milioni. C’è ancora il lavoro faticoso e usurante degli operai delle fabbriche, la schiavitù della catena di montaggio, il sudore e la fatica dei turnisti, il pericolo costante di chi è addetto a un altoforno o si arrampica sui tubi innocenti di un cantiere edile.
E c’è chi sta ancora peggio: le migliaia di giovani che, malpagati, lavorano alla catena nei grandi magazzini Amazon o si sfianca a consegnare pacchi con un furgone.
Ogni tanto chiude una fabbrica. Non per fallimento, il prodotto continuava a tirare sul mercato, ma il padrone ha deciso di “delocalizzare”: per pagare meno tasse e pagare meno i dipendenti. Il caso della GKN di Campi Bisenzio, grazie all’occupazione della fabbrica chiusa e a una grande mobilitazione, è riuscito a bucare il muro di silenzio di una stampa pigra e tutt’altro che indipendente. Ma il caso è ancora aperto, la GKN è ancora chiusa e gli operai sono ancora a casa. Decine di aziende sono nella medesima situazione e migliaia di Cipputi sono oggi senza lavoro.
Insomma, i Cipputi e il “lavoro povero” sono attualissimi. I sindacati arrancano. La politica pensa ad altro.

Bentornato, Mimmo

Mimmo Lucano, il sindaco di Riace, la bestia nera dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, era stato condannato in primo grado a 14 anni di carcere. Una sentenza assurda che caricava sulle spalle di Mimmo una serie impressionante di reati pesantissimi. Era sufficiente sentirlo parlare Mimmo Lucano, con il suo italiano un po’ stentato di uomo dell’Appennino interiore e con la sua accesa passione civile, per capire che, se aveva forse peccato di ingenuità e di poca dimestichezza con l’italica burocrazia, si trattava di un uomo di buona volontà e di grande cuore. Non un esperto “politico”, non un fine “economista”, ma un cittadino comune che però aveva inaugurato quello che sarà poi conosciuto in tutta Europa come il “Modello Riace”. Un modello, realizzato concretamente nella sua Riace, che rispondeva a due bisogni urgenti: l’accoglienza e l’integrazione dei profughi che sbarcano sulle nostre spiagge e la necessità di ridare vita ai tanti paesi poveri e spopolati dell’Appennino, dove decenni di emigrazione italiana hanno lasciato in paese solo vecchi e case vuote.
È un delitto dare un futuro a chi scappa dalla fame e dalle guerre e, insieme, salvare dalla morte i paesi della montagna abbandonati? Di questo, alla fine, era accusato il sindaco di Riace. Ora il processo d’appello ha ridato a Mimmo Lucano l’onore di onesto primo cittadino. Niente carcere, un anno e mezzo per abuso d’ufficio rientra nella condizionale, ora è libero. L’ho visto emozionato e raggiante in televisione: bentornato, caro Mimmo.

La politica e la giustizia

Mimmo Lucano è tutt’altro che un caso isolato. È passato solo un anno dall’insediamento del governo delle destre – Giorgia Meloni ha voluto addirittura celebrare il primo anniversario – e una serie di provvedimenti legislativi e amministrativi hanno appesantito, invece di alleggerire, la situazione dovuta all’ondata inarrestabile e crescente degli sbarchi dei disperati in cerca di speranza: arrivano dalla Libia, dalla Tunisia, dall’Algeria.
Un’emergenza? No, perché ogni anno milioni di persone (le stime dicono tra i 54 e i 56 milioni) scappano dalla fame e dalla guerra.
Di cui una piccola parte arriva in Europa e una parte ancora più piccola in Italia. Quindi un fenomeno strutturale e in aumento, che invece da almeno dieci anni viene trattato come emergenza a colpi di proclami, divieti e campi di detenzione: in Africa ma anche sul patrio suolo.
Nel mirino di Meloni, Salvini e Piantedosi sono finite anche le navi di salvataggio delle ONG di tutta Europa. I volontari che salvano vite umane nelle acque del Mediterraneo centrale vengono definiti “complici degli scafisti”. I porti dove poter attraccare e sbarcare i profughi vengono spostati sempre più a nord (Ravenna, Genova, Trieste). Si minaccia (rischiando il ridicolo) la grande Germania di ritorsioni per aver legittimamente finanziato le proprie ONG. Si impedisce con mille cavilli all’unica nave italiana di soccorso – la Mare Jonio di SOS Méditerranée – di uscire dal porto e prendere il mare.
Ma la nostra Costituzione permette di chiudere centinaia di profughi (che delinquenti non sono e non hanno compiuto alcun reato) in un recinto chiuso da dove è vietato uscire? Alcuni giudici siciliani, proprio ritenendo anticostituzionale i provvedimenti governativi, hanno rimesso in libertà alcuni immigrati internati.
Da qui uno scontro al calor bianco tra governo e magistratura, tra potere esecutivo e potere giudiziario.
Nel caso specifico la Costituzione italiana, la legge che sta sopra a tutte le leggi, parla chiaro. I giudici hanno ragione e il governo torto. Ma mala tempora currunt se a difendere la Costituzione devono essere i giudici e non il Parlamento.

Francesco Monini

direttore responsabile di madrugada e del quotidiano online Periscopio