Le elezioni generali del 1994 e il nuovo governo. Bilancio e prospettive

di Tomasin Paolo e Tosi Giuseppe

Alcune informazioni
Il Brasile, secondo l’ultima Costituzione del 1988, è una Repubblica Federativa Presidenziale composta attualmente dall’unione di 26 Stati e di un Distretto Federale (quello della capitale Brasilia). Un referendum popolare dell’anno scorso ha confermato la forma presidenziale di governo, con elezione diretta del Presidente che rimane in carica per un mandato di 5 anni non rinnovabile.
Il potere legislativo federale è bicamerale: esiste una Camera dei deputati (di 513 membri) e un Senato (di 81 membri: 3 per ogni Stato). I deputati rimangono in carica 4 anni, i senatori 8. Il rinnovo del Senato avviene, però, in due momenti distinti ogni quattro anni: una volta si rinnova di un terzo e la volta successiva degli altri due terzi. I 26 Stati e il Distretto Federale sono retti da un Governador, anch’esso eletto direttamente dalla popolazione per un mandato di 4 anni non rinnovabile. Esistono poi le camere legislative degli Stati, rinnovate anch’esse ogni 4 anni.
Le elezioni del Presidente della Repubblica e dei Governatori prevedono il secondo turno (il 3 novembre) qualora un candidato non abbia raggiunto il 50% + 1 dei voti validi nel primo turno (che si tiene il 15 ottobre).
Il voto è obbligatorio per tutti i cittadini brasiliani dai 18 ai 70 anni; è facoltativo per i giovani dai 16 ai 18 anni, gli anziani con più di 70 anni, gli invalidi, gli analfabeti e i residenti all’estero.
Attualmente sono una ventina i partiti rappresentati a livello federale, che in periodo elettorale tendono a raggrupparsi in coligaìçìões (blocchi o fronti). Se il grande numero di partiti lascia trasparire una qualche somiglianza con il sistema politico italiano, è bene ricordare però che sono pochi i partiti brasiliani con una storia, ideologia e struttura organizzativa articolata nel territorio simile ai nostri.

Le più grandi elezioni della storia brasiliana
Nel 1994 l’elezione del Presidente della Repubblica ha coinciso con le elezioni per il rinnovo dei Governatori, dei Deputati del Congresso Nazionale (federali), delle Assemblee degli Stati e di due terzi del Senato.
Si tratta della più grande elezione della storia del Brasile, tanto per il numero di cariche politiche in palio (1.682), dei candidati (superarono i 10.000), quanto degli aventi diritto al voto (94.908.277). La campagna elettorale è cominciata già nella primavera, ma è esplosa solamente dopo i mondiali di calcio. Durante tutta la campagna e fino al giorno prima della votazione, i mezzi di comunicazione hanno fatto grande uso dei sondaggi d’opinione che hanno certamente influito sul processo elettorale: per lo meno hanno stimolato la creazione di un “fronte anti-Lula” che era, inizialmente, il candidato favorito con più di 40% delle intenzioni di voto. Due mesi prima delle elezioni i partiti hanno potuto usufruire di uno spazio gratuito di propaganda politica di un’ora su tutti i canali televisivi e radiofonici, distribuito secondo la rappresentanza parlamentare. A dire il vero il programma è stato poco seguito dalla popolazione perché molto noioso e poco istruttivo sulla biografia e le intenzioni dei candidati. Pochi invece sono stati i dibattiti televisivi che avrebbero certamente aiutato di più l’elettore.
La campagna si è svolta nella più assoluta tranquillità: è stata anche un’occasione di festa, di comizi, di manifestazioni di massa che non sono mai degenerate in violenza. Purtroppo è stata anche la campagna della “compera del voto”, nel più tradizionale stile clientelare, diffuso soprattutto nelle zone rurali e nelle periferie urbane. Si sono registrati un po’ dappertutto problemi elettorali, ma solo a Rio de Janeiro la frode è stata così grande da obbligare la magistratura ad annullare i risultati elettorali e a convocare nuove elezioni.
Nonostante tutti i condizionamenti sfavorevoli, l’elezione brasiliana non ha niente a che vedere con quella messicana, dove la frode è generalizzata e sistematica.

Il crescente disinteresse per le elezioni
Gli elettori potenziali di questa elezione generale erano quasi 95 milioni, alle urne furono solamente poco più di 77 milioni. La percentuale di astenuti è del 18,6%. La percentuale di votanti (81,4%) è stata più bassa che nelle passate elezioni presidenziali del 1989. Anche i voti nulli e le schede bianche sono stati numerosi: insieme raggiungono quasi 15 milioni di votanti, che sommati alle astensioni significano 32.034.288 elettori (più di un terzo del totale).
Questo fenomeno si è verificato con più forza in provincia che nei capoluoghi e soprattutto nelle due regioni più povere, il Nord e il Nordest del Brasile. Nel Nordest (una delle cinque grandi regioni brasiliane, composta da 9 stati) le astensioni e i voti nulli e in bianco raggiungono il 49,3% dell’elettorato.
I politologi spiegano questo calo nella frequenza alle urne per vari motivi, fra i quali:
ç la difficoltà della popolazione di accedere alle sedi predisposte per la votazione (ricordiamo che la regione Nord è la regione della foresta amazzonica);
ç il grande numero di persone che si trovavano fuori della loro sede elettorale a causa della emigrazione e che non avevano trasferito la residenza;
ç la povertà e la miseria della popolazione che non creano le condizioni per un’effettiva partecipazione politica;
ç l’aumento del disinteresse per lo strumento politico e democratico delle elezioni.
A dieci anni dalla fine della dittatura militare le istituzioni della democrazia formale brasiliana si mantengono, ma la crisi economica è aumentata, facendo crescere l’esclusione sociale. Questo fattore, unito allo spettacolo della corruzione dei politici, crea un clima di sfiducia verso le istituzioni che si riflette in una diffusa apatia elettorale.
Due domande inquietanti pesano sul futuro della democrazia brasiliana: può sopravvivere una democrazia in un contesto di apartheid o esclusione sociale e che tipo di democrazia sarà mai questa? Il mantenimento delle regole del gioco democratico sarà sufficiente per creare le condizioni per il superamento dell’esclusione sociale? Sono due questioni correlate che hanno bisogno di una risposta in tempi brevi.

La vittoria di FHC
I candidati alla Presidenza della Repubblica erano otto, ma solamente due hanno contraddistinto la campagna elettorale e polarizzato l’elettorato. Si tratta di Fernando Henrique Cardoso e di Luis Inacio da Silva (Lula).
Il primo, abitualmente chiamato anche con la sigla delle sue iniziali (FHC), è un famoso sociologo, conosciuto negli ambienti accademici come uno dei padri della teoria della dipendenza; senatore della Repubblica ex ministro dell’economica (ministro da fazenda) dell’ultimo governo e padrino dell’attuale piano economico – Plano Real – che detta le direttrici dell’economia brasiliana. Membro di un partito di centro (PSDB), è stato appoggiato anche da alcuni partiti tradizionali di destra. La sua candidatura può essere paragonata a quella di Mario Vargas Llosa in Peù: entrambi intellettuali prestigiosi, inizialmente di sinistra, poi “convertiti” alle tesi neo liberali e che si sono ingaggiati direttamente nella politica anche a costo di sacrificare pragmaticamente qualche principio anteriore.
Il secondo – già molto noto in Brasile per aver disputato e perso le elezioni nel 1989, nel secondo turno contro Fernando Collor de Mello – è il candidato storico del PT (Partido dos Trabalhadores), delle sinistre e dei progressisti: Lula, un ex immigrato nordestino a São Paulo, operaio metalmeccanico e sindacalista che, per molti, rappresenta la speranza di un vero cambiamento, di un Brasile con più giustizia sociale, con una distribuzione più equa del reddito, delle terre, con meno miseria e povertà, che rompa finalmente con la struttura di potere che domina secolarmente il paese.
In questa elezione non c’è stato bisogno del secondo turno: FHC ha vinto al primo turno con 34 milioni di voti, più del 54% dei voti validi. Lula ha raggiunto il 27% dei voti (circa 17 milioni) e il terzo collocato, Enéas Carneiro, un candidato senza struttura partitica e con un discorso qualunquista, ha ottenuto un sorprendente 7,3%.
Fino a metà luglio i sondaggi di opinione davano Lula come favorito; a partire dalla fine di quel mese le previsioni si invertono: FHC va in testa e ci rimane fino alla fine, vincendo con quasi il doppio dei voti del secondo collocato. Cosa succede nel mese di luglio i brasiliani lo sanno molto bene: entra in vigore il famoso Plano Real, il piano economico che aggancia la moneta brasiliana (Real) al dollaro, “elimina” l’inflazione (arrivata al 50% mensile) e pretende di stabilizzare e rilanciare lo sviluppo del Paese.
Se il fattore elettorale determinante è stato il piano economico, non si devono però dimenticare altri fattori, altrettanto importanti:
ç l’immagine di FHC, persona colta, con un passato di “sinistra”, moderato, moderno;
ç il sostegno innegabile ricevuto dalla quasi totalità dei grandi mass media, in particolare della TV Globo, il canale più seguito in Brasile;
ç il sostegno della macchina burocratico-amministrativa dello Stato, ovviamente tutta con l’ex ministro dell’economia;
ç infine le poderose alleanze politiche, con partiti come il PFL (tradizionale partito di destra e numericamente secondo partito alla Camera Federale e al Senato), che detengono un buon controllo dell’elettorato su tutto il territorio nazionale.
Si può affermare che si è trattato di una successione presidenziale di fatto, giacché FHC ha potuto contare su un piano economico elaborato in funzione del calendario elettorale e con l’appoggio totale della macchina governativa.

Il nuovo quadro politico
Il nuovo quadro politico emerso dalle elezioni e dalla composizione del nuovo governo, che ha assunto il potere dal 1á gennaio 1995, ci suggerisce alcune considerazioni evidentemente di parte, perché noi, che abbiamo strenuamente appoggiato Lula e la Frente Brasil Popular formata dai partiti di sinistra, siamo rimasti ancora una volta frustrati.
La prima osservazione riguarda proprio Lula che, dopo la sua seconda sconfitta, sembra ormai “fuori gioco” per la corsa presidenziale. Anche se la sua votazione è stata espressiva e si è dimostrato l’unico in grado di contrastare FHC, l’elezione ha messo in evidenza il rifiuto dell’elettorato di eleggere un candidato di estrazione operaia e senza istruzione formale. Se Lula ha perso l’elezione, il PT e il fronte di sinistra sono cresciuti in queste elezioni: hanno aumentato il numero di deputati federali e statali e, per la prima volta, hanno ottenuto il governo di Stati importanti come Brasilia e Espirito Santo. Esistono però vari problemi per il partito, che vanno dalla capacità di mantenere l’unità interna fra le varie correnti alla capacità di strutturarsi organicamente in tutto il territorio nazionale. Ma ci sembra che la sfida più grande consista nel proporsi all’elettorato non solo come critica al sistema ma con un’alternativa reale di governo per uscire dalla crisi cronica della società brasiliana.
Il grande vittorioso è stato FHC e il suo partito, il PSDB, che ha ottenuto la presidenza e il governo dei principali stati del Brasile: São Paulo, Rio de Janeiro e Minas Gerais, che da soli producono circa l’80% della ricchezza nazionale. Le sue alleanze, a destra con il PFL e al centro-destra con il PMDB, gli permettono di poter contare su una maggioranza al Congresso mai vista nella storia politica brasiliana. FHC può inoltre contare sul successo del Plano Real, che per ora è riuscito a far scendere l’inflazione dal 50% al 2-3% al mese e a garantire la tanto sognata stabilità economica. Il governo prende possesso in un clima di tranquillità e di ottimismo mai visti nella storia recente del paese.
Politicamente, la grande incognita del governo di FHC è la sua alleanza con le forze più conservatrici e tradizionali, che si sono sempre mantenute al potere dal tempo della dittatura militare fino al governo Collor. Ci si può chiedere se la transizione “lenta, gradual e segura” promossa dai militari sia finalmente arrivata alla fine, dopo più di 15 anni. Se FHC rappresenta l’opposizione al regime, il suo vice è quel Marco Maciel che era leader del governo militare negli anni settanta, e leader del governo Collor deposto due anni fa.
Economicamente, la sfida di FHC sta nell’applicazione della ricetta neo-liberale del Fondo Monetario Internazionale, frutto del cosiddetto “Consenso di Washington”, che prevede una “àncora” nel dollaro con la relativa supervalorizzazione del Real (oggi un dollaro vale 0,85 reais), una politica di riduzione dell’intervento statale nell’economia con massicce privatizzazioni e un drastico taglio alla spesa pubblica e l’apertura del mercato brasiliano ai prodotti importati dall’estero. Per ammorbidire i risultati drammatici nel campo sociale, che tendono ad aumentare la già immensa esclusione sociale, il piano prevede delle politiche sociale compensatorie, ancora non molto chiare. La recente crisi messicana (con la svalutazione della peseta di circa 45% e il crollo della borsa) che aveva seguito la stessa ricetta del FMI ha messo in allerta il governo brasiliano e raffreddato un poco l’ottimismo regnante.