Il cielo sopra l’Avana

di Brunetta Mariangela

Nell’anima notturna
della perla delle Antille

Dall’alto del Castillo de los Tres Santos Reyes Magos del Morros, all’imbrunire, si può avere la più perfetta immagine dell’Avana. A destra del tramonto si nota l’orizzonte azzurrato del mare e a sinistra la città bianca, umida e scorticata con le moli squadrate di palazzi, alberghi e qualche cupola; e poi il mare, il mare che moltiplica l’ampiezza di quel sentiero celeste verso una profondità irragiungibile. Si staglia così il profilo della più grande metropoli dei Caraibi che fu la gemma più preziosa della corona di Spagna.
Ma tutto questo dura poco. La notte scende violenta sull’Avana, senza che se ne curino i suoi abitanti che continuano come se niente fosse la loro vita. Il calore rimane lo stesso ma a poco a poco il vento aiuterà la città ad avvolgersi di un manto nero trapuntato di stelle.
Il castello dei Re Magi, sul promontorio a est della baia, è uno dei tre forti che ornano la stemma dell’Avana, insieme ai baluardi della Forza e della Punta. Ma non sempre bastarono, nei secoli, a proteggere la città dai pirati. Perché un po’ tutti veniamo all’Avana con animo da corsari. Solo che non si entra dalla terra o dal mare, da Playa Giron, da Guantanamo o dalla Sierra Maestra. Si entra dal cielo, per incantesimo o per caso, con un sogno o un’idea, a cercare qualcosa di ancora indefinito che si sta già confusamente specchiando nell’anima notturna della perla delle Antille.

Un periodo da raccontare

Percorriamo il Malecon (lo spendido lungomare dell’Avana), gremito di gente che passeggia, prende il fresco e si abbraccia, ci infiliamo nella Quinta Avenida e subito uno stuolo di bambini ci insegue gioiosamente tentando di vendere qualche moneta con l’effige del “Che”. Parlando con loro scopriamo che conoscono il nome di molte città italiane grazie alla scuola che frequentano; ci facciamo accompagnare in uno dei tanti edifici scolastici dell’Avana Vecchia. È un palazzo rosa pallido con un piccolo cortile, le aule hanno un mobilio dimensionato secondo l’età degli scolari; gli alunni sono in vacanza ma una delle insegnanti ci racconta la sua pena per le matite che finiscono troppo presto, perché i bambini premono sui quaderni e spezzano le punte e lei tempera i mozziconi cercando di farli vivere il più possibile, ma è una lotta dura. Ogni alunno ha in dotazione una sola matita all’anno. E poi le gomme, i libri di lettura consumati dall’uso… Mentre parla osservo in una parete la foto di Josè Martì coi suoi baffoni e i capelli tirati all’indietro sulla fronte spaziosa e lo sguardo velato e appena fuori l’imponente scritta sul muro: Cuba, territorio libre de America.
Lungo le strade della città si incontrano continuamente nugoli di biciclette e qualche lento pezzo da museo anni cinquanta, ma appena fuori l’Avana la strada è sgombra, il “periodo especial” ha rarefatto il traffico e incontriamo solo qualche camion, carico soprattutto di gente, i bus turistici e qualche tozza e robusta auto di marca sovietica.
Il taxi ci accompagna appena fuori l’Avana e ferma davanti all’Ospedale Pediatrico W. Soler nella cui entrata troneggia un imponente scritta: No hay nada mas importante de un niÁ±o. Portiamo con noi alcuni medicinali rimediati quà e là dai nostri amici in Italia e pochi istanti più tardi il primario, sotto il ventilatore del suo piccolo studio ci fa un quadro crudo e drammatico della situazione: “Cuba è passata dalla prima fila in America Latina in fatto di salute all’insufficienza generale di medicine e strumenti. Per quanto possa sembrare strano agli stranieri la popolazione cubana è soggetta a malattie causate dall’umidità e altri fattori. Mancano gli antibiotici e tutti i preparativi rari e costosi. Qualcuno se li fa spedire dai familiari che vivono negli Stati Uniti. Ogni tanto la solidarietà internazionale manda una boccata di ossigeno. E poi sullo sfondo di tutto c’è il problema dell’alimentazione”.

Mentre attraversiamo i vari padiglioni ci accorgiamo che manca la luce in quasi tutti i corridoi, ma tutto il personale cerca di fare del proprio meglio per resistere alle conseguenze del “periodo especial” e il luminoso sorriso del medico rivoluzionario Ernesto Guevara racchiuso nella gloriosa immagine in una delle sale d’aspetto al primo piano non può che confortare gli animi.
Sopra l’Avana poco più tardi si è scatenata la notte ma a l’Avana vecchia le luci sono rare e diseguali, salvo negli alberghi,che si stagliano come oasi verticali. Le vie sono rischiarate a stento da tenui fanali di biciclette, anche se molte non hanno nemmeno il fanale; siamo entrate in quello che da fuori appariva un palazzone decrepito e abbiamo attraversato una serie di passaggi che immettono a una serie di stanze disadorne e calde tra cuniculi di muretti, grate fumi di cucine, biciclette appese e ben lucchettate. Uno che mangia le solite cose seduto sulla soglia, un altro che dorme ignaro di tutto, poi dei bambini, nonostante l’ora tarda, che indossano magliette rimediate chissà dove che recano la pubblicità di sconosciuti prodotti di un altro mondo. Salendo le scale, che occupano il minor spazio immaginabile, siamo arrivate all’appartamanto della signora Rosa, e sopra ancora, alzando una botola, siamo sbucate in una piccola camera da letto, costruita senza tanti scupoli sul tetto che a sua volta si spalanca sullo spettacolo soprannaturale di quel cielo turbolento ma inoffensivo.
Mentre sto con il naso per aria affacciata al finestrone e penso che su questo pianeta non c’è di meglio che una notte all’Avana, ammesso che l’Avana si trovi su questo pianeta, sento giungere dalla cameretta la voce di Silvio Rodrìguez in una sua tradizionale canzone.

L’inevitabile ritorno

Viene sempre l’ora del ritorno. È il patto segreto che rende il viaggio così incantevole e così inutile. È l’ombra che la partenza si trascina dietro fin dall’inizio e ne definisce i tratti.
A Cuba ho incontrato in tanti la mia stessa devozione per l’amicizia. Non ha mai conosciuto un popolo con cui si comunichi così bene, sia con chi se ne andrebbe non importa dove, sia con chi non cambierebbe la sua isola per nessun posto al mondo. Ho imparato ad amare Cuba e i cubani per quanto hanno di straordinario, senza nascondermene i limiti e le disgrazie. Non mi sento però autorizzata ad elaborare commenti sul loro avvenire nella prospettiva di chi, da questa parte dell’oceano, diffida tradizionalmente degli Usa e vede in Cuba il simbolo della resistenza.
Non ho il diritto di avvisarli che forse le cose andranno di male in peggio e probabilmente all’indietro, che le mafie di mezzo mondo se li mangeranno in un boccone oppure ricalcheranno le orme dei loro vicini di Haiti e Santo Domingo. I cubani sanno benissimo che non si può giudicare la rivoluzione da questo periodo estremo di carestia e che il paragone va fatto con il resto dei poveri latinoamericani, che guardano Cuba come una luminosa speranza, l’eccezione che mantiene viva l’utopia. Ma non è giusto che i cubani paghino ancora il prezzo di essere un mito altrui, stretti tra chi a Miami ha fatto fortuna con Castro, dando la colpa di tutto a lui, e di chi all’Avana ha fatto fortuna con Fidel, occupando posti di potere nella sua ombra per troppo tempo.
Spetta soltanto a loro valutare le conquiste irrinunciabili, gli errori da correggere e i soprusi da punire: Questa è la loro terra, l’hanno saputa riscattare da filibustieri di ogni provenienza, dai colonialisti spagnoli e da una dittatura sostenuta dalla più potente nazione del pianeta. Ora sono di nuovo soli. La storia li mette davanti alle sfide più ardue. Tocca di nuovo a loro. E gli va riconosciuto anche il diritto di sbagliare. Posso augurarmi che trovino una soluzione pacifica, graduale e ragionevole, che preservi l’indipendenza e le caratteristiche culturali cubane, e il senso del bene collettivo. Che se la cavino ancora una volta secondo il loro modo di sentire.

I volti che ti
mancheranno per sempre

E quando stai per partire senti di essere avvolta da una carezza incredula, perplessa, bisognosa e passi con gli occhi e con l’anima le vie cariate e ridenti, le colonne dei palazzi coloniali con i loro fregi, le stanzette dei caseggiati fitti di corridoi con le loro porte sempre aperte all’allegria e alla povertà. E poi le statue di Cervantes, di Martì, del generale Maximo Gomez. E i tamburi, dove la sofferenza si fa canzone e il lungomare dove i baci diventano coraggio; e il volto del Che fisso altrove, controvento e con il basco stellato. E poi tutti gli altri volti che ti mancheranno per sempre, perche credevi che Cuba ti avesse preso alla testa o allo stomaco, e invece ti ha colpito direttamente al cuore!