Ciao, Obama

di Monini Francesco

40.000 sfollati. Per loro, ma anche per quelli dei terremoti precedenti, ma anche per noi che il terremoto l’abbiamo sentito arrivare da lontano, come una mano ignota che scuoteva il letto o spostava le gambe della seggiola, per loro che hanno davanti un bruttissimo inverno ma anche per noi, e per tutti, i recenti «imprescindibili, fondamentali, importantissimi» appuntamenti elettorali non avranno cambiato un bel niente.

Elezioni americane (8 novembre) e referendum costituzionale (4 dicembre) potevano segnare – avrebbero potuto – segnare una svolta. Indicare una strada, una direzione di marcia, un cambiamento. Niente di tutto questo. Il lungo black-out della politica ci ha lasciati al buio. Come un interminabile terremoto. Così «i grandi appuntamenti con la storia» non sembrano avere più nessuna relazione, nessun contatto, nessuna conseguenza sulla storia e sulla vita di milioni di uomini e di donne.

Non è stato sempre così. C’era una volta, otto anni fa – e probabilmente è stata l’ultima volta – in cui la storia major sembrava interessare direttamente la storia minor. C’era una volta Barack Obama.

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Sono debitore a Barack Obama di svariate pizze.

Nella primavera del 2008 le primarie che dovevano portarlo inaspettatamente e trionfalmente alla Casa Bianca erano alle prime battute, erano davvero in pochi a puntare su di lui. Non era un milionario, non apparteneva a una famiglia influente, non aveva nulla a che fare con i poteri forti: petrolieri, banchieri e fabbricanti d’armi lo detestavano. In più, anzi, in meno, era un nero. Un afroamericano, un figlio di immigrati, con un nome e una parentela in odore di islam.

Obama, chi? Così, scommettendo con amici e conoscenti sulla sua «impossibile» elezione, ho guadagnato più di una pizza. Quando era ancora indietrissimo nei sondaggi (anzi, quando i sondaggisti non lo prendevano neppure in considerazione), la sua figura, le sue parole, i suoi gesti non apparivano soltanto «nuovi» ma avevano un tale carica di speranza (di profezia?) che ero sicuro avrebbero contagiato la società americana. Yes we can, ce la possiamo fare, ripeteva Barack Obama girando i quattro angoli d’America. Non erano solo un bello slogan, era la promessa della fine della povertà per decine di milioni di persone, per i tantissimi per cui non solo il «sogno americano» ma anche una vita dignitosa era un traguardo irraggiungibile: la promessa di una sanità pubblica che si prendesse cura dei più deboli e dei più poveri, di un’economia non asservita ai lupi di Wall Street ma attenta all’interesse e al bene comune.

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Ciao, Obama: il prossimo gennaio «il primo presidente nero» della storia americana saluterà tutti e tornerà a casa. Il bilancio dei suoi due mandati e di otto anni di presidenza è particolarmente deludente. Soprattutto se lo confrontiamo con le speranze e le attese suscitate dalla sua elezione. Certo, in America l’economia va un po’ meglio (meglio che nella vecchia Europa), ci sono un po’ meno disoccupati di quando eravamo in piena crisi, ma il merito sembra da attribuire più al ciclo economico che alle politiche governative. Ma i disoccupati restano e resta il grande malcontento di quelli che sono precipitati sul fondo della piramide sociale. Restano decine di milioni di poveri senza accesso al servizio sanitario (i provvedimenti di Obama sono stati appena un accenno di un vero welfare). Restano i giovani e le famiglie che si devono indebitare per tutta la vita per frequentare le università. Restano più di 200 milioni di armi comprate in negozio come le mele o due etti di burro, pistole e fucili in mano ai cittadini che, a norma di legge, possono difendersiàe farsi giustizia da soli come nel vecchio West. Resta la pena di morte in molti Stati dell’Unione. Resta la piaga del razzismo in un clima di crescente tensione interrazziale con gli episodi di scontri e di violenze di cui continuamente leggiamo.

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E fuori dall’America? Definire drammatico lo scenario geopolitico mondiale è un eufemismo. Obama è riuscito a «non mandare» i soldati americani in giro per il mondo a «difendere la libertà» come il suo predecessore. Si è limitato a inviare caccia bombardieri e droni. Ha evitato di aggiungere disastri a disastri, ma ha assistito impotente al moltiplicarsi delle guerre in Asia e in Africa e all’ingrossarsi a dismisura della folla dei profughi. E sembra aver perso anche la lotta contro i simboli dell’antico imperialismo e dello spregio dei diritti umani: nonostante le sue ripetute promesse, il carcere-lager di Guantánamo non è ancora stato chiuso.

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Mia figlia Amelia mi manda su WhatsApp splendide foto della metropolitana di Mosca e dei palazzi di Peter (è il nome confidenziale con cui i russi chiamano San Pietroburgo). Studia lingue, anche il russo («una lingua stupenda, papà!») e starà qualche mese nel grande freddo. Le chiedo: «Ma che dicono i giovani di Putin, il nuovo zar di tutte le Russie?» Ma i russi, anche i giovani russi, non dicono nulla: la politica interessa loro meno di zero.

Non amo Putin. È talmente ridicolo che mi sembra un leader potenzialmente pericoloso. Come è ridicolo (e pericoloso) avere a capo degli Stati Uniti il ciuffo biondo di Donald Trump. Ma non credo a una nuova «guerra fredda» che non pochi commentatori vanno evocando. Non solo perché Russia e America non governano più il mondo: sono apparse altre potenze e altri poteri; e soprattutto il mondo appare «non governabile». Tanto ingovernabile che non sembra possibile neppure mettersi d’accordo per una tregua che consenta la salvezza a un milione e mezzo di civili intrappolati nell’antica e martoriata città di Aleppo.

Ho anche l’impressione che, se potessimo fare un’indagine al riguardo scopriremmo che il cittadino medio russo, come il cittadino americano, come il cittadino italiano, hanno maturato la stessa distanza, lo stesso disinteresse, la stessa sfiducia per chi ci governa.

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Sbatti il mostro in prima pagina. Ecco, appunto. I ferraresi vincono la prima battaglia anti-migranti è il titolo di prima pagina del quotidiano Libero del 27 ottobre. Va bene, peggio di Libero non c’è niente, ma per un ferrarese rimane una bella mazzata. Roba da aver vergogna a uscire di casa.

Credo che quasi nessuno tra i lettori sia mai stato a Gorino, un paesino di pescatori di vongole, fatto di tante casine colorate tutte in fila. Gorino è l’ultimo lembo del polesine ferrarese, là dove terra, laguna, mare e fiume si incontrano. Uno dei tanti angoli d’Italia, un luogo con una sua poesia (leggete il minuzioso, topografico, visionario e bellissimo Verso la foce di Gianni Celati, Feltrinelli) ma sicuramente non un posto per turisti e vacanzieri.

Gli abitanti di Gorino, almeno un centinaio di loro, hanno visto arrivare i migranti (Mamma li turchi!) e hanno chiuso le strade di accesso al paese alzando le barricate (No pasaràn!). Nessuno li aveva avvertiti (il prefetto si è «dimenticato» di avvisare il sindaco),

in compenso la Lega di Salvini da mesi faceva propaganda porta a porta contro l’invasione degli africani sporchi e cattivi.

Ma non era un’invasione. Era solo un pulmino con 12 donne profughe, una di loro era incinta, diretto verso l’Ostello vacanze di Gorino assolutamente vuoto.

Dopo le barricate, dopo il dietrofront del pulmino, è arrivato il ripensamento. Alcune famiglie di Gorino (ma non era il paese più razzista d’Italia?) si sono offerte di prendere in casa le donne profughe.

Non mi dilungo sulla morale della favola. Mi pare evidente.

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Un terremoto, si sa, non si può evitare. La scienza che studia faglie, sismi e vulcani ha fatto grandi passi in avanti negli ultimi anni – in Italia, così leggo, siamo all’avanguardia – ma un terremoto non si può prevedere. Dove, quando, di quale intensità? Non possiamo saperlo.

Quello che è prevedibile, ma altrettanto inevitabile (almeno sembra) è l’invasione di ogni terremoto nei nostri media.

Anche per gli ultimi della serie – da agosto a oggi mentre vi scrivo – morti e feriti, interi paesi al suolo, decine di migliaia di senzatetto ad affrontare un lunghissimo inverno. Certo, è giusto informare, mostrare le immagini del disastro, ascoltare le voci dei soccorritori e dei superstiti. Ma i nostri media non si limitano a questo. Non fanno informazione di servizio. Trasformano la tragedia in spettacolo, in intrattenimento, in «ritornello della commozione».

Finite le dirette dei telegiornali, ecco che il succulento «argomento terremoto» passa a Uno Mattina, Pomeriggio Cinque, La vita in diretta e in tutti i salotti di tutte le reti. Per giorni, per settimane, il terremoto prende il posto dei vari delitti insoluti (quelli non invecchiano mai) e incomincia una strana gara per mostrare l’immagine più tremenda o presentare la storia più commovente. Perché ogni salotto televisivo ha diritto al suo sopravvissuto.

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Un mese dopo le elezioni americane sarà la volta del referendum costituzionale. Per una volta sono d’accordo con Scalfari, l’endorsement di Obama non sposterà molti voti. Piuttosto, credo che Matteo Renzi e il suo ottimismo militante verranno favoriti dallo spot pubblicitario con cui il governo ha inondato tutti i canali televisivi.

Stiamo parlando di un messaggio che dovrebbe essere assolutamente imparziale, non di uno spazio pagato da questo o quello schieramento politico. E all’apparenza sembrerebbe un semplice invito alla «non astensione», a compiere cioè il proprio dirittodovere di andare a votare. Ma a parte il fatto che nel penultimo referendum (quello su trivelle e acqua pubblica) lo stesso Presidente del Consiglio invitava gli elettori a non votare, lo spot sul referendum costituzionale appare tutt’altro che neutrale.

La bandiera italiana mossa dolcemente dal vento, le domande referendarie tutte indirizzate al Sì, e in ultimo quel giovane seduto sul prato che guarda l’orizzonte lontano. Come dire: se sei un vero italiano, ottimista e positivo, se credi nel futuro… voterai Sì. Al contrario: se sei un disfattista o, peggio, un traditore della patria, voterai No.